Certi modi di dire proverbiali, mi mettono un po’ d’ansia. Intendiamoci, niente di grave. Se è per questo, mi angoscia molto di più l’idea di quattro belle legnate ben assestate sulla schiena con un generoso randello, e nodoso, di noce stagionato.
Questo nulla toglie tuttavia al fatto che sviluppando una discreta sensibilità per le parole, si finisce poi per sentirle vive e ficcanti più del dovuto in certi modi di esprimersi particolarmente coloriti, con effetti talvolta bizzarri e imprevisti.
Queste piccole riflessioni mi sono accorse alla mente alcuni giorni fa, mentre assistevo ad una lezione di aggiornamento per il mio lavoro, tenuta da un bravo docente, che sapeva ben colorire e con giusta misura le sue parole, farcendole di quelle immagini “sapienzial-popolari” necessarie a rendere più fluente e lieve il proprio discorso per l’uditorio.
Ad un certo punto, per esemplificare alcune difficoltà insite in certi oggetti del suo disquisire, ha tirato fuori il modo di dire della “coperta corta”. «…L’utilizzo di questi strumenti…» suonava più o meno il suo discorso, «…ci consente un margine di azione in una determinata direzione, ma diventa problematico nella direzione correlata, e viceversa. Per cui si capisce facilmente come la coperta sia sempre un po’ corta…».
L’immagine, giusto in quella specifica circostanza, mi ha colpito oltremodo. E’ stato lì che ho cominciato a meditare sulla “invadenza immaginifica” del detto proverbiale.
Il triturare le parole sotto forma di proverbio è usanza antichissima, viene da molto lontano, e sappiamo che gli antichi erano specialisti nel forgiare immagini vivide ed efficaci. Fra gli scopi del proverbio, d’altra parte, c’è proprio l’intenzione di suscitare stupore, perché un concetto entra meglio in testa quando “fa il botto”, che non presentandosi sornione e pacato, stringendovi la mano mentre dice con somma flemma: «Piacere di conoscerla: io sono un concetto!».
Il proverbio dunque quando impressiona e vi colora a più non posso l’immaginazione, non fa altro che il suo mestiere. Tuttavia, le immagini che vi introduce nella zucca possono risultare, non dico spiacevoli, ma perlomeno scomode, malagevoli, leggermente fastidiose, foriere di equivoci paradossali. E’ l’inconveniente che va messo in conto nel possedere un’immaginazione stravagante, per non dire bacata, per non dire ancora degenerata.
Faccio un esempio brutale, per rendere meglio l’idea. Non lo trarrò dal mondo dei proverbi, ma da quello della pubblicità, che in un certo modo incarna oggi una sorta di surrogato dell’immaginario proverbiale di un tempo.
Avete presente lo spot delle patatine realizzate col porno-attore Rocco Siffredi? Ecco, questo caso mi offre l’occasione di far notare come dalla suggestione alla distorsione, il passo possa essere veramente breve. Non mi riferisco a nessuna remora di ordine moralistico, parlo semplicemente di linguaggio e delle sue potenzialità evocative.
Se parli delle patatine sul filo plateale del doppio senso erotico («…la patatina tira…»), il meglio che ti possa capitare, per associazione metaforico-espressiva, è creare un “corto circuito significante” fra il piacere del cibarsi ed altre tipologie di piaceri. Ma se tutto il discorso viene messo in bocca ad un esperto nel maneggiar l’ortaggio dall’altro “lato della barricata”, di lì a non riuscire a sopprimere la maligna deriva mentale secondo la quale quella specifica marca di patatine possa, con rispetto puntinato parlando, avere un sapore del “ca…”, è un attimo.
Per tornare al caso specifico proverbiale, questa faccenda della “coperta corta”, con modalità simili, mi ha suggerito involontari scenari di povertà, di ristrettezze, di angustie materiali, riflesse in un batter d’occhio anche nella limitrofa dimensione spirituale.
Passando poi in rapida rassegna i pochi proverbi che conosco, gli esisti sconfortanti non sono stati da meno.
«…Campa cavallo che l’erba cresce…»: ma perché?!?!?!
Non può il povero cavallo godersi un sano e felice periodo di sua giovinezza, pascolando con gioia fra verdissimi prati già belli erbosi e rigogliosi? Deve proprio aspettare di essere vecchio, bacucco e imbolsito, per potersi fare una lauta brucata con tutti i crismi?
«…Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca…»: ma perché?!?!?!
Poi chissà cosa ci fai con la moglie ubriaca? Vai a cercarti un’altra che di certo ci starà non tanto per il tuo fascino o il tuo sex-appeal, ma solo perché sei un gran trafficone di vini? E magari tutto le serve solo per farti ubriacare a tua volta e fotterti poi tutta la casa? Ci vuole così tanto a comprarsi due botti, ubriacarsi insieme alla moglie, riallineare le reciproche frequenze in lieta compagnia etilica, con il piacere aggiuntivo di sapere bella colma la seconda botte di riserva?
