lunedì 27 aprile 2015

3 - Fisica maccheronica – La teoria del “no-vimento”


Nell’ambito del nostro corso di fisica maccheronica, passiamo oggi a illustrare la terza lezione del ciclo. Il tema oggi trattato si pone in qualche modo in forma di corollario rispetto alla dissertazione riguardante le “particelle ombrello”, considerate la scorsa volta nell’ambito del fenomeno della “salamanza corpuscolare”.

Le “particelle ombrello” hanno posto dei fortissimi dubbi riguardo all’esistenza del movimento (dobbiamo tenere sempre presente uno degli assiomi della fisica maccheronica, che così recita: “…la fisica maccheronica non ha certezze, ma solo dubbi…”). La teoria che esponiamo oggi, detta del “no-vimento”, affronta la medesima questione del moto dei corpi, ponendola in dubbio tuttavia da un altro punto di vista.

Sappiamo che per concepire il movimento, in genere è necessario contemplare un oggetto in mutamento di posizione, rispetto a punti di riferimento supposti come fermi. Gli elettroni ruotano intorno a nucleo dell’atomo. Un insieme di nuclei atomici più le loro orbite forma un oggetto, che si muove rispetto allo scenario fermo costituito da altri atomi tutti intorno (ad esempio: i nuclei degli atomi del mio mignolo coi loro elettroni si muovono, quando me lo infilo su per il naso, mentre la narice è pensata come ferma). Un satellite ruota intorno al suo pianeta, che in quella porzione di spazio considerata, è ritenuto fermo. Ma basta ampliare lo sfondo di riferimento, ed ecco che anche il pianeta si muove rispetto ad una stella presa come elemento fisso. Questa a sua volta diventa mobile se si rapporta al centro fisso della sua galassia. E ancora, anche la galassia non è ferma, nel contesto generale dell’universo. 

Dinnanzi a tutta questa sarabanda di moti e punti fermi, allo scrupoloso fisico maccheronico viene da domandarsi: alla fine cosa si muove e cosa sta fermo? Sia procedendo verso l’infinitamente piccolo, sia avventurandosi sul versante opposto di pertinenza degli ambiti dell’infinitamente grande, la dinamica si gioca in una corsa ad inseguire lo scenario fisso di riferimento minuscolo, (oppure macroscopico), per poter giustificare il movimento degli elementi posti su un gradino dimensionale più in alto (o più basso). Senza riferirlo al suo nucleo, è difficile dire che l’elettrone si muova, così come senza porla nello scenario dell’universo, è difficile dire che la galassia si muova. Ma il nucleo e l’universo (intesi come scenari finali), si muovono o sono fermi?

Questo inseguimento di un punto fisso di riferimento, in direzione del microscopico così come del macroscopico, approda mai ad una “entità ferma” finale? La fisica maccheronica considera le due risposte e perviene ad un’unica conclusione. 

Mettiamo che la risposa sia no. Il punto fisso supremo non è concepibile, né nell’infinitamente piccolo, né nell’infinitamente grande. A questo punto, l’opinione comune ne dedurrebbe che ogni cosa è di conseguenza in perenne movimento. La fisica maccheronica invece conclude tutto il contrario: non essendo possibile rintracciare mai un punto di riferimento di partenza nel microscopico e uno di approdo nel macroscopico, ne deriva che tutti i movimenti universali sono illusori. 

Allo stesso modo, se la risposta è sì, ossia se è possibile pervenire ad un punto fisso, fermo, stabile, di riferimento nel microscopico così come nel macroscopico, non c’è ugualmente movimento, perché in questo caso l’universo (o cosa per esso), ultimo baluardo dell’infinitamente grande, starebbe fermo; parimenti il nucleo dell’atomo (o cosa per esso), ultimo baluardo dell’infinitamente piccolo, starebbe fermo. E se l’universo è fermo, e lo sono anche gli atomi, scusate l’espressione, ma sorge spontaneo porsi un domanda che di solito, in casi simili, noi fisici maccheronici siamo soliti fare: ma allora, che minchia stiamo ancora qua a discutere?

