Ogni scritto destinato ad andarsi a posare sulla pagina bianca sembra quasi nascere di sua spontanea volontà. Osserviamo e viviamo fatti, leggiamo cose, dialoghiamo con persone, proviamo sensazioni: tutto questo materiale esistenziale viene distillato dalla mente che lo raffina in materiale concettuale. Da lì prende il via una sequela di rielaborazioni interiori che per la stragrande loro quantità si svolgono ad un livello inconscio. Ecco da dove deriva lo “stupore dell’idea nuova”, spesso protagonista delle argomentazioni di chi si confronti con la sfida della scrittura. Quasi sempre, la maggior parte delle idee che ritroveremo alla fine fissate nero su bianco, ci sembra di non averle mai possedute prima del momento di prendere in mano la penna o di mettersi davanti alla tastiera. La scrittura è capace di andarle a stanare laddove sono nascoste, negli angoli della mente che non sospettiamo nemmeno di possedere. Per questo ogni scritto da noi concepito ci appare spesso come dotato di volontà indipendente.
In questa prospettiva, il mio futile scritto odierno avrebbe voluto Lina-Wertmullerianamente intitolarsi: «Peripazzie lungo l’argine, ripassando a mente vocaboli greci, mentre carrettoni di letame industrializzano l’aria con post-modernizzante odore di vacca». Parendomi però eccessivamente esteso un simile titolo, mi sono accontentato di riassumere il tutto con una frase in inglese maccheronizzato.
«Real estate», nella mia accezione anarco-linguista, non ha infatti nulla a che fare con la triste espressione commerciale alla quale in effetti corrisponde in inglese. «Real estate» qui significa «la vera estate». La vera estate, per me, ci ha fatto visita soltanto nell’ultima quindicina di giorni, tra fine settembre ed inizio ottobre. Disconosco la dignità di estate a quel forno mal travestito da incubatrice di torture che sono state le interminabili giornate di agosto. L’estate deve presentare fra i propri ingredienti la gradevolezza, la fuggevolezza gioiosa e l’impressione di tempo sospeso. Niente di tutto questo mi è sembrato di percepire mentre uno stuolo di minchiosi giornalisti continuava a fracassarceli ripetendo che stava arrivando Caronte, e poi Lucifero, e poi la vacca porca in persona.
La mia «real estate» di questo scorcio d’autunno ha portato anche due elementi non immaginati solo fino ad un paio di mesetti fa: le camminate sull’argine ed il greco antico. Sull’argine ci sono sempre andato in bici, ma ho scoperto che a piedi, inopinatamente, la bellezza raddoppia. Domenica mattina scorsa, i due piaceri si sono fusi in uno: passeggiavo sull’argine nel pieno della ritrovata originalità estiva, ripetendo mentalmente i miei primi vocaboli greci stipati nella memoria. So di apparire stonato oltremodo rispetto alle convinzioni comuni diffuse riguardo alla consistenza di cosa rappresenti un piacere nella vita e cosa no. Non mi crederete dunque, ma vi garantisco che ripetere a mente, sussurrandole appena, parole greche imparate a memoria, mentre i piedi avanzano semi-automatici nel gradevole confronto col suolo, reca nell’animo uno dei diletti più futilmente profondi che si possano immaginare.
Per non dire poi del fatto che a Gillipixiland l’odore di vacca è un valore paesaggistico ed urbanistico aggiunto. Chiunque abbia abitato in un paesino di campagna ne conosce anche la familiare atmosfera olfattiva. I più disparati effluvi di varia natura agro-zootecnica sono all’ordine del giorno. A Gillipixiland, causa l’intensificazione produttiva degli ultimi decenni, questa caratteristica odorosa si è fatta vieppiù spavalda. L’assedio stallatico sempre più serrato, del quale son fatte oggetto le ravvicinate mura paesane, provoca spesso un rappuzzamento diffuso della stessa piazza e dei borghetti centrali attigui. Si possono ammirare allora scene crudamente ironiche, magari nel bel mezzo di qualche evento mondano, che pur nel piccolo centro Gillipixilandese talvolta viene organizzato. Giunte dalla città per l’appuntamento di gala, gran signore imbellettate ed elegantissime scendono dalle loro macchinone di lusso nella deliziosa piazzetta ed ecco subito che un’ondata pungente di odore di vacca è lì pronto a beffeggiarsi insidioso di quelle sofisticate narici.
Eppure l’odor di vacca lo farei rientrare nel novero delle puzze simpatiche. Certo, giusto giusto sentito di sfuggita ogni tanto, mica da farne la colonna olfattiva di una vita. Sarà per quel suo rimandare a sensazioni di vitalità, come fattore primario e protagonista fondamentale nel ciclo dell’eterno ritorno vegetale. Prendete ad esempio un altro tipo di puzza, questa volta di origine urbana: la puzza di diesel. Questa sì che è sommamente antipatica ed odiosa, e molto triste, col suo carico venefico assai prossimo ad idee di irreversibili combustioni devastatrici. La puzza di vacca è invece allegra, rubiconda, ridanciana quasi, ma pur sempre densa di un suo carico misterico, come capita un po’ con tutte le puzze non prive di fascino.
