«…In sooth I know not why I am so sad…»
“The merchant of Venice”
William Shakespeare – 1597
Esiste una dimensione del pensiero così svincolata da “terminazioni espressive concrete” da poter essere definita “pura”?
«…Minchia, oggi cominciamo proprio con una domandina facile facile, e soprattutto se ne sentiva proprio un bisogno della malora…» commenteranno con la loro consueta sopportazione i miei cari amici viandanti per pensieri.
Ma torniamo a bocce ferme, e cerchiamo di capirci.
Diverse volte ho tirato in ballo la stupefacente celerità con la quale tutto il nostro apparato “mental- concettuale-elaborante” ci assiste nei frangenti in cui parliamo. E’ un’idea sulla quale di tanto in tanto ritorno, perché non finisce mai di causarmi meraviglia: se ci “auto-osserviamo” quando pronunciamo una frase, anche di una certa complessità, possiamo constatarlo benissimo.
I tempi in gioco sono strettissimi, e non lasciano margine ad una sequenza di elaborazioni, bensì solamente ad una quasi perfetta simultaneità: pensare la frase e pronunciarla sono praticamente un tutt’uno, dal punto di vista dei tempi. O perlomeno, sussiste solo uno scarto infinitesimale.
Rimuginando sopra a tutto ciò, mi è venuto da pensare a questa faccenda del pensiero puro. Ora, fate attenzione, perché non vi garantisco fino in fondo di non essere in procinto di rifilarvi una solenne serie di vaccate.
Se quando parlo, le parole escono dalla bocca praticamente in simultanea con l’atto del pensare, questo non vuole forse dire che il pensiero possiede un proprio riservato raggio d’azione entro il quale può operare senza agganci con qualsivoglia strumento espressivo concreto?
Uhm…no, eh?
State già digitando sul vostro cellulare il numero della neuro, meditando tra l’altro di suggerire agli infermieri di portarsi dietro una camicia di forza di quelle buone? Come darvi torto…
Cerco allora di prendere su il ragionamento entrando da un’altra porta, per vedere se per questa volta riesco ad evitare il ricovero…
Quando pronunciamo una frase, il nostro “elaboratore” non ha bisogno di spendere il tempo materiale che teoricamente potremmo attenderci per la scelta dei termini, per il loro corretto ordinamento, per il loro inserimento all’interno delle necessarie regole sintattiche, grammaticali, semantiche del discorso. “Pensato” e “detto”, vengono invece praticamente insieme (poi dipende anche dalle abilità oratorie di ciascuno, certo…).
Mi piace dunque immaginare che l’elaborazione vera e propri avvenga in una “stanzetta a parte”, dove il pensiero gira velocissimo e a suo piacimento, svincolato da strumenti “tangibili e materiali”. Se il nostro “Intel-Zuc Scentrino 2.0” fosse costretto per forza a muoversi “per parole”, i tempi risultanti di attesa per l’uscita dei suoni dalla bocca sarebbero più lunghi.
Invece parrebbe esistere un livello del pensiero che non può permettersi di perdere tempo ad usare strumenti di nessun tipo: lui elabora in perfetta purezza e le parole ci si appiccicano “in automatico”.
«…Sì, va beh…» risuona ancora a questo punto il coro greco dei pazienti lettori di siffatta tragedia, «…ma perché hai deciso di venirci ad infliggere questo supplizio proprio a noi, quest’oggi? Non potevi andartene a bere i tuoi soliti tre o quattro bianchini all’osteria, come sei solito fare?…».
Anche questo rimprovero mi trova disarmato, lo ammetto.
Ma il perché di tutto è forse a sua volta connesso al fatto che il mio delirante “menare-il-can-per-l’aia” intorno alla suggestione del “pensiero puro”, mi si è ulteriormente complicato frullandosi al discorso delle modalità di certe espressioni artistiche.