Come si vede, entrambe le risposte corroborano la teoria dell’assenza di movimento o “no-vimento”.

Si conclude così anche questa breve lezione di fisica maccheronica, nella quale abbiamo ribadito ancora una volta la presunta inesistenza del movimento. Prima di salutarvi però, voglio rammentare ai più ferventi sostenitori di questa branca della fisica, anche un piccolo insegnamento di sociologia impropria, presentato sotto forma di interrogativo pedagogico: abbiamo “dimostrato” già in due casi che il movimento non esiste, non vi sembra di poter dire ormai che anche la dimensione della fretta è un concetto fin troppo sopravvalutato?


venerdì 24 aprile 2015

Le muse di Kika van per pensieri: Henri Matisse (1869-1954) - “Zorah sulla terrazza” (1912)


Riprende oggi la rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”, che è stata assente per qualche tempo, ma che dovrebbe tornare con questa puntata alla sua ebdomadaria regolarità. Per questa riapertura, Kika gioca un “carico da undici”, calando sul tavolo niente meno che l’immenso Henri Matisse (Le Cateau, 1869 - Cimiez Nizza, 1954), autore già incontrato non molto tempo fa proprio inseguendo le nostre elucubrazioni di arte e moda. Di Matisse, Kika ha scelto per l’occasione l’opera “Zorah sulla terrazza”, del 1912.

Per spunti critici e informazioni varie su Matisse, vi rimando dunque a quello scritto, mentre per quanto riguarda la puntata odierna, cercherò di aggiungere ancora qualcosa riguardo all’autore francese, ma più in generale, riguardo alle “dinamiche concettuali” che fanno da contorno alla sua arte.

Voglio iniziare il ragionamento da un virtuale punto zero della comprensione, il più familiare possibile all’opinione comune, ponendomi alcuni interrogativi di base, al limite dell’ordinarietà pura. Scorrendo i quadri di Matisse, un “osservatore tradizionale” è portato a non comprendere i significati intimi che muovono questo tipo di espressività. Non solo non comprende, ma spesso è quasi ostile a questa interpretazione figurativa. La scena assume l’aspetto di una semplificazione generale, i soggetti e gli oggetti ritratti sono elementari, deformati, è trascurata una volta per sempre la pretesa di imitare la realtà, che viene piegata dal pittore per farle dire le cose che interessano a lui. I corpi sono sformati, i rapporti prospettici traditi, i colori parlano di qualcosa che è pur sempre vero, ma rassomiglia tanto al non vero.

Bisogna innanzitutto ricordare che con l’arte di questo periodo, nel passaggio tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, si opera una rivoluzione di forme e contenuti che inaugura il periodo cosiddetto moderno, aprendo la strada a quello contemporaneo. Il movimento “im”-pressionista aveva rappresentato il confine estremo di confronto dei meccanismi che danzano sul confine distintivo fra realtà e coscienza. Dopo l’impressionismo, l’arte in gran parte si rivolge ad indagare sul versante della coscienza. Gli artisti eleggono la “propria interiorità” come territorio di ricerca prediletto. E’ vero che la stessa affermazione la si potrebbe estendere praticamente all’arte di ogni epoca. Quel che cambia, con l’epoca moderna, consiste nel fatto che la rivoluzione dello sguardo passa a coinvolgere ora direttamente anche gli aspetti formali e compositivi. Gradualmente ci si libera dalla fedeltà alla forma (dagli intenti di copiare in qualche modo dalla realtà), ed è un’operazione che approderà alle forme dell’arte astratta.

Per completare questo passaggio epocale, per arrivare alle astrazioni assolute di Piet Mondrian o Kazimir Malevič, sino alle suggestioni cromatiche pure di Mark Rothko, si frapporrà tutta una serie di altri autori che apriranno la strada, pur senza riuscire ancora ad abbandonare del tutto la figuratività. Matisse fu uno dei più importanti e influenti di questi “apripista”. Non va dimenticato che Matisse pone le basi della propria poetica partendo dall’influenza “es”-pressionista. Non a caso era stato un esponente della corrente artistica dei “fauves” (selvaggi, belve). 

