giovedì 13 gennaio 2011

Oltre la barriera del vero


Oggi mi va di parlare un po’ d’arte, ma non focalizzerò questo articoletto su di un autore specifico. Si tratterà quindi di una “Sbrodolata di sugo artistico sulla camicia bianca” sui generis (…quale generis? Ma il “sui”!), dedicata ad una questione più generale, trasversale a tutti gli artisti e a tutte le epoche della storia dell’arte, e che potrei riassumere con il termine leggermente pomposo di “fruizione estetica”.

Detto in parole povere, mi riferisco a come si svolge la faccenda al di là della barricata artistica, all’atteggiamento assunto da chi si pone di fronte all’opera e la osserva. Se da una parte c’è chi dipinge, scolpisce, ecc., dall’altra c’è praticamente sempre chi poi guarda il risultato scaturito.

Ogni persona possiede una propria personale esperienza estetica accumulata nel tempo. Anche chi, per ipotesi estrema, non avesse mai visto in vita sua un quadro, una scultura, un disegno, un film, uno scarabocchio, niente di niente che possa essere in qualche modo riconducibile ad una volontà di esprimersi attraverso il linguaggio artistico, ha in ogni modo delle aspettative sulle cose del mondo che passano al vaglio della propria visione.

La vista, di base, è uno strumento che ci consente di metterci in relazione con il mondo nei termini di una valutazione di elementi positivi o negativi. D’accordo, ci sono anche tatto, olfatto, udito, e “propriocezione”, sesti e settimi sensi, ma in un discorso sull’arte, già la vista occupa una buona fetta delle argomentazioni possibili.
Partendo proprio da un livello ultra-semplificato di considerazione del fenomeno, la vista è un filtro selettivo per distinguere ciò che è buono o cattivo, ai fini della nostra sopravvivenza, del nostro piacere, dell’accrescimento dei nostri affetti, e così via. In questo senso, anche chi è assolutamente digiuno d’arte, possiede già una propria competenza nell’ambito di un linguaggio visivo: conosce già una “lingua della vista”.

Questo fatto può rappresentare un ostacolo più o meno grande, nel momento in cui un osservatore abbastanza non avvezzo alle tematiche artistiche si ritrovi a confrontarsi con delle opere pittoriche, scultoree e così via. Della vista infatti, come abbiamo visto (eheheheheh...), nella vita ordinaria (quella lontana anni luci da una dimensione artistica) siamo soliti servirci in maniera valutativa ed utilitaristica, ossia misurando la bontà di ciò che ci circonda, nell'ottica del soddisfacimento dei nostri scopi e bisogni.

Il primo, grande, fondamentale e puntuale equivoco che scatta quasi inevitabilmente quando passiamo a dedicare la vista al mondo dell'arte, è che in un’opera ci si aspetta di ritrovare “il vero” riprodotto. D'altra parte, la cosa è più che ragionevole: siamo abituati ad usare la vista in un modo “utilitario” e in quel modo ci aspettiamo di continuare ad usarla anche in ambito artistico.

E’ proprio tale mancata variazione di registro che, ad un livello “ingenuo”, crea il malinteso circa quella che si ritiene dover essere l’intenzione primaria dell’artista: copiare fedelmente il mondo. Entro certi limiti di base, il concetto non è completamente errato, ma più si conoscerà l’arte, più ci si renderà conto che i livelli maggiormente qualitativi di espressività vengono toccati nel momento in cui l’artista propone non una sua copia, bensì una sua “interpretazione” del mondo.