Se questo fantomatico “pensiero puro” esiste veramente, esso possiederà ampie parti difficilmente comunicabili. Infatti, solo laddove riesce ad agganciarsi ad elementi espressivi condivisi dai comunicanti, c’è effettivo scambio di informazioni e di significati fra questi ultimi. Tutto il resto è regno della poesia e dell’arte in generale, che rappresentano quell’anelito interiore teso alla trasmissione dell’incomunicabile. L’arte è il tentativo più nobile di trattare il “pensiero puro”, mai realizzato dall’uomo
Tutto questo, per arrivare finalmente a parlare della musica (in particolare, la parte strumentale di essa) e dell’arte moderna non figurativa.
Della musica (intesa nel suo più ampio “spettro”, nessun genere escluso), mi ha sempre incuriosito un fatto: fra le arti è quella che forse più di tutte riesce a raccontare l’indicibile, servendosi di una dimensione espressiva quasi totalmente svincolata da fenomeni naturali e da un codice precisamente stabilito per convenzione.
I suoni che la musica utilizza non hanno nulla a che vedere con qualsivoglia suono (o rumore) reperibile nella quotidianità. E lasciamo da parte la fondamentale eccezione della voce, che tuttavia, anch’essa, nel canto assume modalità tutte proprie. Il suono di un violino, di un piano, di una tromba, non ricreano nessun suono naturale conosciuto, se non per vaghissime similitudini (tipo il vento, o il tuono, o la pioggia, che so io…).
Anche il linguaggio, le parole, si obietterà, sono svincolate dal “materiale realistico”, non sono fatte di suoni naturali.
Questo è pure vero, ma le parole comportano un’operazione preventiva di accordo contrattuale ben preciso fra i parlanti. Ossia fanno parte di un codice esatto entro il quale ci si è messi tutti d’accordo che “cane” vuol dire quel simpatico animaletto che fa le feste e scodinzola al padrone, e “gatto” quell’altro similmente simpatico e palla-pelosetto, che però si fa un po’ più i cavoli suoi.
Nella musica invece, non c’è contratto preciso sui significati ed il vincolo con le sonorità reali è, come detto, labilissimo.
Un ambito artistico in cui invece è fondamentale l’utilizzo di veicoli espressivi tratti direttamente dal repertorio concreto della realtà, è quello delle arti figurative e “rappresentative” in genere, particolarmente pittura e scultura. Esse, nella loro accezione tradizionale, hanno sempre parlato attraverso il linguaggio fornito dalle forme della natura, corpi, oggetti veri.
Ora, l’arte “non-figurativa” ha tentato di spezzare tale vincolo secolare, praticando in questo senso una sorta di avvicinamento alle forme di espressione pura della musica.
Musica ed arti non figurative sono dunque forme espressive che, da quando esistono, si sono sempre candidate come perfetti veicoli della parte del pensiero “più pura”, di cui andavo cianciando in apertura.
Quello che dobbiamo constatare però è che se la musica, da secoli riesce mirabilmente nel suo intento, ossia parlare perfettamente alle menti e ai cuori proprio in virtù del suo distacco dal mondo, non lo stesso può dirsi delle arti non figurative. Il loro abbandono del rassicurante terreno del realismo, le ha rese infide e sospette al pubblico.
Ma come mai questo sia accaduto, non ve lo saprei proprio spiegare e forse sarà oggetto di future riflessioni.
«…In verità non so perché sono così triste…» dice Antonio in apertura del “Mercante di Venezia”, mentre io gli faccio eco, in chiusura di questo mio ennesimo delirio: «…In verità non so perché mi faccio questi pipponi mentali…».
“The merchant of Venice”
William Shakespeare – 1597
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Esiste una dimensione del pensiero così svincolata da “terminazioni espressive concrete” da poter essere definita “pura”?
«…Minchia, oggi cominciamo proprio con una domandina facile facile, e soprattutto se ne sentiva proprio un bisogno della malora…» commenteranno con la loro consueta sopportazione i miei cari amici viandanti per pensieri.