Per cercare di comprendere la scelta operata, nel corso della storia dell’arte, di abbandonare l’ispirazione diretta attinta dalle forme del reale, a mio parere è utile riferirsi per certi versi all’esperienza della musica, e per un’altra strada, alle dimensioni dell’inconscio.

Siamo pronti a storcere il naso, ad indignarci persino, di fronte a opere di pittura moderna che tradiscono la somiglianza col reale, mentre siamo tradizionalmente disposti ad accettare come naturale una forma espressiva come la musica che, a ben guardare, è composta esclusivamente con suoni artificiali, che nessuna rispondenza hanno con le sonorità rintracciabili nel mondo. Se ci lamentiamo per la scarsa verosimiglianza di un soggetto di Matisse (e la Zorah del dipinto di oggi ci fornisce un ottimo esempio), perché non facciamo altrettanto con il suono di un violino, che pur non si rifà a nessuno dei “suoni reali” a disposizione? Eppure la musica, soprattutto grazie a questa sua purezza formale, a questo suo distacco drastico dal mondo sensibile, è una delle forme d’arte che con più immediatezza e potenza arrivano alla mente, al cuore, allo spirito dell’uomo.

Oltre al parallelo con la musica, argomentazioni simili, in favore dell’abbandono sempre più estremo di una figuratività fedele al reale, ce le fornisce anche l’importanza che nel corso del ‘900 si va assegnando sempre più ai significati dell’inconscio. L’uomo moderno è sempre più consapevole di quanto il suo mondo sia fatto soprattutto di componenti interiori. Ad un certo punto gli artisti comprendono che per indagare questo mondo, è necessario infrangere le forme, spezzare la coerenza che linee e colori, nella loro secolare sudditanza, hanno prestato al mondo reale e dare vita, sempre utilizzando i due mezzi minimali di base della pittura (linee e colori appunto), ad un nuovo mondo iconografico che meglio sappia esprimere le forme interiori all’animo umano. Per gli antichi un paesaggio poteva esprimere anche uno stato d’animo; a partire dall’arte moderna, questa convinzione s’incrina, sino è portare il discorso alle sue conseguenze estreme: si ritiene che per testimoniare ciò che ci urge dentro, sia necessario spezzare le forme tradizionali, alla ricerca di nuove organizzazioni di linee e colori, nel tentativo di avvicinarsi meglio al compito di raccontare l’indicibile”.

Di Matisse ci sarebbe da dire ancora una vagonata di roba. Ma siccome temo di aver già sfranto una quantità sufficiente di “cabasisi”, passo all’indagine fisiognomica di oggi. La vaghezza formale matissiana ha reso per l’occasione del tutto particolare la ricerca di somiglianze. Il volto di Zorah è talmente indefinito che potrebbe somigliare a tutte e a nessuna. Con ampio beneficio di inventario, vado dunque a proporvi i volti che a me personalmente la signorina di Matisse ha suggerito.

Ne sono venute fuori tre ipotesi. Ecco la prima:


Abbiamo qui una cantante italiana: si tratta infatti di Syria che tra le altre cose, come forse non tutti sapranno (ad esempio io non lo sapevo), si chiama in realtà Cecilia Cipressi. 

A seguire, gli altri due volti che provengono entrambi dallo stesso ambiente televisivo:


Questa è la giornalista del Tg3 Maria Cuffaro (l’avrete vista magari alcune volte impegnata a condurre il tg, oppure inviata, di solito, in pericolosi scenari mediorientali).


E questa è la sua collega Maria Rosaria De Medici, sempre del Ttg3, nota anche per la conduzione del programma “Fuori-tg”).

