Giangigino era sempre stato un bimbo più sensibile che intelligente.
Non perché le sue capacità mentali lasciassero a desiderare. La sproporzione era causata piuttosto dal primo piatto della bilancia. Se quel nomignolo, appiccicato addosso praticamente fin dalla culla, fosse stato pesato sulla sua sensibilità, si sarebbe chiamato Giangigione.
Di soprannomi ne aveva ormai vestiti diversi, Giangigino. Come tanti bambini di paese ricchi di delicatezza verso le cose della vita, era un piccolo soggetto altamente a rischio di “soprannominazione” fluttuante. Questo fatto succede spesso nelle comunità ristrette, in particolar modo quando queste traspirano fantasia e goliardica fratellanza, amalgamate con un pizzico di sana e stralunata spietatezza sociale.
La scherzosità creativa e la vena umoristica che tengono più o meno tutti uniti come una malta umana sia nei momenti di spensieratezza, sia in quelli di difficoltà, in simili paesi finiscono per sbizzarrirsi e dare il meglio di sé proprio nella sagomatura di soprannomi. Cose nemmeno da dire poi se uno si ritrovava a nascere, come successe a Giangigino, in un paese chiamato niente meno che Sburlarolo Pinza.
Alcuni amici di Giangigino, nonostante la giovane età, erano già passati attraverso così tanti soprannomi che per loro tutta la questione si era trasformata in una sorta di ciclico cambiamento stagionale d’abito. Le vittime predilette di questa sartoria nominativa erano naturalmente i bimbi toccati da una qualche vulnerabilità fisica o di carattere. Quello un po’ ciccio, il timidone, il bonaccione sul tontarello andante, e così via.
Giangigino si chiamava in realtà Gianluigi. Ma si erano messi a chiamarlo così in casa, che era ancora una virgola di vocii e teneri sghignazzi d’infante, affondata nella carrozzina. Da “Giangigino”, a trasformarsi poi crescendo in “Gino Giangi”, o ancora “Ginògi”, oppure “Ginangi”, per i principali fini “soprannominanti” di Sburlarolo, ci era voluto un tempo ancor più breve della distanza che separava i loro cervelli in salamoia dalla bocca.
In questo contorno colorito, Giangigino cresceva respirando aria di grande familiarità con le parole. Un po’ gli dispiaceva questa cosa di cambiare spesso soprannome. Un po’ però lo affascinava anche. Era come divenire periodicamente un’altra persona. Si sentiva quasi di sfuggire in qualche modo al controllo dei grandi e questo gli ispirava dentro un diffuso senso di gioia. Per il momento si trattava di una gioia di tipo indefinito, ma solamente per il fatto che Giangigino non riusciva ancora a cogliere fino in fondo il significato delle due parole gemellate non solo per via d’accento: libertà e felicità.
Ce n’erano d’altra parte di cose ancora poco chiare per lui. Ad esempio non capiva come mai i grandi in certe circostanze usassero così male le parole. Secondo Giangigino, proprio le sprecavano.
Se n’era accorto spesso durante le partite di calcio della locale squadra amatoriale. A Sburlarolo Pinza il calcio era un affare di Stato, e più i calciatori erano brocchi, più il pubblico s’infervorava, s’imbufaliva e schiumava bile. In quelle occasioni, insulti, contumelie e le peggiori irripetibili insolenze, si gonfiavano come funghi riscaldati dai bollenti raggi del livore sportivo, dopo settimane di acquazzoni polemici ruminati nei bar ed intorno alle panchine di tutto il paese.
Giangigino, nella sua ingenuità, pur non capendo fino in fondo il perché, pensava: «…C’è qualcosa che non funziona…le parole in questo modo sono sciupate…». Gli sembrava che fosse tutto uno spreco di energie.
Per scuotere veramente l’arbitro o l’avversario, secondo il ragionamento di Giangigino, l’ultima cosa da fare era esattamente la prima che loro si aspettavano di ricevere, ossia essere insultati.