Ma torniamo a bocce ferme, e cerchiamo di capirci.
Diverse volte ho tirato in ballo la stupefacente celerità con la quale tutto il nostro apparato “mental- concettuale-elaborante” ci assiste nei frangenti in cui parliamo. E’ un’idea sulla quale di tanto in tanto ritorno, perché non finisce mai di causarmi meraviglia: se ci “auto-osserviamo” quando pronunciamo una frase, anche di una certa complessità, possiamo constatarlo benissimo.
I tempi in gioco sono strettissimi, e non lasciano margine ad una sequenza di elaborazioni, bensì solamente ad una quasi perfetta simultaneità: pensare la frase e pronunciarla sono praticamente un tutt’uno, dal punto di vista dei tempi. O perlomeno, sussiste solo uno scarto infinitesimale.
Rimuginando sopra a tutto ciò, mi è venuto da pensare a questa faccenda del pensiero puro. Ora, fate attenzione, perché non vi garantisco fino in fondo di non essere in procinto di rifilarvi una solenne serie di vaccate.
Se quando parlo, le parole escono dalla bocca praticamente in simultanea con l’atto del pensare, questo non vuole forse dire che il pensiero possiede un proprio riservato raggio d’azione entro il quale può operare senza agganci con qualsivoglia strumento espressivo concreto?
Uhm…no, eh?
State già digitando sul vostro cellulare il numero della neuro, meditando tra l’altro di suggerire agli infermieri di portarsi dietro una camicia di forza di quelle buone? Come darvi torto…
Cerco allora di prendere su il ragionamento entrando da un’altra porta, per vedere se per questa volta riesco ad evitare il ricovero…
Quando pronunciamo una frase, il nostro “elaboratore” non ha bisogno di spendere il tempo materiale che teoricamente potremmo attenderci per la scelta dei termini, per il loro corretto ordinamento, per il loro inserimento all’interno delle necessarie regole sintattiche, grammaticali, semantiche del discorso. “Pensato” e “detto”, vengono invece praticamente insieme (poi dipende anche dalle abilità oratorie di ciascuno, certo…).
Mi piace dunque immaginare che l’elaborazione vera e propri avvenga in una “stanzetta a parte”, dove il pensiero gira velocissimo e a suo piacimento, svincolato da strumenti “tangibili e materiali”. Se il nostro “Intel-Zuc Scentrino 2.0” fosse costretto per forza a muoversi “per parole”, i tempi risultanti di attesa per l’uscita dei suoni dalla bocca sarebbero più lunghi.
Invece parrebbe esistere un livello del pensiero che non può permettersi di perdere tempo ad usare strumenti di nessun tipo: lui elabora in perfetta purezza e le parole ci si appiccicano “in automatico”.
«…Sì, va beh…» risuona ancora a questo punto il coro greco dei pazienti lettori di siffatta tragedia, «…ma perché hai deciso di venirci ad infliggere questo supplizio proprio a noi, quest’oggi? Non potevi andartene a bere i tuoi soliti tre o quattro bianchini all’osteria, come sei solito fare?…».
Anche questo rimprovero mi trova disarmato, lo ammetto.
Ma il perché di tutto è forse a sua volta connesso al fatto che il mio delirante “menare-il-can-per-l’aia” intorno alla suggestione del “pensiero puro”, mi si è ulteriormente complicato frullandosi al discorso delle modalità di certe espressioni artistiche.
Se questo fantomatico “pensiero puro” esiste veramente, esso possiederà ampie parti difficilmente comunicabili. Infatti, solo laddove riesce ad agganciarsi ad elementi espressivi condivisi dai comunicanti, c’è effettivo scambio di informazioni e di significati fra questi ultimi. Tutto il resto è regno della poesia e dell’arte in generale, che rappresentano quell’anelito interiore teso alla trasmissione dell’incomunicabile. L’arte è il tentativo più nobile di trattare il “pensiero puro”, mai realizzato dall’uomo
Tutto questo, per arrivare finalmente a parlare della musica (in particolare, la parte strumentale di essa) e dell’arte moderna non figurativa.