Aggiungo inoltre con gran piacere una somiglianza dell'ultimo momento, suggerita da Kika:



Abbiamo in questo caso una bravissima attrice italiana, di cinema e di teatro, Licia Maglietta. Personalmente la ricordo come fatata protagonista di un magico film, "Pane e tulipani" (1999), diretto da Silvio Soldini. Ringrazio di cuore la cara "collega di rubrichetta" Kika per questo bel suggerimento, davvero calzante.


Si conclude qui questa puntata “di ripresa” di “Le muse di Kika van per pensieri”. A questo punto Kika ci aspetta sul suo blog, per rivelarci le magie di moda che ha saputo escogitare, ispirandosi alla Zorah di Matisse. La canzone invece parla di Magritte, ma mi piaceva metterla lo stesso.


lunedì 20 aprile 2015

sabato 18 aprile 2015

Ciao mamma, domani mi diplomo…

Da diversi anni ormai sono un lettore di Sette, la rivista abbinata ogni venerdì al Corriere della Sera. La trovo sempre interessante e col passare del tempo mi sono affezionato ad alcune rubriche fisse. Tipo quella dedicata al benessere del corpo e della mente. Nel numero di ieri, si parlava delle spezie e dei benefici che se ne possono ricavare, se vengono inserite in modo appropriato nella nostra dieta (“Sette” n.16 del 17-04-2015 – pagg. 116-117).

Ad un certo punto dell’articolo, dove si parlava del cardamomo nero, m’imbatto in una buffa frase. Si dice infatti che questa spezia, molto apprezzata in tutta l’Asia, «…allevia i disturbi di flautolenza…». Sul momento ho pensato: ma no dai, figurati, sarà un refuso, un errorino di stampa.  

Ho proseguito così nella lettura, ma dopo ancora qualche riga, sono venuto a sapere che anche la noce moscata ha lo stesso vizio: pure lei «…riduce la flautolenza…». Questa sì che è proprio bella, mi sono detto ancora, due sviste uguali in un solo articolo. C’entrerà qualcosa il fatto che oggi è venerdì 17? 

Bah!!!...fa niente dai, ho pensato di nuovo, arriviamo alla fine. Ma non faccio a tempo a formulare il pensiero, che toh! Sorpresa! Ci risiamo ancora una volta: anche l’insospettabile pepe nero «…è utile per disturbi digestivi, flautolenza, costipazione…». Ma pensa un po’, da lui non me lo sarei mai aspettato!

E’ stato a quel punto che ho capito. No, non si trattava di refusi. Se è vero infatti che una flautolenza non fa primavera, quando ne incontri addirittura tre, non puoi non accorgerti che sei stato accolto a braccia aperte nel mondo migliore del doppio senso a strafalcione. E flautolenza sia, dunque. 

Mi sono allora raffigurato questo mondo, un mondo migliore, per l’appunto. Un mondo dove il giovane musicista in erba, potrà dichiarare con orgoglio alla propria mamma: «…Mamma, tutti questi anni di conservatorio…ho studiato sodo, è stata dura, ma domani finalmente mi diplomo in flauto lento…».

Un mondo nel quale ognuno avrà l’opportunità di salire sul palco oscenico della vita e dire la sua. 

Dove il pescatore andrà fiero della sua canna ultimo modello, consapevole di aver fatto una scelta ambientalista fondamentale, scartando il vecchio filo di nylon e sostituendolo con l’innovativa flauto-lenza.

Un mondo in cui regnerà l’armonia nel dialogo fra le coppie, che potranno a ragion veduta affermare di saper praticare dell’ottimo senso orale.

Un mondo che non conoscerà discriminazione, in cui si concederà pari dignità anche alle forme di amore non tradizionali, addivenendo ad accordi sui significati capaci di legittimare anche le relazioni omosensuali.

Un mondo dove, va beh, purtroppo si incontreranno ancora delle teste di minchia per strada, ma almeno, sottraendone con un rapito calcolo la tara, si sarà subito in grado di calcolarne il casso-netto.

