lunedì 10 giugno 2019

Che cosa ho imparato rampando con propensione letteraria da barone calviniano, su di un ciliegione fragile dispensatore di sparuti frutti, mentre venivo a mia volta colto nel bel mezzo di una spasmodica tendenza all’intitolazione Lina-Wertmülleriana del vivere


Ho un ciliegione piccolo. Ha il tronco esile, si sviluppa più in verticale che in orizzontale.

È fragile, un po' malaticcio, ma si ostina a dire la sua nel discorso faunistico universale.

Se le sue parole migliori sono le ciliegie, dopo qualche stagione taciturna, con poche sillabe smozzicate a stento, quest'anno si è espresso in una discreta chiacchierata.

Sono ragionamenti alti però, si fatica a posarci la scala, dove le frasi più eleganti, succose, rosse e mature, vengono pronunciate.

I rami secondari, dopo una prima biforcazione bassa abbastanza robusta, si frangono in steli inconsistenti, sparati all’insù e incapaci di reggere il peso dell’aspirante raccoglitore.

Là, stanno le ciliegie cariche di maggiore desiderabilità, sui rami sottili, lontani e inavvicinabili.

Rimane solo la via della scalata a ramo nudo, senza l’ausilio di nessun genere di pioli.

Per arrampicarsi “a corteccia” su una pianta, bisogna farci conoscenza.

I primi movimenti devono essere lenti ed esplorativi, serve capire dove si possono e dove non si possono posare i piedi.

Molto importante poi fissare i riferimenti ai quali ci si possa appigliare con le mani: presto, si comprende infatti come, per salire, sia necessaria la cooperazione di tutto il corpo.

Se le ginocchia, le anche o il sedere hanno un appoggio di passaggio, è tanto di guadagnato per l’equilibrio.

E non voglio esagerare in poeticismo ritrito romanticheggiante di bassa lega melensa, ma addirittura, dopo un po' che si sta lassù, ci si rende conto di essere diventati una propaggine dell’albero: ci si sente in continuazione diramante con lui, le braccia, le gambe, le dita, tutto una conseguenza di corteccia e foglie.

Così, un appoggio che porterebbe più su, valutato rischioso in un primo momento, diventa accessibile, compiendo sequenze di movimenti misurate e imparate in quella prima fase di studio.

Allora anche le ciliegie più in vetta, quelle che a un primo sguardo erano sembrate relegate a quote inespugnabili, ce le ritroviamo a portata di mano, e scivolano nel cestino con notevole soddisfazione.

Non bisogna tuttavia cadere nell’ebbrezza del trionfo: rimarranno sempre ciuffetti rosso-verdeggianti impervi e assolutamente inconquistabili, se non a rischio della grave eventualità di franare rovinosamente a terra.

È necessario dunque capire anche quali ciliegie dovremo per forza abbandonare: rimarranno per noi solo un bel ricordo di desiderio. Senza rimpianto, perché l’aver desiderato è cosa nobile di per sé, che si sia conseguito o no l’obiettivo.

È stato così che, mentre il cestino piano piano, ma inesorabilmente si riempiva, mi ha attraversato la mente una piccola folgorazione: che la vita è una pianta fragile ma ostinata di ciliegioni.

Ancor più preoccupante, ho pensato che se ormai non riesco più a fare la benché minima azione quotidiana, senza poi “scriverci dietro” (*dialettismo) un mezzo poema, la situazione dev'essere davvero grave.

Sono definitivamente afflitto da “scrivania acuta”, con le complicazioni aggiunte di un intenso “metaforismo” che rischia in continuazione di esplodere in eccessi di smodato abuso allegorico.
Ho la mente tramutata in apparato scrivente permanente.

Ma finché porto a casa, oltre a tante parole, anche un cestino di ciliegie, direi che il bilancio si può considerare in pareggio.



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