Nella testa di Giangigino, confuse sensazioni di questo tipo mescolate ad idee loro parenti ancor più vaghe, macerarono come in un piccolo compostaggio di fantasia, fino alla prima domenica utile per assistere ad un nuovo infuocato scontro degli eroi calcistici locali. La sfida in programma era di quelle da far sudare i palmi delle mani ad un cavallo baio: Sburlarolo Pinza contro gli odiati nemici di sempre, gli “arci-cugini” del Tirchiano, il paese appena dopo lungo provinciale verso la città, che in virtù di questo privilegio geografico si erano sempre sentiti in diritto di guardare dell’alto in basso quei “bifolchi” degli sburlarolesi.
Al decimo del primo tempo, l’invito più gentile registrato fra i mille ed un insulto già eruttato dal magmatico drappello vociante dei tifosi di casa, era “arbitro fottiti”. Per il resto, al di sotto della soglia qualitativa di un “figlio di…”, oppure di un “testa di su” o di un faccia da giù”, non si accennava mai a scendere.
La gara era tirata, le scorrettezze si sprecavano, sul terreno di gioco così come a bordo campo.
Tibie e malleoli di terzini e centrocampisti erano più a rischio delle carrozzerie sacrificate nei crash-test, e forse mai come quel giorno l’immaginazione insultante della tifoseria era salita al potere in modo così feroce e ricco di ingiuriosi florilegi.
Fu in uno dei rari momenti di tregua concessi dalla gragnuola quasi ininterrotta di quelle compatte invettive sguaiate, in una delle rare microfrazioni di silenzio saltate fuori chissà da dove, che si poté udire, distintamente risaltata dalla muta eco di quella effimera quiete, una piccola, sottile, ma stentorea voce, urlare a pieni polmoni: «…Arbitro!!!…Grimaldello!!!…».
Decine di occhi silenti e spalancati si girarono dapprima increduli verso la fonte di quel bagliore di genialità. Giocatori, tifosi, arbitro, persino quei quattro cagnetti bastardini che si erano intrufolati fra le maglie della biglietteria, si fusero in un unico sguardo attonito, sospeso ancora per alcuni taciti attimi sulla minuta figura di Giangigino: era stato lui.
Poi furono scrosci di sghignazzate a grappoli, chiostre di denti veri e di dentiere scoperte sino allo spasimo, lacrime di risate a rigare le guance di ciascuno.
Il seme incantato del non senso era stato gettato.
Gli animi si distesero, oltre ed entro la rete di recinzione. La partita proseguì combattuta, ma ancor più bella nei gesti e nell’eleganza degli atleti, mentre nell’aria si libravano terribili ed inauditi, nuovissimi epiteti forgiati di una simile pasta espressiva: «…Portiere, spinterogeno!!!…Arbitro, mi concede la mano di sua sorella?...Otto, stilnovista refrattario!!!...».
Per tutte le restanti partite di quella stagione giocate in casa dallo Sburlarolo, i tifosi accorsero al campo sportivo organizzati in gruppetti muniti di dizionario. Non fu più blasfemo dire che il tifo ha senso solo se è una grossa, spropositata “cazzata” e tutti capirono che la vera insensatezza era stato farsi un fegato da paté, per un divertimento.
Ah…quasi ci si dimenticava: da allora Giangigino fu per tutti, solo e sempre, Luigi.
Non perché le sue capacità mentali lasciassero a desiderare. La sproporzione era causata piuttosto dal primo piatto della bilancia. Se quel nomignolo, appiccicato addosso praticamente fin dalla culla, fosse stato pesato sulla sua sensibilità, si sarebbe chiamato Giangigione.
Di soprannomi ne aveva ormai vestiti diversi, Giangigino. Come tanti bambini di paese ricchi di delicatezza verso le cose della vita, era un piccolo soggetto altamente a rischio di “soprannominazione” fluttuante. Questo fatto succede spesso nelle comunità ristrette, in particolar modo quando queste traspirano fantasia e goliardica fratellanza, amalgamate con un pizzico di sana e stralunata spietatezza sociale.
La scherzosità creativa e la vena umoristica che tengono più o meno tutti uniti come una malta umana sia nei momenti di spensieratezza, sia in quelli di difficoltà, in simili paesi finiscono per sbizzarrirsi e dare il meglio di sé proprio nella sagomatura di soprannomi. Cose nemmeno da dire poi se uno si ritrovava a nascere, come successe a Giangigino, in un paese chiamato niente meno che Sburlarolo Pinza.
