Al terzo posto, nella classifica delle entità evanescenti e semi-leggendarie, dopo gli unicorni e le sirene, metterei sicuramente i soffitti dei supermercati. Sono quasi certo che se si facesse un’indagine di mercato (anzi, nella fattispecie “di supermercato”: eh-eh! ah-ah! uh-uh! ho fatto la battuta...), interpellando ciascun cliente, all’uscita di un centro commerciale o luogo equipollente, e interrogandolo riguardo alle fattezze del soffitto dei locali in cui ha appena percorso centinaia di metri al seguito nel proprio carrello, con indefessa spavalderia, quello risponderebbe: «…Boh?...».
L’ambiente supermercatesco si presenta per sua natura virtualmente privo di tetto. E’ talmente potente l’energia polarizzatrice che scaturisce da tutto il congegno consumisticheggiante apparecchiato lungo il piano della visione orizzontale, tra scaffali, banchi, banconi, offerte due per tre, sodomie fai da te, che a nessuno degli avventori passerebbe mai minimamente per la capa di alzare lo sguardo al di sopra dei 90 gradi, misurati a partire dalle tomaie delle proprie scarpe. Non c'è niente da fare, è una legge fisica più forte di qualsiasi volontà individuale, anche la più ferrea. Il cliente del supermercato è congenitamente incapace di sollevare lo sguardo sopra il piano dell'orizzonte merceologico in cui è immerso. Sarebbe come chiedere ad un campione statisticamente selezionato di maschi mediamente giovani e mediamente eterosessuali, di saper descrivere il colore degli occhi di una modella vista sfilare cinque minuti prima, completamente nuda nella sala d'aspetto del dentista.
Ogni supermercato di fatto, per quanto può constare a chi lo frequenta, è dunque un grande locale a cielo aperto.
Abitando in un luogo come Gillipixiland, capita poi di trascorrere anche intere settimane senza vederlo, il cielo. Quello vero. Le nebbie di tanto in tanto si caricano di un tonnellaggio talmente intenso, da non lasciare scampo anche per intere settimane. L'esperienza ondeggia fra il mistico e il futuristico: non poter vedere l'azzurro lassù per così tanto tempo, o non riuscire a sbirciare neanche una nuvoletta, anche se vagamente grigia, ma almeno un po' alta sopra la testa, causa ai propri pensieri un bislacco effetto “pentola a pressione”. Tutto ciò che è contenuto nella mente si comprime a delle densità inenarrabili. Si forma nella scatola cranica una forza centripeta come quella di un buco nero: nessuna idea riesce più ad uscire fuori.
Il fenomeno per di più si amplifica e si complica a dismisura, se si considera il mitragliamento informativo proveniente ogni minuto della giornata, dalla tele, dai giornali, dal web, ecc. Stai lì, trascorri i giorni sotto la tua cappa di nebbia spietata, sempiterna, con il cranio che via via si va farcendo di suoni, impressioni, mozziconi di concetti, fino al punto di trovarti quasi ad un passo da un tuo personale nirvana, assiso alla destra di Lola Falana. E intanto la mente rimbomba di echi confusi e compressi: forconi, primarie, larghe intese, Renzi, Cuperlo, agibilità politica, De Falco-Schettino, «...Capitano, salga sulla biscaccina e torni a bordo, cazzo!!!», forconi, porconi, porcellum, mattarellum, decadenza, tavolo delle contrattazioni, in-cos-ti-tu-zio-na-li-tà, tattà, taratatta-tattà.
A volte però le due dimensioni esistenziali intrecciano i propri sentieri, e succede allora di sperimentare delle mini-implosioni emozional-meditative. Come qualche giorno fa, quando ho fatto una capatina ad un supermercato di discrete dimensioni, in un paese vicino a Gillipixiland: Cateatersville. Mi trovavo dunque nel reparto ortofrutta, immerso senza soluzione di continuità nel mio trip lineare di foschie mentali prolungate. Ero completamente assorto in un tipico sguardo mono-direzionato da avventore di supermarket, le pupille rigorosamente fisse sul cavolo cappuccio, con solo qualche concessione, in visione periferica, all'occhio languido di un povero pangasio, appecoronato a breve distanza, dietro alla vetrina del bancone del pesce.
