martedì 28 febbraio 2012

Nulla-saccente


Come se la caverebbe un muratore che da un giorno all'altro si rendesse conto di avere paura dell’altezza? Oppure un mozzo, improvvisamente alle prese con il mal di mare? Oppure ancora, un chirurgo con la repulsione per il sangue, un macellaio folgorato di botto da una smodata propensione al vegetarianesimo, o un attore travolto da una timidezza patologica?

In un modo più o meno simile, credo se la cavi lo scribacchino affetto di tanto in tanto da attacchi di nulla-saccenza.

Il nulla-saccente non solo non vorrebbe sapere niente, ma si dispiace persino di sapere quel poco di qualcosa che sa. Vorrebbe solo seguire il dettato fisiologico delle proprie esternazioni corporali, senza interferenze di sorta da parte della mente. Mangiare, bere, dormire, muoversi un po' e tutte le altre estrinsecazioni della fisicità che ciascuno conosce. Il nulla-saccente vorrebbe limitarsi a quello soltanto.

Lo stato di nulla-saccenza perfetta rimane però una chimera molto remota da acquisire. Per quanto ci si sforzi di non sapere, di nullificare ogni anfratto riflessivo, di non pensare se non a supreme beate fave “nichilisticheggianti”, alla fine sbuca sempre fuori qualche nozione molesta a ronzare fra i neuroni.

Un buono compromesso si raggiunge forse dedicandosi a discipline “dai più” ritenute (e a ragione, ma inconsapevolmente) inutili. “Dai più” insipienti, ovviamente. Fra queste la più adatta all'uopo credo sia la filosofia. La filosofia consente di tenere impegnato il rimacinio mentale, in ogni caso inevitabile, blandendolo con un materiale vitale più duttile e malleabile dell'acre ragionare per concetti finalistici ordinari.

Filosofando o anche soltanto lasciandosi abbracciare, mollemente adagiati sulla battigia esistenziale, da una lieve risacca filosofica che ci carezzi le membra concettuali con spumosi e fiacchi flutti meditativi, si perviene ad un discreto compromesso, capace di appagare in qualche modo il nostro desiderio di nulla-saccenza.

L'opinione comune si chiede spesso a cosa la filosofia possa servire. Quello che credo di aver capito io, è che mai domanda più fuori luogo si potrebbe porre. Perché se c'è un'attitudine mentale più lontana dall'idea del “servire a qualcosa”, questa è proprio la filosofia. Il “servire a qualcosa” presuppone l'esistenza di un soggetto che, disponendo di un oggetto e facendo “leva” sulle sue potenzialità di strumento, possa addivenire ad un qualche scopo prefissato.

Con la filosofia no: lei è come una grande campana, immensa, che avvolge ed ingloba tutte le restanti più o meno piccole campane, rappresentate dalle nostre innumerevoli prerogative esistenziali. Filosofare significa far vibrare le nostre piccole e limitate campanelle, nel tentativo di entrare in risonanza armonica con la grande campana globale che ci avvolge.

«...è stato inteso in larga misura [...] che i concetti (e direi con ragione, anche se la formulazione è ritrita) sono vivi, o addirittura che la vita dei concetti – Hegel usa l'espressione enfatica “la vita del concetto” - è propriamente la stessa cosa che la filosofia [...]...il compito di una trattazione filosofica della terminologia filosofica non può essere, a rigore, altro che quello di ridestare questa vita che si è coagulata nei termini, nelle parole...».

“Terminologia filosofica” - Theodor W. Adorno – 1973

Forse è proprio per questa sua proprietà di saper ridurre al minimo possibile la distanza fra il soggetto (suo malgrado sempre pensante) e lo strumento del proprio ragionare (andando praticamente a coincidere con il vivo “farsi” del linguaggio stesso), che la filosofia si attaglia così bene allo status di nulla-saccente, il quale in essa riscopre un habitat quasi perfetto.

Mi piace riscriverlo: «...i concetti sono vivi e la vita dei concetti è propriamente la stessa cosa che la filosofia...».

Allora, filosofando ci si accorge di come l'impellenza a pensare si riveli a se stessa nella propria inevitabilità pura, e a quel punto ogni moto di ribellione affidato alla volontà di nulla-saccenza si riscopre un po' fuori luogo, o perlomeno molto ridimensionato.