Un mondo dove moglie e marito si divideranno finalmente l’onere delle fatiche domestiche, andando d’amore e d’accordo: un mondo dove lei passa lo strofinaccio e lui la scopa. 

Un mondo in cui si comprenderà finalmente il valore b-inusuale e b-alternativo del rapporto banale. 

Un mondo dove anche i provvedimenti del governo saranno accolti con un sorriso, a cominciare dalla promulgazione del “blow-job act”.

Un mondo dove verrà inteso come portatore di pace anche chi dissotterrerà l’ascella di guerra.

Un mondo in cui anche i nerd appassionati di geometria, potranno dichiarare senza vergogna di avere sullo stomaco due spanne di pelo cubico.

Un mondo dove nemmeno il black-out sarà in grado di raffreddare la passione fra gli amanti, e mentre lei attirandolo a sé nell’oscura loro alcova, gli sussurrerà: 
«…Amore, mi ero dimenticata com’erano grandi i tuoi abbracci…», lui senza false modestie potrà finalmente risponderle: 
«…Cara, ehm…non è un ab-braccio…è solo che sono contento di rivederti…»
«…Rivedermi? Ma come fai, con questo buio…»
«…Va beh, fa niente dai…capirai fra un attimo…».

Un mondo dove non si avrà timore di andare al bar a raccontare agli amici ogni dettaglio di una grande abbuffata amorosa, spiegando a tutti che razza di esperienza magni-fica che è stata.

Un mondo migliore insomma, come vi dicevo. Un mondo in cui si potrà alla buon ora dire: flauto al flauto e lenza alla lenza.


lunedì 13 aprile 2015

venerdì 10 aprile 2015

Parolette anarco-gillipixiane: l’intenso far niente gattesco


So che rischio di risultare oltremodo monotono, ma non ci posso fare niente, è più forte di me. Devo ripetermi ancora: giocare con le parole mi piace in misura spropositata. E non si tratta mai solo di questo. E’ qualcosa che va oltre al giocare, attività che pure già di per sé si distingue come nobilissima e degna di essere rivisitata di continuo. Il giocar con le parole riguarda più da vicino un entrare in intimità col senso profondo delle cose. Dentro, c’è qualcosa che assomiglia molto ad un anelito di fusione col mondo.

Tanto che capita un sacco di volte (anche nell’arco di una semplice giornata, anche se dobbiamo solo far fronte a piccoli impegni spiccioli), di ritrovarsi senza la parola giusta, in grado di cogliere, di definire in pieno, una situazione, uno stato d’animo, un fatto. Ecco perché, da amanti appassionati del linguaggio, si sente quasi il bisogno di prodursi nella piccola arte dell’invenzione di parole inesistenti. Queste parole non devono avere la pretesa di andarsi ad infilare nel vocabolario comunemente riconosciuto, belle catalogate e pronte all’uso. No, niente di tutto questo. Esse funzioneranno invece come piccolo estratto poetico autonomo. Ci si inventa una certa parola, insomma, non per poi usarla con gli altri, ma perché fa bene a se stessi.

L’essenza della poesia sta tutta in simili meccanismi. Ma mentre alla poesia vera non è concesso di deviare eccessivamente dal sentiero tracciato dalle parole note (infatti la bravura dei grandi poeti sta nel saper dire il “non-detto” con il materiale verbale comune), il libero inventore di vocaboli può concedersi il lusso di una sua propria gentile anarchia linguistica.

Sulla base di queste considerazioni, inauguro oggi l’ennesima rubrichetta del blog. Non so se e quanto durerà, ma per intanto inizio anche questa. Il suo titolo è “Piccolo dizionario delle parolette anarco-gillipixiane”. Queste parole “non addomesticate” il più delle volte sono portatrici di un puro valore sonoro. Si appoggiano spesso alla struttura di parole vere, ma si librano nell’aria attraverso un proprio peculiare guizzo di libertà, che le rende uniche e ultra-poetiche.