Alcuni amici di Giangigino, nonostante la giovane età, erano già passati attraverso così tanti soprannomi che per loro tutta la questione si era trasformata in una sorta di ciclico cambiamento stagionale d’abito. Le vittime predilette di questa sartoria nominativa erano naturalmente i bimbi toccati da una qualche vulnerabilità fisica o di carattere. Quello un po’ ciccio, il timidone, il bonaccione sul tontarello andante, e così via.
Giangigino si chiamava in realtà Gianluigi. Ma si erano messi a chiamarlo così in casa, che era ancora una virgola di vocii e teneri sghignazzi d’infante, affondata nella carrozzina. Da “Giangigino”, a trasformarsi poi crescendo in “Gino Giangi”, o ancora “Ginògi”, oppure “Ginangi”, per i principali fini “soprannominanti” di Sburlarolo, ci era voluto un tempo ancor più breve della distanza che separava i loro cervelli in salamoia dalla bocca.
In questo contorno colorito, Giangigino cresceva respirando aria di grande familiarità con le parole. Un po’ gli dispiaceva questa cosa di cambiare spesso soprannome. Un po’ però lo affascinava anche. Era come divenire periodicamente un’altra persona. Si sentiva quasi di sfuggire in qualche modo al controllo dei grandi e questo gli ispirava dentro un diffuso senso di gioia. Per il momento si trattava di una gioia di tipo indefinito, ma solamente per il fatto che Giangigino non riusciva ancora a cogliere fino in fondo il significato delle due parole gemellate non solo per via d’accento: libertà e felicità.
Ce n’erano d’altra parte di cose ancora poco chiare per lui. Ad esempio non capiva come mai i grandi in certe circostanze usassero così male le parole. Secondo Giangigino, proprio le sprecavano.
Se n’era accorto spesso durante le partite di calcio della locale squadra amatoriale. A Sburlarolo Pinza il calcio era un affare di Stato, e più i calciatori erano brocchi, più il pubblico s’infervorava, s’imbufaliva e schiumava bile. In quelle occasioni, insulti, contumelie e le peggiori irripetibili insolenze, si gonfiavano come funghi riscaldati dai bollenti raggi del livore sportivo, dopo settimane di acquazzoni polemici ruminati nei bar ed intorno alle panchine di tutto il paese.
Giangigino, nella sua ingenuità, pur non capendo fino in fondo il perché, pensava: «…C’è qualcosa che non funziona…le parole in questo modo sono sciupate…». Gli sembrava che fosse tutto uno spreco di energie.
Per scuotere veramente l’arbitro o l’avversario, secondo il ragionamento di Giangigino, l’ultima cosa da fare era esattamente la prima che loro si aspettavano di ricevere, ossia essere insultati.
Nella testa di Giangigino, confuse sensazioni di questo tipo mescolate ad idee loro parenti ancor più vaghe, macerarono come in un piccolo compostaggio di fantasia, fino alla prima domenica utile per assistere ad un nuovo infuocato scontro degli eroi calcistici locali. La sfida in programma era di quelle da far sudare i palmi delle mani ad un cavallo baio: Sburlarolo Pinza contro gli odiati nemici di sempre, gli “arci-cugini” del Tirchiano, il paese appena dopo lungo provinciale verso la città, che in virtù di questo privilegio geografico si erano sempre sentiti in diritto di guardare dell’alto in basso quei “bifolchi” degli sburlarolesi.
Al decimo del primo tempo, l’invito più gentile registrato fra i mille ed un insulto già eruttato dal magmatico drappello vociante dei tifosi di casa, era “arbitro fottiti”. Per il resto, al di sotto della soglia qualitativa di un “figlio di…”, oppure di un “testa di su” o di un faccia da giù”, non si accennava mai a scendere.
La gara era tirata, le scorrettezze si sprecavano, sul terreno di gioco così come a bordo campo.
Tibie e malleoli di terzini e centrocampisti erano più a rischio delle carrozzerie sacrificate nei crash-test, e forse mai come quel giorno l’immaginazione insultante della tifoseria era salita al potere in modo così feroce e ricco di ingiuriosi florilegi.
Fu in uno dei rari momenti di tregua concessi dalla gragnuola quasi ininterrotta di quelle compatte invettive sguaiate, in una delle rare microfrazioni di silenzio saltate fuori chissà da dove, che si poté udire, distintamente risaltata dalla muta eco di quella effimera quiete, una piccola, sottile, ma stentorea voce, urlare a pieni polmoni: «…Arbitro!!!…Grimaldello!!!…».