Della musica (intesa nel suo più ampio “spettro”, nessun genere escluso), mi ha sempre incuriosito un fatto: fra le arti è quella che forse più di tutte riesce a raccontare l’indicibile, servendosi di una dimensione espressiva quasi totalmente svincolata da fenomeni naturali e da un codice precisamente stabilito per convenzione.
I suoni che la musica utilizza non hanno nulla a che vedere con qualsivoglia suono (o rumore) reperibile nella quotidianità. E lasciamo da parte la fondamentale eccezione della voce, che tuttavia, anch’essa, nel canto assume modalità tutte proprie. Il suono di un violino, di un piano, di una tromba, non ricreano nessun suono naturale conosciuto, se non per vaghissime similitudini (tipo il vento, o il tuono, o la pioggia, che so io…).
Anche il linguaggio, le parole, si obietterà, sono svincolate dal “materiale realistico”, non sono fatte di suoni naturali.
Questo è pure vero, ma le parole comportano un’operazione preventiva di accordo contrattuale ben preciso fra i parlanti. Ossia fanno parte di un codice esatto entro il quale ci si è messi tutti d’accordo che “cane” vuol dire quel simpatico animaletto che fa le feste e scodinzola al padrone, e “gatto” quell’altro similmente simpatico e palla-pelosetto, che però si fa un po’ più i cavoli suoi.
Nella musica invece, non c’è contratto preciso sui significati ed il vincolo con le sonorità reali è, come detto, labilissimo.
Un ambito artistico in cui invece è fondamentale l’utilizzo di veicoli espressivi tratti direttamente dal repertorio concreto della realtà, è quello delle arti figurative e “rappresentative” in genere, particolarmente pittura e scultura. Esse, nella loro accezione tradizionale, hanno sempre parlato attraverso il linguaggio fornito dalle forme della natura, corpi, oggetti veri.
Ora, l’arte “non-figurativa” ha tentato di spezzare tale vincolo secolare, praticando in questo senso una sorta di avvicinamento alle forme di espressione pura della musica.
Musica ed arti non figurative sono dunque forme espressive che, da quando esistono, si sono sempre candidate come perfetti veicoli della parte del pensiero “più pura”, di cui andavo cianciando in apertura.
Quello che dobbiamo constatare però è che se la musica, da secoli riesce mirabilmente nel suo intento, ossia parlare perfettamente alle menti e ai cuori proprio in virtù del suo distacco dal mondo, non lo stesso può dirsi delle arti non figurative. Il loro abbandono del rassicurante terreno del realismo, le ha rese infide e sospette al pubblico.
Ma come mai questo sia accaduto, non ve lo saprei proprio spiegare e forse sarà oggetto di future riflessioni.
«…In verità non so perché sono così triste…» dice Antonio in apertura del “Mercante di Venezia”, mentre io gli faccio eco, in chiusura di questo mio ennesimo delirio: «…In verità non so perché mi faccio questi pipponi mentali…».
2 commenti:
allora il video è f a n t a s t i c o! chimera mia perché t'angusti tanto? il pensiero nasce in quel piccolo vuoto che si crea nel silenzio, là arriva un'immagine, velocissima e noi la mutiamo in parole, ma sempre e comunque tutto avviene lì, in quell'angolino silenzioso dove tutto può accadere :-) bacio filosofico-poetico
@->Farly: è bello sapere che per quanto lontano mi avventuri nella forzatura dei concetti, c'è sempre una mezza chimera che li coglie come fossero un semplice due più due :-)
Grazie Farly, con tutta l'estensione possibile di specificabilità di bacini universali :-)
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