Per addentrarci meglio in questo concetto, facciamo un piccolo parallelo con la parola scritta.
Mettiamo che mi presentassi a voi, dicendo: «…Salve, come va? Io sono un poeta. Adesso vi leggerò una mia composizione…» e subito di seguito mi mettessi rifilarvi una cosa del genere:

“…Spesso sento dentro
una forte insoddisfazione,
e quasi non capisco se
desidererei essere diverso…”

Giustamente vi infastidireste non poco e mi rispondereste in coro: “…Sì, va beh, se te sei un poeta, allora io ho appena visto passare il sesto stormo esistenzialista degli asini volanti…”.
Però, se appena dopo di me arrivasse un tale che, dichiarandosi anch’egli poeta, si mettesse a dirvi invece una roba su questo tono:

“…Meno mondo, per amor di Dio!
Meno di questa vita tutti i giorni!

Basta col mondo, basta con la gente!
Basta con tutto!
Voglio morire? No: morire
sovviene a chiunque.
Voglio una soluzione differente,
con più vita e assurdo.

Sono stufo di continuare ad essere io
in tutto quel che sono.
Voglio essere altro? No: cambiare
è facile da ricordare.
Voglio esser io, voglio esser mio,
ma senza stare dove sto…”.

a parte il fatto che questo tale si chiamerebbe Fernando Pessoa e non Gillipixel (la poesia s’intitola «Meno mondo» ed è del 1930), ma all'udire simili parole sareste percorsi da un moto di godimento estetico e, ricorrendo ad una classica espressione tratta dal bagaglio tecnico proprio del critico letterario, esclamereste: «…Minchia!!! Questo sì che è un poeta, mica te Gillipix…».

Per ritornare tuttavia al discorso dell’arte, facciamo un attimo mente locale sulle due composizioni proposte nel mio esempio: la prima non è poesia, ma è un uso del linguaggio molto aderente al “codice ufficiale” normalmente condiviso da chi parla l’italiano. Le parole, lì, hanno il significato che ci aspettiamo, né più né meno. Per sintetizzare, insomma, diciamo che è un modo di esprimersi “realistico” ed “utilitaristico”, anche perché chi si esprime su tale registro lo fa con il presupposto che i significati intesi dal “parlante” giungano nella loro interezza, in percentuale del 100%, all'ascoltatore.

La composizione di Pessoa invece (e non c'era certo bisogno che ve lo venissi a dire io) è poesia, eccome. Le frasi sono alla ricerca di significati nuovi, non si accontentano di quelli normalmente previsti dal dizionario. Con abbinamenti sintattici inediti o con giustapposizioni imprevedibili dei termini, forzano il comune modo di significare, per spaziare oltre, nel regno dei concetti inesplorati, nel dominio del “non ancora pensato”. Per riprendere la similitudine di prima, qui non si sa nemmeno quanta percentuale di significato parta dal “parlante” e quanta invece l'ascoltatore ne recepirà: si può anche andare su quote tipo il 1000% o il 3520%, assurde per il linguaggio comune, ma del tutto plausibili nella sfera poetica.

Proseguendo nella metafora: il mio abbozzo di “non-poesia” (volutamente banalizzato) equivale ad un dipinto che cerca di imitare il “vero” in stile Teomondo Scrofalo, mentre la poesia pura di Pessoa potrebbe rimandare alla potenza straniante di un Magritte o di un Dalì.

Ora, la domanda è questa: perché quando ci è promessa poesia su una pagina, ci incazziamo se poi ci viene rifilata prosa, mentre nell'ambito del linguaggio visivo, succede esattamente il contrario? Perché ci stizzisce la vista di un opera d'arte moderna, quando convoglia significati che si discostano dal “realismo”, mentre con il linguaggio vero e proprio reagiamo nel modo opposto?

Lamentarsi davanti ad un dipinto per la sua perdita di contatto più o meno marcata con il “vero”, equivale ad esultare per la mia “crosta poetica” e snobbare invece la magnifica sapienza “linguistico-pittorica” di Pessoa.

Forse uno dei motivi discriminanti, probabilmente il più banale, lo possiamo ricercare nella diversa dimestichezza posseduta rispetto all'uno o all'altro linguaggio. La lingua vera è propria ci è familiare, mentre il linguaggio visivo dell'arte lo è molto meno.
Anzi, per quanto riguarda il “capitolo” del vedere, siamo in qualche modo “depistati” dalle modalità ordinarie di attribuire significati alle cose del mondo attraverso l'uso quotidiano della vista.