Ecco insomma, alla fin fine, cosa accade ad uno scribacchino affetto di tanto in tanto da attacchi di nulla-saccenza: si riduce a scrivere queste vaccate.


giovedì 23 febbraio 2012

Souldi estivi



«...Senza far finta porta tua sorella
è brutta ma è snella
nella penombra sembrerà una stella
perciò venite tutti e tre di là...»

Libe-libe-là” - Cochi e Renato - 1977

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Da un sudicio ed untuoso manoscritto, rinvenuto per caso in una vecchia cassapanca, riporto pari pari quanto letto:

«...Un giorno di non ricordo più quale anno, tanto che forse fu addirittura in un’altra vita, mi ero messo in testa di “svendere l’animo” al diavolo. Avete letto bene: l’animo, non l’anima. Non volevo fare cattivi affari come toccarono a quel povero Faust o al buon Dorian Gray. Loro poi sono teutonici o angli. Sono sassoni, popoli del nord, gente decisa, poco incline ad andare per il sottile. Per me, che ho passato l’infanzia respirando divergenze parallele e sorseggiando compromesso storico nel biberon, molto italianamente valutai che svendere l’animo era anche troppo.

E poi svendere, non vendere. Il mio animo è sempre un qualcosa di poco entusiasta, è l’animo di un pigro lievemente screziato di una continua vena di malinconia. Ci sarebbe voluta una gran faccia di bronzo a pretendere di venderlo. Una svendita era la pretesa più dignitosa che si potesse accampare in merito.

Non sapendo di preciso da che parte cominciare e ricordando vagamente un’antica leggenda del blues americano, pensai bene che la prima cosa da fare fosse andarsi a posizionare nel mezzo di un crocicchio ed aspettare. Era tarda estate e faceva un caldo discreto. M’incamminai all’alba e non era ancora giorno fatto, quando credetti di aver trovato il posto adatto per me. Una strada bianca che tagliava a metà un’immensa distesa di granoturco, nel punto in cui a sua volta era incrociata da una grossa carraia sterrata (non so se dire “carraia” e precisare “sterrata” sia pleonastico; forse è come dire “ho incontrato una pecora vestita di lana”, ma fa lo stesso, mi piaceva l’espressione così come m'è uscita e tale la lascio…).

Nel tempo dell'attesa, il sole cominciava ad alzarsi per il sempiterno srotolamento lungo il suo quotidiano arco di cielo, mentre il caldo si stava impennando di conseguenza. Ero lì, intento a nient'altro pensare se non a quanto grondassi goccioline copiose sotto le ascelle, mentre perline simili mi decoravano la fronte, quando udii un rombo in lontananza. Una nuvoletta di polvere si cominciò ad intravedere proprio in fondo all'ultimo spiraglio visibile della strada bianca, laggiù al suo orizzonte, crescendo poi sempre più densa ed ampia, di pari passo con l'intensità del volume rumoroso che l'accompagnava. Cresceva il polverone e più alto si faceva il frastuono. Quando la caotica simbiosi di cinereo fragore giunse a poche decine di metri dal mio crocicchio, iniziai a pensare: "...Ci siamo, deve essere lui: prepariamoci a contrattare...".

Polvere e rumore, sempre più. Polvere e rumore, sempre più. Polvere e rumore, sempre più. Ormai è quasi alla mia altezza, eccolo. Sventagliandomi da capo a piedi di una sfarinata bianca dalla quale mi difendo solo leggermente con lo scudo degli occhiali, mi passa di fronte facendomi il pelo a ciuffo e basette: "...VRRROOOMMM!!!...". Era il furgoncino del casaro, uscito per il giro del latte nelle stalle.

Non faccio in tempo a perdermi d'animo, perché giusto due secondi e noto il mezzo arrestarsi di botto poco più in là. Sento una furiosa grattugiata di retromarcia e la nuvoletta inverte la rotta, facendo coda adesso al davanti del camioncino, che ritorna di gran lena a ritroso sulle sue sgommate. "...Ma certo! Che fesso..." dico fra me e me, "...cosa ti aspettavi che si presentasse con zoccoli da caprone e barbetta d'ordinanza?...".

Ecco il camioncino di nuovo al mio fianco, il finestrino si abbassa insieme ai miei occhiali, dai quali emergo come il negativo di una foto, abbronzato di bianco tranne che nello sguardo. "...Se sei in regola con le quote latte..." mi fa la voce nerboruta e casearia dall'interno della cabina, "...io compro volentieri...". Pur non essendo molto pratico della questione, persino io deduco che non doveva trattarsi di Belzebù e rispondo vago: "...Ah no, grazie, lascia perdere: non c'ho animo per queste cose...".

