“…Solo tu - Topolin! - puoi capir - Topolin!
i mille e mille sogni di un bambin, TO-PO-LIN!...”
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Oggi mi piacerebbe scrivere qualcosa sul mio scrivere, e chiedo anticipatamente venia per l’apparente involuzione narcisistica che potrà trapelare da tutto ciò. In realtà spero che alla fine la cosa risulti solo un pretesto per parlare delle modalità dello scrivere in generale.
Che idea mi sono fatto, nel tempo di sua esistenza, di questo mio blog? Che minchia di entità narrativa sarà mai? Cosa è scaturito dalla mia scrittura, articolo dopo articolo, molte volte anche a dispetto della mia stessa volontà?
La migliore definizione per questo blog, insieme alla migliore risposta a queste oziose domande, credo possa essere la seguente: «Andarperpensieri» è un “romanzo esploso”.
Mi par già di udire i miei cari amici viandanti per pensieri, rassicurarmi all’unisono su questo punto: «…E ti credo: da uno scoppiato come te, cos’altro ne poteva venir fuori?...».
Anche questo è vero, ma lasciatemi spiegare un attimo cosa intendo con la mia definizione.
La forma “romanzesca” è probabilmente la più possente «entità ibrida artistico-espressiva» concepita dalla modernità (per chi volesse approfondire l’argomento, suggerisco due testi fondamentali, a mio modesto parere: «L’arte del romanzo» di Milan Kundera – 1986, e «Apocalittici e integrati» di Umberto Eco – 1964).
Componenti costitutive essenziali del romanzo sono: la sua capacità di trattare temi “universali” a partire da vicende “particolari”; la sua prioritaria finalità tesa a mettere in luce aspetti inediti riguardo ai significati del vivere e del mondo; il suo far leva sullo strumento dell’ironia e del dubbio come imprescindibili chiavi di volta dell’indagine esistenziale (non a caso Kundera fissa nel «Don Chisciotte» di Cervantes e nel «Gargantua e Pantagruele» di Rabelais, le due stelle polari di riferimento dell’epopea del romanzo moderno).
Detto questo però, andrebbe messa in conto un’altra fondamentale condizione “sine qua non”, senza la quale, di fronte ad una certa opera letteraria, non si può affermare di trovarsi in presenza di un romanzo: l’ambiente della “finzione” nella quale l’opera è calata.
Sotto questo aspetto, nell’atto del “romanzare” possiamo rivenire talune componenti essenziali del “meccanismo del gioco” e di quello del “rituale”.
L’ambiente del romanzo, pur trattando della vita, si dispone parallelamente alla vita. E’ un territorio esistenziale immaginato, entro il quale si fingono “vite possibili” nel tentativo di capire qualcosa di più delle vite reali.
In quell’ambito si possono svolgere tutti gli eventi potenziali concessi dalle regole pattuite fra scrittore e lettore, regole che solitamente si formano nel corso della narrazione e, conseguentemente, si consolidano nella lettura.
Le regole del gioco romanzesco sono solitamente imperniate intorno a due fulcri principali: il grado di inverosimiglianza che le vicende narrate possono azzardare, e il ruolo operato dalla “visione” del narratore.
Il narratore è il giocatore privilegiato, lui conosce la vicenda e decide come narrarla: in prima o terza persona; con quali modalità stilistiche; esponendo i fatti dalla prospettiva di un “Dio super partes” che può penetrare nell’animo di tutti i protagonisti, oppure da un livello più “umano” a cui sono concesse cognizioni solo parziali degli eventi e delle “sensazioni” destinate ad entrare in scena, ecc.
Insomma, intorno a queste regole ci può essere anche grande flessibilità, ma una volta fissate, esse si condensano nel particolare “rituale” che quella particolare opera viene a quel punto a costituire. Cerco di farmi capire meglio, con un esempio stupidissimo.
Prendiamo ad esempio una pietra miliare della “storia del romanzo”: «Il processo» di Franz Kafka. Immaginiamo che nel mezzo di una delle innumerevoli descrizioni tragico-grottesche delle vicende del povero Joseph K., il buon Franz K. se ne fosse uscito con una frase del tipo: «…adesso scusami, caro lettore, me ne vado un attimo in cucina a farmi un tè, e solo dopo riprendiamo il racconto…».
Nella “logica romanzesca” pattuita per quella particolare opera, questo non sarebbe stato possibile. Non perché le regole del romanzo siano così restrittive da escludere il colloquio diretto fra autore e lettore (anzi, questo stratagemma è stato usato con eccellenti risultati da tantissimi altri narratori), ma perché in questo precipuo caso, questa eventualità non era contemplata fra le regole ludico-narrative “contrattate”.
Se Kafka si fosse lasciando andare a tale mossa narrativa non prestabilita, avrebbe “spezzato il rito”, avrebbe scardinato la “struttura cerimoniale” pattuita col lettore.
A volte mi capita, dopo aver letto tre o quattro romanzi dietro fila, di sentire la necessità di passare ad un libro di divulgazione scientifica o di cronaca giornalistica, oppure ad un saggio storico, per dire.
Questo succede perché mi prende quasi un senso di asfissia, determinato dal ruolo “sacral-sacerdotale” di cui è investito ogni autore che si metta a scrivere con intento romanzesco. Sento come il bisogno di dare uno scrollone a quell’«invasato», per farlo uscire dal suo corto-circuito visionario, invocandone una momentanea sosta nel mondo dell’«espressività più diretta». Ee appellandomi allora alle antiche formule rituali indicate per siffatti scopi, mi par quasi di sentirmi, mentre idealmente lo supplico: «…Veh, frena Ugo! Vieni giù dal pero…parla un po’ come mangi, va mo’ là…».
Ecco dunque, cari amici viandanti per pensieri, che, per tornare molto umilmente all’assunto iniziale di questo sproloquio, forse adesso è un millimetro più chiaro cosa intendevo definendo cotesto blog come una sorta di “romanzo esploso”.
Ferme restando le debite proporzioni e distanze abissali fra i romanzi veri e questo guazzabuglio prosastico, si tratta pur sempre di un “romanzo esploso” perché del romanzo condivide la finalità, ossia cerca di dire cose sulla vita e sul mondo. Lo fa in forme abbondantemente debitrici alle dimensioni dell’umorismo e del dubbio sistematico.
Ma lo fa altresì uscendo ed entrando continuamente dal “rito”, disarticolando continuamente la struttura generale di una narrazione che di fatto alla fine non sussiste.
Gillipixel è in parte me e, per altrettanta grande parte, è anche “non me”. Qui si mischia autobiografia con immaginazione, e il tutto va a sua volta a confondersi grazie ad ampi sconfinamenti nel surreale. Certi giorni m’improvviso saggista, per poi tornare a fare il “narratore de’ noantri”, mutando successivamente ancora in uno “pseudo-sociologo de’ sta cippa”.
Salgo e scendo costantemente dal palcoscenico, vesto e poi smetto ripetutamente maschere e costumi, sono di volta in volta personaggio ed attore, tanto che alla fine, ciò che ne risulta è proprio quello che ho tentato di spiegarvi un po’ a fatica oggi: un “romanzo esploso”.