In questo senso, per chi veramente è interessato all'arte, un serio punto di partenza potrebbe consistere nel cominciare ad imparare i suoi linguaggi.
Ancor prima: giova mettersi nell'ordine di idee che l'arte ci offre un nuovo modo di attribuire significati alle cose che vediamo, un modo che ha lo scopo di scoprire interpretazioni della vita e del mondo non esplorate prima da nessun altro.
Se attraverso il modo di vedere “quotidiano”, le cose ci parlano per quello che sono, attraverso la lente dell'arte ci viene aperta invece una modalità di visione poetica della realtà.

Per imparare il linguaggio (o meglio: i linguaggi) dell'arte è necessario leggere libri sul tema e vedere le opere dal vivo, ma in parallelo non meno necessario è mantenere sempre vivo uno spirito aperto all'osservazione non preconcetta.

«...Chi ha acquisito una certa conoscenza della storia dell'arte corre talvolta il pericolo di cadere in una trappola del genere. Vedendo un'opera d'arte non si abbandona ad essa, ma preferisce cercare nella mente l'etichetta appropriata. [...]
Parlare con intelligenza dell'arte non è difficile, da quando le parole proprie dei critici sono state impiegate in accezioni così diverse da perdere ogni vigore. Ma vedere un quadro con sguardo vergine e avventurarsi in esso in un viaggio di scoperta è un'impresa ben più ardua, ma anche ben più ricca di soddisfazioni. Nessuno può prevedere con che cosa, da un simile viaggio, farà ritorno a casa...».

La storia dell'arte
Ernst Gombrich - 1950

In apparenza si tratta di una contraddizione, perché sembra che ci venga chiesto di divenire esperti e nel contempo rimanere “ingenui”. Ma di modi di argomentare apparentemente discordanti, il mondo dell'arte ne è pieno zeppo, per cui conviene farci l'abitudine fin da subito.



7 commenti:

Yossarian ha detto...

Sono d'accordo con te Gilli: imparare il linguaggio dell'arte e' fondamentale.

Il "realismo" non e' la questione principale, in questo hai ragione: e' ovvio. L'arte non puo' limitarsi a riprodurre il vero e la natura.

Ma anche gli artisti devono imparare a comunicare: non gli e' concesso tutto perche' sono artisti.

The name of the game is communication, Gilli.

Esistono i bravi artisti e gli artisti che fanno vomitare.

Se non comunichi niente a nessuno allora cambia mestiere.

Non ti puoi sempre nascondere dietro il: "Non mi capite, siete bruti, talpini e filistei."

Io capisco e amo Warhol, Klimt, Moore, e tanti altri artisti moderni e contemporanei, ma non capisco Damien Hirst che secondo me e' un cialtrone sopravvalutato e autoreferenziale.

Cosi' come sono cialtroni sopravvalutati e autoreferenziali tanti artisti contemporanei e un certo giro di arte contemporanea.

Io non posso sedermi alla batteria e propinare rumori atroci fuori tempo solo perche' credo di star esprimendo un grande concetto.

(Mi e' successo una sera dopo tre sere di concerti consecutivi ed ero un po' sbronzo) ;-)

Se e' un grande concetto e ho qualcosa da dire saro' in grado di comunicarlo anche con rumori atroci e sperimentali.

E magari potro' chiedere al pubblico di fare uno sforzo.
se non ho niente da dire, sara' solo letame.

Non e' solo l'artista che deve imparare: l'artista non e' dio. Il pubblico e' molto importanete.
L'idea dell'artista incompreso, o del pubblico che deve capire a ogni costo ogni capriccio dell'artista e' una idea romantica sciocca (non mi riferisco a te, parlo in generale) e stereotipata.