Quello che non vi ho detto all’inizio è che, mentre ero intento nel mio ripasso dei primi rudimenti del caro idioma classico, posando un piede dietro l’altro sulla tappeto del suolo natio, parecchi carrettoni di letame, in un furioso via vai, si stavano avvicendando con cadenza forsennato proprio nei paraggi del mio erudito vagare. Da tre giorni o più andava avanti l’incessante andirivieni, per andare a spandere il prezioso nutrimento della terra, nei campi oltre la cintura arginale. Al ritmo di 3 o 4 carrettoni ogni mezz’ora, per intere giornate, fate un po’ voi il conto della mole abnorme del prodotto odorifero movimentato.
La meccanizzazione estesa di tutti i processi produttivi in agricoltura ha comportato due effetti estetici collaterali. Uno è dato appunto dall’amplificazione acuta dell’odore di vacca, per ovvie questioni d’incremento quantitativo.
L’altro consiste nella mutazione del paesaggio dovuta al diverso modo di confezionare fieno o paglia. Quando ero bambino, nei campi erano disseminate miriadi di piccole balle a parallelepipedo. Queste ispiravano l’idea di un momento di transizione tra la forza antropica direttamente applicata al lavoro ed i nuovi sistemi meccanici. La vecchia balla di fieno a cubetto bislungo, pur impacchettata grazie all’ausilio di un macchinario, era tuttavia sollevabile con forza motrice umana, coadiuvata da un antichissimo attrezzo, il forcone. Le sue fattezze limitate si proporzionavano forse meglio alle dimensioni degli altri elementi distribuiti per l’ambiente agricolo: alberi, cespugli, fossi, zolle di terra arata, piante di mais, distese di spighe di grano.
Ora ci sono i balloni cilindrici. Del tutto affidati all’energia meccanica, hanno tramutato i panorami agricoli in suggestivi sfondi da cartolina lunare. Vedere una delle nuove imballatrici in azione è un piccolo spettacolo. Lo strumento preposto, attaccato al seguito del trattore, risucchia pazientemente fieno o paglia con la minuziosità di una balena intenta a filtrare plancton attraverso i suoi fanoni. Quando il ventre metallico è sazio di cibo erboso, una sirena avverte il conducente, che arresta il trattore. Ne seguono alcuni minuti di rumorose digestioni meccaniche. Alla fine, una nuova esclamazione sonora annuncia la schiusa del portellone, dal quale, come da una enorme chioccia d’acciaio, fuoriesce l’enorme uovo vegetale, che si va ad adagiare sul suolo rasato, con felpati rimbalzi rotolanti.
Camminando, pensando, osservando, rielaborando mentalmente, ripetendo parole greche della prima declinazione, con le narici pervase dall’insistenza di un odore di vacca postmodernamente diffuso, ad un certo punto della mia passeggiata ho provato una vaga sensazione di estasi profana. Il desiderio non meglio precisato di divenire partecipe con ogni singolo atomo della mia persona al tutto che mi circondava. Una tensione all’annullamento della mia individualità come persona, deflagrata finalmente nell’infinitezza inafferrabile del cosmo.
Ovviamente sono state impressioni solo di pochi attimi e l’unico risultato ottenuto è stato ritrovarmi fra i piedi una strana tipologia di funghetti. Il gambo era molto esile e lungo, ricordava un filo di nylon, o qualcosa di vagamente attinente all’ambito elettrico La capoccia aveva le fattezze di una valvola o di uno spinotto similmente pseudo-elettrico. «...Toh...» è stata l’unica conclusione che ne ho saputo trarre, «...non solo l’odore di vacca e le balle di fieno: adesso anche i funghetti sono cambiati...».
2 commenti:
Gilli, le tue descrizioni sulla natura e annessi sono gradevolissime e deliziose, e mi riportano indietro nel tempo, a quando abitavo in un piccolo paese di provincia. io comunque sono una di quelle per cui l'estate reale e' quella rovente :) non ci posso far nulla, e' così. Baci afosi ;)
@->Maria Rosaria: grazie, EmRose
:-) lo so, sono un campagnolo inguaribile :-) non è che io sia contrario in assoluto all'estate calda...ma quando la calura non molla per settimane, allora vado in crash fisico-mentale :-) il mio ideale estivo è un bel caldo, inframezzato da giornate di pioggia rinfrescante :-) le estati scorse mi sono piaciute, l'ultima mica tanto :-)
Bacini con meteo-bizantinismi :-)
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