sabato 28 dicembre 2013

Little hawk takes a walk



La mattina di Santo Stefano, ho passeggiato con un falco, mentre forte s’intensificava dentro di me lo sgomento nel domandarmi per l’ennesima volta: se esistono cose simili al mondo, come mai la gente insiste a drogarsi? (anche se al mondo, ne sono certo, esisteranno tantissime mie controparti a loro volta pronte a domandarsi: se esistono le droghe al mondo, come mai Gillipixel insiste a passeggiare sull'argine?).

La vasta piana era sferzata da un vento tignoso, che si faceva ancor più insolente imboccando la salita dell'argine ed incamminandosi tutto lungo la sua cresta. Le folate forzavano proprio il viso, il petto, le braccia, tendevano quasi a respingerti indietro. Mi fosse successo tempo fa, le avrei prese come un segno negativo, una sorta di avversità della natura nei miei confronti. Non adesso, però. Mi suonavano più come rudi carezze elargite per rendere ancor più interessante la mia camminata. Era stupefacente la differenza fra le forze del soffio ventoso percepito “a terra”, e quello che lambiva invece la sommità dell'argine. “Lassù”, l'intensità raddoppiava, la possanza eolica ti muggiva sui denti, costringendo a “cinesizzare” lo sguardo, facendo indulgere a repentine commozioni lacrimevoli non richieste.

Nel mio piacevole arrancare, vedo profilarsi all'orizzonte, a una decina di metri da terra, la tipica sagoma di un falchetto in stallo sopra un praticello sottostante. Era tutto preso nella sua classica tecnica predatoria, che già di per sé è un piccolo spettacolo a vedersi (ne parlai anche in altra occasione, con più buffe modalità): fermo in alto, fra i flutti ventosi, fa mulinare le ali in modo da stabilizzare la sua posizione, pare quasi incollato al cielo nella sua fissità guardinga. Sta lì inchiodato all'azzurro per interminabili minuti, poi d'un botto si butta giù, a ghermire un topolino intravisto fra l'erbetta gelida, o qualche altra piccola vittima semovente al piano.

Stavolta mi si è parato dinnanzi ad agevole portata d'occhio, grazie anche all'aiuto della lieve altura. Mi sono fermato a contemplarlo con agio, lui ha ripetuto diverse volte la sua manovra e poi ha accennato a proseguire il volo in direzione del mio stesso cammino. Nella mia presunzione umanoide, mi sono auto-convinto che vagabondasse insieme a me. Dove il tratto d'argine si fa lungo rettilineo, è iniziata allora una sorta di danza aerea, con piccole planate, discese ardite e tante risalite da far invidia a Mogol in persona. Il falchetto proseguiva così volteggiando sempre nella mia direzione e d'un tratto si è voltato, volandomi di fronte, ma senza avanzare tanto. Rimaneva lì, ondeggiando sulla scia del canalone di vento, con la sua elegante apertura alare tutta in mostra, come fosse indirizzato fra i turbini di una galleria di sperimentazioni aerodinamiche. Per alcuni attimi nel suo fluttuare ha ballonzolato a destra e sinistra, come si vede fare da quegli equilibristi all'ultima moda, zampettanti sul loro filo elastico teso tra due picchi di roccia.

Si è anche posato sul piano dell'argine, alcune centinaia di metri più in là. La sua piccola camminata di uccelletto vispo era altrettanto gentile ed aggraziata del suo modo di volare. Mi sono arrestato per non andargli troppo appresso e spaventarlo. Siamo stati alcuni minuti così, io fermo e lui che saltabeccava tenendo d'occhio un po' il suolo e un po' me. Poi ha preso di nuovo il volo e dopo aver condiviso per un tratto il cammino con me, se n'è andato per le sue faccende di falchetto gioioso.

Sul momento mi sono rammaricato di non avere con me la macchina fotografica. Ma ripensandoci poi, ho capito che era stato molto meglio così. Ci sono attimi vissuti che nessuna macchina fotografica potrà mai fissare, nessuna cinepresa, nessun registratore di suoni o di immagini, nemmeno il più sofisticato e tecnologicamente all'avanguardia che riusciranno mai ad inventare. Il bello di queste inafferrabili pieghe della vita sta proprio nel loro essere catturabili in misura molto parziale soltanto con le parole. E quando capitano simili circostanze fuggevoli, si capisce ancor di più l'importanza del linguaggio, il mezzo di contatto, il tratto d'unione fra gli uomini più antico e forse umile di tutti, ma sempre il più duttile, il più plastico, quello in grado di fissare i ricordi, lasciando che la loro apparenza svanisca, e serbandone soltanto l'essenza intima, altrimenti impenetrabile.

La parola è probabilmente il tramite espressivo che più di tutti rispetta i significati profondi della vita, serbandone il loro essere transeunti, fuggevoli, non fissabili, come il volo di un falchetto, una mattina di dicembre sull'argine.




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