Fa venire in mente il pittore col basco, i baffetti da sparviero, il grembiulino, tavolozza e pennello.

Il post e' molto bello.

:-)

Gillipixel ha detto...

@->Yossarian: caro Yoss :-) innanzitutto mi scuso per il ritardo nella risposta al tuo commento, come sempre puntuale, articolato e molto gradito :-)...

Poi ti ringrazio per aver focalizzato un punto che in effetti mi è sfuggito di rimarcare come meritava...quando si affrontano temi così ampi in un ambito che deve essere per forza sintetico, com'è giusto che sia nello spazio di un articoletto di un blog , ci si deve affidare a dei sottintesi, bisogna dare per scontato certi presupposti minimi, e a volte, nella foga della sintesi, capita di far passare per ovvi certi concetti che invece sarebbe meglio esplicitare...

Per farla breve, condivido pienamente quello che hai detto nel tuo commento: l'onere dell'operazione artistica non può cadere tutta sullo spettatore, anche l'artista ha le sue "responsabilità"...quello che introduci è un discorso ancor più complesso, credo, ossia parli del criterio di "artisticità" di un'opera...

Nel mio scritto mi riferivo a quelle opere per le quali è ormai è stato assodato, con un certo ragionevole margine di condivisione comune, che si tratti di prodotti artistici in generale "riconosciuti"...

Davo per scontato questo punto, ma in effetti non lo è, soprattutto se si finisce per parlare di arte moderna...

Da quando con Duchamp è stata sdoganata l'idea che per certa arte è sufficiente il concetto che ci sta dietro, mentre la realizzazione tecnica e pratica passa in secondo piano o diventa quasi un dettaglio, le cose si sono maledettamente complicate :-)

Questo fatto, rivoluzionario senza dubbio, ha aperto nuove frontiere all'arte, ma ha anche aperto la possibilità a molti cialtroni di spacciarsi per artisti :-)

Sinceramente, non mi sento sempre così sicuro di saper dire quali siano le volte che mi trovo davanti ad un'opera d'arte vera, e quelle in cui invece sono in presenza di una solenne presa per il culo :-)

(...continua)

Gillipixel ha detto...

@->Yoss: (...continua da prima :-)

Il passaggio di Gombrich che citavo, un po' concerne anche questo argomento: se uno sa mantenere una certa dose di "ingenuità", anche dopo aver approfondito attraverso i libri e lo studio, si tiene sempre buono quell'opportuno margine di libertà critica utile per poter proclamare in iper-fantozziano sfogo liberatorio: "Questa non è arte, ma è una cagata pazzesca!!!"

Poi il confine è sempre molto sottile...ad esempio, anche se lo conosco pochissimo, per cui il mio giudizio è un po' "esile", sono d'accordo con te su Hirst, che mi pare solo un trombone che basa tutta la sua presunta arte sul clamore, sullo scandalo o su trucchi spiccioli...ho visto poco tempo fa in Tv una sua "opera": delle "fette di vacca", ma nel senso letterale dell'espressione, ossia delle vere e proprie sezioni di poveri bovini, tagliate con una precisione tra il macabro da obitorio ed il buffo da cartone animato, messe dentro enormi cristalli con formalina e poi allineate come a riprodurre l'animale scomposto nello spazio...
Se questa è arte, beh, io personalmente non ne sentivo poi così tanto il bisogno...

Tuttavia a volte, ci sono altri casi che nella loro pur apparente "prendevolezza per il culo" :-) non so come mai, ma si rivelano invece portatori di una certa dose di poeticità...
Ti faccio l'esempio di un'opera di Piero Manzoni (quello della premiata ditta di scatolette di merda :-)
Questa opera di Manzoni si chiama "Socle du mond", ossia zoccolo del mondo: era un semplice cubo posato per terra, con una scritta rovesciata sopra un fianco, che diceva: "Base del mondo - Omaggio a Galileo Galilei"...