L’anarco-paroletta di oggi è un verbo. Mi è venuto in mente osservando due mici in un campo di fianco a casa (detto per inciso: la gestualità e le attività feline sono una miniera infinita d’ispirazione per parolette inventate). Il campo in questione è appena stato seminato, ad erba medica, credo. Per ora è bello spiano, una normale distesa di terra nuda. Solo una promessa, al momento, del prato che verrà. Quello che fanno i gatti in questione è andare lì, su quel campo, a passare il tempo. Ora li vedi scavare piccole buche. Ora fanno splendide sessioni di “panz’all’aria” acrobatico. Ora si inseguono un po’ fra loro, giocano ai mini-agguati, si danno zampatine. Ora fanno la punta a qualche minimo pennuto. Ora ispezionano il disegno in superficie d’un cunicolo di talpa. Ora si piazzano semplicemente lì in mezzo, immobili come sfingi estatiche, a godersi la musica che fa la loro pelliccia carezzata da un refolo di brezza.

E’ lì che mi sono detto cosa fanno quei due mici. Non fanno altro che “trafulare”. Loro trafulano.

Magari inizia quello nero: eccolo lì che trafula da par suo. Quando il nero si ferma, a sua volta poi il tigrato gli passa vicino quasi invitandolo: «…Dai, vieni a trafulare…». E nel mezzo di tutte le loro moine più o meno dinamiche, sembra che si dicano l’un l’altro: «…Ah, che bello…come trafuliamo noi, non trafula nessuno…». Altre volte, uno dei due s’atteggia a rivisitato Edoardo Vianello felino: «…Guarda come trafulo…Guarda come trafulo…con il twist!!!…».

E così, in trafulante letizia, passano belle mattine trafulate, oppure lenti sotto-sera scanditi da un dolce trafulando rossiniano.


mercoledì 8 aprile 2015

Rimbombi


Come forse i lettori più longevi di Andarperpensieri sapranno, questo blog, oltre che alle nutrie (ovvio), è particolarmente affezionato a gatti, leprotti, asini, vombati, api e, ancor più nello specifico, ai bombi. 

La stagione del bombo sta entrando nel vivo, con tutti i fiorellini sbocciati sulle piante a fare da ghiotto invito per questa nostra amica ape oversize. Nei giorni scorsi, ho avuto occasione di cogliere un simpatico esemplare in uno scenario insolito. Premetto che per realizzare le foto in questione, non sono stati maltrattati, né seviziati bombi, e tantomeno costretti a visionare puntate di “Porta a porta”. Ho solo approfittato della buffa gonzitudine di una di queste bestioline, che era rimasta presa fra due vetri. Lo sfondo non era dei più idilliaci, però con il vantaggio di poter fare tanti scatti ravvicinati. Preciso anche che ho fatto il più alla svelta possibile, per poi dare l’agognata libertà al povero mini-pellicciato, il quale si arrabattava non poco per capire la magia di quel materiale per lui così inspiegabile, il vetro.

Il vetro per un bombo dev’essere come per noi il mistero dello scorrere del tempo. E’ un qualcosa di più grande delle nostre possibilità mentali. Un involucro esistenziale pur trasparente e ben concreto, ma al quale non sappiamo dare una ragione definitiva. E soprattutto, dal quale non sapremmo come uscire.

La “tecnica” fotografica adottata è stata la solita: scatti a raffica e poi selezione dei più belli. Alla fine ho scelto dieci foto, che mi parevano le più simpatiche. Trovo sempre più che questa bestiolina sia dotata di una bellezza unica. In questo senso, i particolari che si evincono le rendono pienamente giustizia. 

La cosa che mi dona ogni volta lo stupore più bello, è vedere un esserino così minuscolo, dotato di pelliccia. Notevole anche la lucentezza delle ali, quando l’angolazione rispetto ai raggi del sole ne esalta il riflesso. Mi spiace poi di aver involontariamente approfittato del momento di difficoltà di questo bombo, prigioniero vitreo momentaneo. Ma il vantaggio di questa situazione si è tradotto in alcune immagini molto particolari, nelle quali si esalta tutta la buffa eleganza tipica di questo piccolo miracolo estetico in miniatura.