«…Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi…»: ma perché?!?!?!
Ma voi, vi ci siete mai messi nei panni del povero venditore di anima al diavolo? No, dico: ti ho venduto l’anima, mica le unghie dei piedi, adesso non staremo mica qui a questionare per quattro micragnosi coperchi, vero?
Sragionando su questa linea, ho pensato che l’Italia potrà dirsi una democrazia di senso compiuto, con un sistema di welfare efficiente e capace di superare persino gli standard scandinavi, solo il giorno in cui introdurrà la basilare figura socio-assistenziale del “consolatore proverbiale”.
Laddove ci sarà sentore di sconforto causato da sovraesposizione a motti e modi di dire popolareschi, ecco che il “consolatore proverbiale” si presenterà puntuale in ogni casa, pronto a lenire lo scompenso linguistico ed immaginifico patito.
Il “consolatore proverbiale” potrà di volta in volta svolgere la sua opera di compensazione sul malcapitato “proverbializzato”, sia rettificando i motti in senso paradossale ed umoristico, sia con azioni concrete vere e proprie.
«…Non facciamo di tutte le erbe un soviet…» potrà essere ad esempio uno dei suoi consigli terapeutici, «…chi rompe paga, ma poi si può rivendere i cocci al mercato dell’usato, o riciclarli con la raccolta cocci differenziata …».
O ancora: «…Avere la botte piena e la moglie ubriaca oggi è possibile: sposa un’enologa…».
Oppure, in periodo carnevalesco, si potrà altresì vedere il “consolatore proverbiale” bello addobbato con un costume da diavoletto, che giunge alla casa di un vessato da proverbi e scarica nel suo giardino un camioncino e rimorchio di pentole e coperchi, rigorosamente abbinabili.
Ma chissà quanti anni dovremo attendere ancora perché la nostra società faccia progressi di civiltà di così ampio respiro. Per il momento, non ci resta altro che consolarci alla maniera che userebbe uno stesso “consolatore proverbiale” regolarmente iscritto all’albo dei “consolatori proverbiali” professionali: «…Campa cavallo, che la coperta corta cresce…».
Queste piccole riflessioni mi sono accorse alla mente alcuni giorni fa, mentre assistevo ad una lezione di aggiornamento per il mio lavoro, tenuta da un bravo docente, che sapeva ben colorire e con giusta misura le sue parole, farcendole di quelle immagini “sapienzial-popolari” necessarie a rendere più fluente e lieve il proprio discorso per l’uditorio.
Ad un certo punto, per esemplificare alcune difficoltà insite in certi oggetti del suo disquisire, ha tirato fuori il modo di dire della “coperta corta”. «…L’utilizzo di questi strumenti…» suonava più o meno il suo discorso, «…ci consente un margine di azione in una determinata direzione, ma diventa problematico nella direzione correlata, e viceversa. Per cui si capisce facilmente come la coperta sia sempre un po’ corta…».
L’immagine, giusto in quella specifica circostanza, mi ha colpito oltremodo. E’ stato lì che ho cominciato a meditare sulla “invadenza immaginifica” del detto proverbiale.
Il triturare le parole sotto forma di proverbio è usanza antichissima, viene da molto lontano, e sappiamo che gli antichi erano specialisti nel forgiare immagini vivide ed efficaci. Fra gli scopi del proverbio, d’altra parte, c’è proprio l’intenzione di suscitare stupore, perché un concetto entra meglio in testa quando “fa il botto”, che non presentandosi sornione e pacato, stringendovi la mano mentre dice con somma flemma: «Piacere di conoscerla: io sono un concetto!».
Il proverbio dunque quando impressiona e vi colora a più non posso l’immaginazione, non fa altro che il suo mestiere. Tuttavia, le immagini che vi introduce nella zucca possono risultare, non dico spiacevoli, ma perlomeno scomode, malagevoli, leggermente fastidiose, foriere di equivoci paradossali. E’ l’inconveniente che va messo in conto nel possedere un’immaginazione stravagante, per non dire bacata, per non dire ancora degenerata.
Faccio un esempio brutale, per rendere meglio l’idea. Non lo trarrò dal mondo dei proverbi, ma da quello della pubblicità, che in un certo modo incarna oggi una sorta di surrogato dell’immaginario proverbiale di un tempo.
Avete presente lo spot delle patatine realizzate col porno-attore Rocco Siffredi? Ecco, questo caso mi offre l’occasione di far notare come dalla suggestione alla distorsione, il passo possa essere veramente breve. Non mi riferisco a nessuna remora di ordine moralistico, parlo semplicemente di linguaggio e delle sue potenzialità evocative.