Ecco, anche qui, uno è mezzo autorizzato a dire che si tratti di una cazzata, più di quanto lo sia di fronte alla cappella Sistina, ma non so...questa mi è più simpatica, ci leggo dietro una volontà poetica effettiva, e percepisco che essa si concretizza in qualche forma nel mio modo di sentire, capisco cosa voleva dire Manzoni...

Questo alla fine può essere forse l'unico criterio di "artisticità" possibile: se l'opera fa scattare una sorta di empatia fra di sè e lo spettatore che l'osserva...fermo restando che i cialtroni vanno sgamati e riempiti di uova marce :-)

Boh :-) Niente, la faccio finita qui se no si fa notte, Yoss :-) Ti ringrazio tanto per il tuo commento, come sempre molto stimolante e ricco di spunti di discussione...

Ah...mi fa impazzire la parola "talpino" :-) è fortissima...

Ciao :-)

farlocca farlocchissima ha detto...

a volte il non capire cosa dice l'artista è solo dovuto al fatto che quello è talmente visionario da aver guardato troppo in là nel tempo. Pensa al buon vecchio vincent van gogh, porello, i suoi colori lividi nel raccontare le persone o i suoi cieli rotolanti, non li capiva nessuno all'epoca sua, poi sono diventati la forza eccelsa di una rappresentazione della realtà. Così come pessoa non se lo filava nessuno... comunque sono totalmente d'accordo: è bellissimo mettersi davanti ad un'opera con la testa vuota di ogni cosa e vedere cosa arriva. spesso arrivano meraviglie.

Bacetti storico-artisco-pensierosi

Gillipixel ha detto...

@->Farly: vero, verissimo, cara half a kimer of mine :-)
La questione della comprensione artistica è spinosa anche trasversalmente alle epoche :-) Spesso, solo il tempo è giudice equo e competente a dire l'ultima parola...anche lo stesso, Caravaggio, da quel che mi risulta e se non vado errato, è stato rivalutato tantissimi anni dopo la sua morte...

Che il segreto stia tutto nel mantenersi a testa vuota e lasciarsi avvolgere solo dal flusso delle sensazioni? :-)
Mah, chi lo sa?...Quien sabe?...come direbbe il saggio Tex Willer :-)

Bacini onorati dei tuoi commenti sempre delicati :-)

Lara ha detto...

Sono riflessioni molto interessanti le tue, Gill.
Davanti ad un'opera d'arte occorre scrollarsi di dosso tutti i pregiudizi, sapendo già che l'arte non può essere realtà, l'arte è per se stessa, imitazione, o anche, interpretazione soggettiva di una realtà. Quando la comunità dei valori tradizionali è frantumata,poiché gli strumenti stessi sono stati alterati,poiché le forme classiche del discorso artistico e della metafora stanno cedendo a modi complessi di transizione, la lettura dell'arte deve essere ricostruita.Sapendo già che ci sono truffatori che approfittano di questo. E qui il discorso si fa più indubbiamente complicato, ma si ricollega, secondo me al commento di Farlocca.
Bacini affascinati :)
Lara

Gillipixel ha detto...

@->Lara: grazie, cara Lara, per aver integrato il discorso con un altro elemento fondamentale...fino ad un certo punto della storia, l'arte poteva contare su DI un linguaggio accettato più o meno collettivamente...c'era una "lingua ufficiale", che cambiava lentamente, ma era riconosciuta da tutti...poi ad un certo punto, tra fine '800 ed inizio '900, il linguaggio dell'arte è esploso in una miriade di lingue autonome...se sia stato un bene o un male, nessuno lo potrebbe dire...quello che si può dire è però che questo fenomeno (magari con lo sfalsamento di qualche secolo avanti o indietro...) ha rispecchiato perfettamente il venire meno delle verità filosofiche ed esistenziali che si pensavano assolute...

Grazie per questo commento interessante ed integrativo :-)

Bacini integrati :-)