Non si era ancora dispersa nell'aria l'eco degli ultimi accidenti cacciati dal casaro, appena ripartito in iraconda sfrizionata (di certo non diabolico, ma a tirare maledizioni era uno specialista...), che ecco profilarsi una nuova figura, sempre al capo estremo della stradina ghiaiata. Ma quale casaro, ma quale caprone! Adesso sì che si ragionava: una leggiadrissima figliola a cavallo di una bici.

Spingi il pedale, leva la coscia. Spingi il pedale, leva la coscia. Spingi il pedale, leva la coscia. Un alternarsi di disvelamenti e ricoperture, accompagnava il ritmo dell'avvenenza sbiciclante di quella creatura in gonnellino e variopinta camicetta.

"...Ci siamo..." pensavo io, "...ecco l'aspetto che assume quando esce per fare compere: qui si combina l'affare...". Mi detergo un po' il sudore, mi rassetto alla bene meglio e non appena la diavoletta arriva a portata di sguardi, do fondo a tutto il repertorio di cenni discreti di richiamo. Il pedale spinge ancora, dall'altro lato la coscia sollevata gli fa sempre eco, ma i suoi occhi lasciano giù, passando, soltanto una sbirciata di commiserazione. Passa oltre, lasciandoci lei tacita e me a bocca asciutta, risarcito solo dalla sfumante visione di un eccelso tafanario ingonnellato e ritmicamente mosso da muscolari guizzi, inevitabile dazio alle esigenze del pedale.

“...Un'altra cantonata, minchia!!!..”. Lo dovevo immaginare che quella era la tenuta per i grandi commerci: mica esce così, quando deve acquistare un misero animo.

Sto quasi per tornarmene a casa, sconfitto come un bradipo rivisto alla moviola, ma ecco che forse un'ultima flebile speranza sferraglia di nuovo verso me. E' ancora una bici, ma stavolta così sgangherata da lasciare spazio a tutte le ipotesi. Il sembiante del pedalatore poi è ancora più rassicurante: un vecchietto trasandato e tanto male in arnese da sembrare sbucato fuori direttamente da un racconto di Mark Twain.

Deciso a non commettere gli errori delle precedenti due “trattative”, mi premuro di mettere per bene le cose in chiaro, stavolta. Fermo con decisione il vecchietto, la sua faccia è rugosa come la bisaccia di Davy Crockett, un cappellaccio nero ben calcato in testa e mezzo sfondato: sento già che l'affare è fatto!

"...Vendo il mio animo, a quanto me lo fate?..." dichiaro questa volta deciso, per fugare fin da subito ogni dubbio. Lui mi guarda con fare compassionevole, mi asseconda forse col timore reverenziale che si sente talora di concedere ai folli, e mi fa: "...Sto andando al mercato, sono uscito con pochi spicci: devo prendere solo un po' di prosciutto cotto e del pane. Se vuoi ti posso lasciare tremila lire...". "...Bastano mille, grazie..." abbozzò allora io, per porre termine col minimo dei danni anche a quella ennesima compravendita sotto tono, "...così te ne rimane anche per la maionese...".

Ecco come mai, da quella volta, non mi stupisco più del fatto di essere uno sconfitto nella vita: il massimo del successo che posso ottenere mettendoci tutto il mio animo e l'impegno possibile, ha sempre il valore del resto di un panino con cotto e maionese. Per fortuna che almeno lo so...».

giovedì 16 febbraio 2012

Ma c’è o non c’è?



«…C’è la luna sui tetti \ C’è Lentano in tv…»

- Rino, c’è Ronte?
- No, c’è Lentano.

«…Ai momenti che Celentano, preferisco quando Celhoinmano…»

«…Quando c’era Lentano, caro lei…»

«…Dove c’è Lentano, c’è casa…»

«…Lentano c’è!!!…»

«…C’era una volta Lentano…»

«…C’è Lentano e Lentano…»

«…C’è un grande Lentano verde, dove crescono speranze…»

«…Non c’è Lentano senza tre…»

«…Non c’è peggior Lentano di chi non vuol sentire…»

«…Non c’è Lentano per gatti…»

«…Se c’è Lentano, è Jim…»

«…C’è Lentano nell’aria…»

- C’è Lentano su Marte?
- Mah…giusto un po’ il mercoledì sera…

- Ma almeno c’è Guevara?
- Nohooo: c’è sempre e solo Lentano!
- Grazie…
- Non c’è Lentano di che…