Se parli delle patatine sul filo plateale del doppio senso erotico («…la patatina tira…»), il meglio che ti possa capitare, per associazione metaforico-espressiva, è creare un “corto circuito significante” fra il piacere del cibarsi ed altre tipologie di piaceri. Ma se tutto il discorso viene messo in bocca ad un esperto nel maneggiar l’ortaggio dall’altro “lato della barricata”, di lì a non riuscire a sopprimere la maligna deriva mentale secondo la quale quella specifica marca di patatine possa, con rispetto puntinato parlando, avere un sapore del “ca…”, è un attimo.
Per tornare al caso specifico proverbiale, questa faccenda della “coperta corta”, con modalità simili, mi ha suggerito involontari scenari di povertà, di ristrettezze, di angustie materiali, riflesse in un batter d’occhio anche nella limitrofa dimensione spirituale.
Passando poi in rapida rassegna i pochi proverbi che conosco, gli esisti sconfortanti non sono stati da meno.
«…Campa cavallo che l’erba cresce…»: ma perché?!?!?!
Non può il povero cavallo godersi un sano e felice periodo di sua giovinezza, pascolando con gioia fra verdissimi prati già belli erbosi e rigogliosi? Deve proprio aspettare di essere vecchio, bacucco e imbolsito, per potersi fare una lauta brucata con tutti i crismi?
«…Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca…»: ma perché?!?!?!
Poi chissà cosa ci fai con la moglie ubriaca? Vai a cercarti un’altra che di certo ci starà non tanto per il tuo fascino o il tuo sex-appeal, ma solo perché sei un gran trafficone di vini? E magari tutto le serve solo per farti ubriacare a tua volta e fotterti poi tutta la casa? Ci vuole così tanto a comprarsi due botti, ubriacarsi insieme alla moglie, riallineare le reciproche frequenze in lieta compagnia etilica, con il piacere aggiuntivo di sapere bella colma la seconda botte di riserva?
«…Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi…»: ma perché?!?!?!
Ma voi, vi ci siete mai messi nei panni del povero venditore di anima al diavolo? No, dico: ti ho venduto l’anima, mica le unghie dei piedi, adesso non staremo mica qui a questionare per quattro micragnosi coperchi, vero?
Sragionando su questa linea, ho pensato che l’Italia potrà dirsi una democrazia di senso compiuto, con un sistema di welfare efficiente e capace di superare persino gli standard scandinavi, solo il giorno in cui introdurrà la basilare figura socio-assistenziale del “consolatore proverbiale”.
Laddove ci sarà sentore di sconforto causato da sovraesposizione a motti e modi di dire popolareschi, ecco che il “consolatore proverbiale” si presenterà puntuale in ogni casa, pronto a lenire lo scompenso linguistico ed immaginifico patito.
Il “consolatore proverbiale” potrà di volta in volta svolgere la sua opera di compensazione sul malcapitato “proverbializzato”, sia rettificando i motti in senso paradossale ed umoristico, sia con azioni concrete vere e proprie.
«…Non facciamo di tutte le erbe un soviet…» potrà essere ad esempio uno dei suoi consigli terapeutici, «…chi rompe paga, ma poi si può rivendere i cocci al mercato dell’usato, o riciclarli con la raccolta cocci differenziata …».
O ancora: «…Avere la botte piena e la moglie ubriaca oggi è possibile: sposa un’enologa…».
Oppure, in periodo carnevalesco, si potrà altresì vedere il “consolatore proverbiale” bello addobbato con un costume da diavoletto, che giunge alla casa di un vessato da proverbi e scarica nel suo giardino un camioncino e rimorchio di pentole e coperchi, rigorosamente abbinabili.
Ma chissà quanti anni dovremo attendere ancora perché la nostra società faccia progressi di civiltà di così ampio respiro. Per il momento, non ci resta altro che consolarci alla maniera che userebbe uno stesso “consolatore proverbiale” regolarmente iscritto all’albo dei “consolatori proverbiali” professionali: «…Campa cavallo, che la coperta corta cresce…».
4 commenti:
«…Campa cavallo, che la coperta corta cresce…». è bello bello, come la storia della gatta che tanto va al lardo etc etc :-) vorrei un abbonamento quotidiano con il consolatore proverbiale, quanto costa? baci proverbialmente affezionati
@->Farly: eheheheh, grazie, Farly :-) Non preoccuparti, quando verrà introdotto il consolatore proverbiale, sarà direttamente passato dalla mutua :-)
Bacini abbonati :-)
un consolatore proverbiale a rompere le uova nel paniere degli antichi!!? una tragedia! ;)
@->Maria Rosaria: ehehehhe, non saprei Em Rose se è una tragedia o no :-) I proverbi sono anche simpatici, volendo, però se usati in dosi misurate :-) In ogni caso, solo per menti bacate come quella del sottoscritto, c'è sempre quel risvolto comico che li fa apparire buffi e ansiogeni :-)
Bacini nobilitati :-)
Posta un commento