In certe pose involontarie che ne sono uscite, sembra spiaggiato-spossato nella foga di trovare una via d’uscita. In altre, si ha quasi l’idea che sia andato in lungo, frenando sulla panzetta morbida, nell’impeto ronzante della ricerca di uno spiraglio. In una, appare come goffamente crollato sul sontuoso sedere impellicciato. Una caratteristica accomuna però ogni scatto: il bombo, in qualsiasi posa venga colto, non perde mai la sua nobiliare supremazia estetica. E’ un simpatico naturale, senza rischio di smentita.

Alla fine, quando ho pensato di aver fatto foto a sufficienza, e per di più il mio limite di sopportazione nel vederlo annaspare così era giunto al suo estremo, l’ho liberato. Avreste dovuto vedere, com’è esplosa nell’aria la sua gioia ronzante. Sono sicuro che se ci fosse stato lì nei paraggi un interprete esperto di traduzioni dal bombese all’italiano, mi avrebbe riferito le frasi seguenti: «...Bzzz...zzz...Eccheccazzz...Non potevizzz aprire primazzz?!?!?!...Ma vaffanbzzz!!!...».









lunedì 6 aprile 2015

Quando…


Quando non avevamo lo smartphone…

Quando non eravamo mai online...

Quando i selfie si facevano
giusto per il gusto
di non dare soddisfazione
a quelli che ti dicevano
che poi diventavi cieco...

Quando tiravamo l’aria
mischiata a tanti accidenti
per far stare in moto
la macchina al minimo...

Quando non avevamo la patente...

Quando rombava
l’A112 Abarth...

Quando il telecomando
cambiava all’istante...

Quando dovevi alzarti
per cambiare canale...

Quando la tele
aveva due canali...

Quando scrivevamo
le cartoline dal mare...

Quando Tex Willer
costava 250 lire...

Quando nel ghiacciolo
sfavillavano i coloranti...

Quando i cantanti
non parlavano...

Quando le canzoni
poteva parlarle
soltanto Alberto Lupo...

“Quando” tre volte
lo diceva Tony Renis...

Quando Crozza
si chiamava Noschese...

Quando i vecchi
ci vedevano già scemi...

Quando i telefilm
non ridevano da soli...

Quando non si
rifacevano le tette...

Quando era
“quando” e basta...

Quando già
si diceva “quando”...

Quando si continuerà
a dire “quando”...


venerdì 3 aprile 2015

…e Pasqua con le nutrie

Cari amici viandanti per pensieri, ormai un po’ lo sapete: nelle periodiche occasioni in cui si tratta di fare una qualche specie di auguri, mi atteggio sempre ad alternativo, gigioneggio fra pretese anticonvenzionali e millanterie anticonformistiche, ma alla fine gli auguri ve li faccio.

Per questa Pasqua però, affido l’incarico alle care nutrie. Non potevano venire tutte, lo schermo sarebbe andato loro troppo stretto. Hanno mandato tuttavia una rappresentanza qualificata. Ci sono nonno NutriUno e nonna Nutrè, Nutrifolato, NutriSteso, NutriNews, NutriABS (che ancora non è riuscito a fermare il suo scooter) e persino uno dei Nutrilibreschi sognatori volanti, contornato dalla sua estatica nuvoletta di tometti e volumi.

Mi sembrava giusto che fossero loro a porgervi gli auguri di buona Pasqua. Stanno tenendo in piedi il blog e mi hanno anche concesso di debuttare su Facebook con una delle più strambe pagine dell’universo fèisbukkinaro, per cui se lo meritano.