Decine di occhi silenti e spalancati si girarono dapprima increduli verso la fonte di quel bagliore di genialità. Giocatori, tifosi, arbitro, persino quei quattro cagnetti bastardini che si erano intrufolati fra le maglie della biglietteria, si fusero in un unico sguardo attonito, sospeso ancora per alcuni taciti attimi sulla minuta figura di Giangigino: era stato lui.
Poi furono scrosci di sghignazzate a grappoli, chiostre di denti veri e di dentiere scoperte sino allo spasimo, lacrime di risate a rigare le guance di ciascuno.
Il seme incantato del non senso era stato gettato.
Gli animi si distesero, oltre ed entro la rete di recinzione. La partita proseguì combattuta, ma ancor più bella nei gesti e nell’eleganza degli atleti, mentre nell’aria si libravano terribili ed inauditi, nuovissimi epiteti forgiati di una simile pasta espressiva: «…Portiere, spinterogeno!!!…Arbitro, mi concede la mano di sua sorella?...Otto, stilnovista refrattario!!!...».
Per tutte le restanti partite di quella stagione giocate in casa dallo Sburlarolo, i tifosi accorsero al campo sportivo organizzati in gruppetti muniti di dizionario. Non fu più blasfemo dire che il tifo ha senso solo se è una grossa, spropositata “cazzata” e tutti capirono che la vera insensatezza era stato farsi un fegato da paté, per un divertimento.
Ah…quasi ci si dimenticava: da allora Giangigino fu per tutti, solo e sempre, Luigi.
8 commenti:
La storia e' semplicemente superba Gilli. Bellissima.
Un applauso.
:-)
I Modena Liquam Ramblers orrendi.
Se funzionasse così andrei anch'io allo stadio vincendo il mio disgusto per il gioco del calcio, annessi e connessi.
Carina la tua storiella surreale... ehehhehehe
storia spettacolare cara la mia mezza chimera, mi mandi giangigino, pardon, luigi, alle mie riunioni di lavoro?
:-)
@->Yossarian: caro Yoss, come già dissi un'altra volta, ogni tuo commento è per me come una nuova mostrina da applicare alla mia divisa di scribacchino :-) E questa volta mi sembra una promozione a sottufficiale :-)
Grazie veramente di cuore, questo commento mi ha dato una bella gioia :-)
Riguardo la scelta della canzone, lascia che ti spieghi :-)
Antefatto (e giuro che è vero...): proprio nel mentre che decidevo di mettere questa, pensavo: "...sono sicuro che Yoss mi dirà qualcosa in proposito..." :-)
Devi sapere che i modena city ramb proprio non mi piacciono pe' 'gniente :-) infatti ho messo questa che non è una loro canzone (io so che c'è una versione dei Pogues, ma poi non so se sono loro gli autori originali o di chi altri sia...)...
Questa versione mi piace per via del dialetto...lo trovo ben calzante al clima di "menefreghismo che si prende cura" che si vuole evocare e mi sembrava intonata anche col mio raccontino...
La tua definizione di Modena Liquam Rambler è bellissima :-)
Ancora grazie: lusingato e onorato, ti saluto :-)
@->Marisa: ehehehe :-) è vero, Mari, gli stadi sarebbero posti molto migliori con dei Giangigini nei paraggi :-) quello che più in generale volevo trasmettere però, è la fiducia nella bellezza :-) la bellezza vera sa sempre sbugiardare quella fasulla :-) Non so se ci sono riuscito, ma questo era quello che mi premeva di dire :-)
Bacini sportivi :-)
@->Farly: già, Farly, ci vorrebbe sempre nelle situazioni trombonesche e presunte seriose, un fattore che fa scricchiolare il castello di carte e invita tutti a venire giù dal pero :-)
Telefono a Giangigino e ti faccio sapere se ha tempo per la tua prossima riunione :-)
Bacini giagigini :-)
Questo Gianginino farebbe comodo a molti!
Storia eccezionale, Gillipixel!
@->Lara: ehehehe, grazie Lara...alla fine, questo Giangigino si rivela un normal-eroe dei nostri giorni :-)
Bacini discreti :-)
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