venerdì 31 ottobre 2014

Né cicisbei, né bottegai


Da piccolo avevo orrore del Comunismo. Diventato grande, continuo ad avere orrore del Liberismo estremo. L’apparente incoerenza, del tutto voluta, fra le due affermazioni, è presto spiegata.

Non sono stato un bambino problematico, ma problematizzato sì. Anche se di questo fatto mi sono reso conto solamente tanti anni dopo (per fortuna). Ho sempre cercato di osservare le cose, per così dire, “di lato”. O meglio, ogni volta che ci riuscivo, anche “dal di sopra”. Non voglio mettervi in allarme: niente paura, anche io stavo tutti i pomeriggi a perder tempo al campetto con gli amici, oppure a gironzolare in giro con la bici, alla ricerca di qualche guaio da combinare. Non è questo il punto. Il punto è che fin da un’età precoce, mi è sempre piaciuto prestare ascolto alle cose da grandi che uscivano dalle bocche dei grandi. Ci capivo un centesimo, ma il telegiornale lo ascoltavo. Ci capivo ancora meno, ma i discorsi degli adulti non mi annoiavano.

In qualche modo intuivo (anche se non me rendevo conto pienamente, allora, sempre per fortuna) che uno dei destini più meschini che ci possano esser riservati è quello di rimanere impelagati, rispetto alla Storia che ci scorre intorno, nel suo proprio “particulare”. Non avere la forza di elevare lo sguardo al di sopra delle contingenze storiche: questo è un guaio. L’ho imparato ancor meglio in seguito, anche studiando un po’ di filosofia. La secolare avventura umana non è del tutto sbagliato osservarla metaforicamente come un grosso organismo vivente, come un fenomeno globale, che in grande riflette la sostanza e i meccanismi dei fenomeni reali minuti.

Così come l’uomo singolo, anche la Storia allora ha bisogno di vivere sopra degli equilibri. Non siamo totalmente sociali, ma non possiamo essere completamente individuali. Abbiamo bisogno del sostegno collettivo, così come ci serve, al pari dell’aria che respiriamo, la nostra libertà individuale. Lo capivo anche io, già da bambino, soltanto facendo una semplicissima auto-osservazione su me stesso (se mi si passa la ridondanza). Stare al campetto tutto il giorno era stupendo, ma veniva il momento in cui mi rendevo conto che bisognava tornare a casa. La libertà, anche solo a pensarla assolutamente senza vincoli, smetteva subito di avere significato, anche per quello che poteva capire l’ingenuo intuito di un pre-sbarbatello.

In apertura ho parlato di Comunismo e di liberismo, intendendo i due termini in senso più che altro paradigmatico, e non proprio in riferimento alle loro specificazioni storiche. Con Comunismo (ben consapevole che come fenomeno storico esso non è stato solo questo) intendo un estremo “ideale”, tipizzato, di concezione della società, che riconosca come unica dimensione dell’uomo, la dimensione sociale.

Lo stesso per liberismo: anche qui, intendo la condizione “ipotetica” di sbaragliamento di ogni regola che limiti il “libero” agire umano, un estremo “ideale”, tipizzato, di concezione della società, che riconosca come unica dimensione dell’uomo, la dimensione individuale.

Per approfondire cosa intendo, l’opponibilità dei termini potrebbe essere specificata anche con “statalismo” da una parte e “privatismo” dall’altra; “collettivismo” opposto a “particolarismo”.

Ora, non ci vuole un genio a capire che, almeno da trent’anni a questa parte, la bilancia si è pericolosamente messa a pendere dalla parte del piatto che sorregge l’anelito individualistico della visione sociale. E questo non va per niente bene. Il mondo pretende di stare sempre al campetto a fare i cavoli propri. Ma a casa ci sono da fare i compiti, da mangiare la minestra di verdura e andare a letto dopo Carosello.

La cosa curiosa è che ho riflettuto quasi da sempre su queste idee e un bel giorno, leggendo un bel libro, in qualche modo ce le ritrovo dentro. Trovando ancora una volta la conferma del fatto che la letteratura ci parla della nostra vita. Mutate tutte le mutande possibili; fate tutti i distinguo e gli adattamenti del caso; modellate con spirito interpretativo e adeguate il discorso nel nome del saggio motto di Sant’Agostino («…la lettera uccide, lo spirito vivifica…»). E poi ditemi se non è una soddisfazione leggere cose di questo tipo:

«…La morale che da tutto ciò si ricava è che chi entra nell’ambiente di corte compromette, se è felice, la sua felicità; e s’espone comunque a far dipendere il suo avvenire dagli intrighi d’una camerista. D’altra parte, in America, in regime repubblicano, occorre rassegnarsi a fare tutto il giorno la corte sul serio ai bottegai ed a ridursi stupidi come loro; col compenso, a rovescio, che là non c’è neanche l’Opera…».

La Certosa di Parma” (capitolo XXIV) – Stendhal, 1839


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