Per quel che mi riguarda, non faccio altro che accodarmi alle nutrie. Immaginatemi lì, un po’ sulla sinistra, che faccio capolino dietro NutriSteso, e mi unisco al loro coro, dicendovi pure io: buona Pasqua!!!

mercoledì 1 aprile 2015

Il pane e il companatico


A torto o a ragione, con intento fra l’affettuoso e il dispregiativo, le canzoni vengono spesso chiamate “canzonette”. Il semi-canzonatorio tono con cui la canzone è vezzeggiata fa leva senza dubbio sull’inconsistenza spesso presente nelle melodie e nei testi proposti dalla musica leggera medesima. 

Non è raro tuttavia incontrare, fra le slavate frasi che fanno da struttura portante a tutta la baracca musical-significante di una canzone, talune piccole perle di notevole saggezza. E’ il caso, a mio parere, di “Panic”, un brano della band inglese “The Smiths”, scritto nel 1986 dal leader e cantante del gruppo Stephen Morrissey e musicato dal chitarrista Johnny Marr.

A un certo punto della canzone, si dice:

“…Burn down the disco 
Hang the blessed DJ…”

Ossia:

“…Brucia la discoteca
Impicca il benedetto DJ…”

E fin qui potrebbe suonare più o meno come una giocosa invettiva iperbolica, sparata a metà fra il crudele e il faceto, contro la vacuità delle mode imperanti, contrabbandate attraverso lo spirito mercificante di certa musica. Ma la parte degna di nota arriva subito a ruota:

“…Because the music that they constantly play 
IT SAYS NOTHING TO ME ABOUT MY LIFE…” 

Cioè:

“…Perché la musica che di continuo suonano 
NON MI DICE NIENTE RIGUARDO ALLA MIA VITA…”.

Per me è una frase, nel suo piccolo, straordinaria. In essa è contenuto uno dei più efficaci ed immediati criteri estetici che si possano applicare. E’ una vera e propria mini-guida al giudizio estetico. Uno strumento critico “prêt à porter”, da utilizzare nel caso in cui ci si trovi di fronte ad opere artistiche della più svariata natura (romanzi, dipinti, sculture, film, le canzoni stesse, e così via), e si senta in qualche modo la necessità di esprimere un proprio punto di vista riguardo al valore rappresentato per noi da quell’opera presa in considerazione.

Certo, non si tratta di un criterio esaustivo. L’opera d’arte è, deve essere, per sua natura un’entità complessa e ricca di mille sfaccettature. Per cui non si può pretendere di cavarsela così in “quattro e quattr’otto” con una sintetica analisi di superficie. 

Ma già capire che un’opera “non mi dice niente della mia vita” è un primo passo fondamentale. Vuol dire che in quel “prodotto espressivo” manca del tutto quell’energia “universalizzante” che si richiederebbe ad un’opera d’arte degna di questo nome. Quella capacità di trattare storie “particolari”, ponendole sotto una luce tale da metterne in rilievo i caratteri che “sanno raccontare qualcosa di vero e vitale a tutti gli uomini”.

Non male, per una piccola frase trovata in una canzonetta.

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“Panic” (1986)

Lyrics by Stephen Morrissey 
Music by Johnny Marr

Panic on the streets of London 
Panic on the streets of Birmingham 
I wonder to myself 
Could life ever be sane again? 
The Leeds side-streets that you slip down 
I wonder to myself 
Hopes may rise on the Grasmere 
But Honey Pie, you're not safe here 
So you run down 
To the safety of the town 
But there's Panic on the streets of Carlisle 
Dublin, Dundee, Humberside 
I wonder to myself 

Burn down the disco 
Hang the blessed DJ 
Because the music that they constantly play 
IT SAYS NOTHING TO ME ABOUT MY LIFE 
Hang the blessed DJ 
Because the music they constantly play 

On the Leeds side-streets that you slip down 
Provincial towns you jog 'round 
Hang the DJ, Hang the DJ, Hang the DJ 
Hang the DJ, Hang the DJ, Hang the DJ 
HANG THE DJ, HANG THE DJ, HANG THE DJ 
HANG THE DJ, HANG THE DJ 
HANG THE DJ, HANG THE DJ