Quando, ad un tratto, dall'immancabile tramestio musicale di fondo inesorabilmente propinato ai clienti, si levano con potenza evocativa le note di «Creep», dei Radiohead. E' una canzone che ha sempre avuto un potere catartico molto forte su di me. Soprattutto sul finale, quando Thom Yorke si produce in quell'ululato fantastico, a mio avviso una delle sequenze di note più melodicamente liberatorie della storia del rock. Ecco dunque partire lo strascicato, elegantissimo strazio canoro a chiusura di «Creep». Per l'occasione l'urlo musical-belluino mi fa da stura-lavandino mentale, e mi trascina lo sguardo in alto, dove faccio appena in tempo a cogliere tutta la grettezza del soffitto di quei locali commerciali, prima che la mia mente voli ancora più su, sfondando il plafone, perforando la coltre di nebbia e planando nel mondo rarefatto dell'ultra-ortolanità redentrice.
Con questa energia trans-mercatale ancora in corpo, mi accingo a proseguire il mio giro carrellato, finché giungo in prossimità di uno scaffaletto ricolmo di simpatici peluche. Riconosco senza meno una teneroide riproduzione dello scoiattolino dell'«Era glaciale», con tanto di adorata nocciolina, e una coda talmente peluchosa, che devo fare appello a tutta la mia consapevolezza anagrafica, per riuscire a sottrarmi alle lusinghe dell'acquisto complusivo.
Il tempo delle folgorazioni quotidiane non doveva però essersi esaurito con l'epifanico ascolto di «Creep», perché ad un certo punto, intravedo nella pelucheria assortita, una vellutata riproduzione di Peppa Pig.
Peppa Pig è un fenomeno dei nostri giorni. E' un'icona indiscutibile, capace di lasciare una traccia indelebile su tutto il profilo di un'epoca. Ci scommetto che fra parecchi anni, quando nessuno si ricorderà più di Berlusconi, Letta, Alfano, le larghe intese, lo spread e Flavia Vento, Peppa Pig continuerà invece ad essere annoverata come il vero termometro sociale e culturale dei primi anni '10 del ventunesimo secolo. Mi sono interrogato spesso sul successo incredibile che Peppa riscuote fra i più piccini. Rimangono letteralmente incollati alla poltrona, quando parte l'ineffabile sigletta, con le tenere presentazioni a grugnito. Per puro dovere documentativo (e solo per esso, si badi bene...), mi sono allora sottoposto alla visione di vari episodi.
Volevo capire come fosse possibile che un insieme di suggestioni visive e sonore portate ad un estremo ultimo della semplicità così avanzato, riuscisse far scaturire un fascino talmente potente nei piccoletti dei nostri giorni. Non l'ho capito, anche perché la fascinazione è stata talmente intensa, da sopraffare anche la mia obiettività di studioso. Sono divenuto io stesso un Peppa-pigghista certificato, senza quasi che me ne rendessi conto.
Vedere quel piccolo simulacro peppesco nello scaffale del supermercato, mi ha tuttavia aperto un vago spiraglio esegetico. Com'è noto, Peppa, così come tutti i suoi amici cartonati, non conosce distinzione tra profilo e fronte. I suoi occhi stanno entrambi sempre e comunque cubisticamente al di qua del naso. La versione peluche di Peppa, per ovvie esigenze tridimensionali, presentava invece la scansione nasale fra un occhio e l'altro.
Il piccolo cortocircuito formale peppeggiante mi ha riportato alla memoria certe cose lette sulla storia dell'arte di Ernst Gombrich, riguardo all'arte egizia: «...In un genere di pittura così elementare è facile capire la tecnica dell'artista, che è press'a poco adottata nella maggior parte dei disegni infantili. […] Tutto doveva essere presentato dal punto di vista più caratteristico. […]...l'arte egizia non si basava su ciò che l'artista poteva vedere in un dato momento, quanto piuttosto su ciò che egli sapeva appartenere a una determinata persona o a un determinato luogo...».
Pensando allora che un po' tutta l'estetica di Peppa segue in qualche modo questa logica visiva ordinatrice, mi sono detto: «...Vuoi vedere che il segreto del fascino di Peppa si nasconde dietro la patina dei secoli, fra gli anfratti piramidali della concezione artistica egizia?...».
E così con questo interrogativo nella mente, ormai sturata dal tappo nebuloso-informativo, negandomi fra mille tormenti vetero-fanciulleschi anche l'improvvido acquisto del felpato simulacro di Peppa, mi sono incamminato verso l'uscita del supermercato, dove ho constatato con gioia che il sole era ritornato a farsi vedere alto nel cielo.
2 commenti:
Ellapeppa! Rifletterò sulla tua lettura gombrichana, nel frattempo - reduce dalla spesa - mi chiedo: ma come diavolo era il soffitto?
@->Rosa: eheheheh, è inutile che ci ripensi, cara Rose :-) non ti tornerà in mente, è l'implacabile legge del soffitto dei supermercati :-)
Grazie per il tuo simpatico commento :-)
Bacini controsoffittati :-)
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