«…C’è Lentano per te…»

«…C’è Lentano in Danimarca…» (“Amleto” – Atto I, scena prima – di William Schelentano)

«…Son d'accordo con voi,
non esiste una terra
dove non ci son santi né eroi
e se non ci son ladri,
e se non c'è mai la guerra,
forse è proprio l'isola che non c'è Lentano…»

martedì 14 febbraio 2012

Made in Chirmany




Da gran cultore dell’«Inutile» qual io sono, non manco mai di spaziare negli ambiti della gratuità anche più impensata. Uno dei miei terreni di sfogo più fertili in questo senso è sempre stato quello degli ammennicoli vari di cancelleria: biro dalle forme strane, pastelli di ogni materiale, gomme spuzzettose e così via. Nel corso di tutta la carriera scolastica, mi hanno sempre appassionato certi dettagli, negli strumenti di lavoro studenteschi, quasi esclusivamente legati ad un aspetto estetico puro. 

Più erano inutili, più mi solleticavano la fantasia. 

Fra i miei sogni di bambino c’è sicuramente sempre stato il “matitone rosso-blu”. Avete presente? Non è niente di particolare: un normale lapis di legno, però di sezione doppia o tripla rispetto ad una matita comune. Al posto della mina grigia, poi, a fare da materiale scrivente, c’è un’anima di impasto blu da una parte, e rosso all’altra estremità. La cosa che mi ha sempre affascinato di questo matitone sono innanzitutto le sue dimensioni fumettistiche, tanto che, per dire, lo vedresti benissimo in mano a Paperoga, mentre è in giro nei vicoletti di Paperopoli a prendere appunti per scrivere un articolo sul «Papersera».

E poi, l’aspetto più bambinescamente intenso della sua bicolorità sta nel fatto che non solo con agevole gioco di dita puoi passare, in men che non si dica, dal lasciare segni blu all’imbrattare il foglio di rosso. Ma soprattutto, la cosa magica è che la punta si fa da tutti e due gli estremi. Sembra un dettaglio banalmente scontato, ma se siete stati davvero bambini, non faticherete a capire che non è così. Perché, tra l’altro, se bambini siete veramente stati, non vi sarà nemmeno sfuggito l’enigma degli enigmi che da sempre “in-legna” l’essenza stessa del “matitone rosso-blu”: avendo cura di tener bene temperata la bi-punta all’unisono e con una certa regolarità, dov’è che s’incontreranno le due anime bicolor del matitone?

Come tanti miei sogni tuttavia, anche quello del “matitone rosso-blu” è rimasto per anni in sospeso, irrisolto. Poi, crescendo, l’innamoramento matitonesco mi era un po’ passato e quasi non ci pensavo più. Finché un giorno di non tanto tempo fa, quando ormai i miei sogni avrebbero dovuto essere strutturati attorno a questioni ben più articolate, all’uscita di un negozio, credo fosse una libreria, mi pare a Milano, proprio nei pressi della cassa (il più periglioso luogo per subire ferali agguati da parte degli acquisti futili…), c’era un bussolotto ricolmo di fantastici “matitoni rosso-blu”. 

Non ho resistito e subito me ne sono preso senz’altro uno: non era nemmeno di quelli ordinari, ma proprio un matitone di gran lusso, della Faber-Castell e tutto, fatto in Germania. Una roba che, ad averla avuta da bambino, pur continuando demis-roussos-ianamente a ricordare a me stesso “…profeta non sarò…”, perlomeno però sarei forse potuto diventare un adulto migliore.

La questione è che con il “matitone rosso-blu”, se ad un certo punto vuoi continuare ad usarlo, ti serve il “temperone”, altro fantastico fronzolo inutilitario della nostra infanzia. Il “temperone” è un temperino a due fori: uno per le matite borghesi ed un altro pertugio “king size” atto ad accogliere quel gran ganzo di un super-dotato del matitone. Per farla breve, avevo già un “temperone”, ma non trovandolo più, mi sono deciso ad andarne a comprare un altro, ora che dispongo della piena padronanza dei miei sogni infantili.

Ed è stato una volta avuto in mano il mio nuovo “temperone” che, alla buon ora, mi sono imbattuto nella questione di cui vi volevo parlare oggi. Guardato dalla parte delle due piccole lame, anche questo nuovo “temperone” mi si è presentato nella sua piena fierezza teutonica: due bei “Made in Germany” campeggiavano infatti per il lungo dei piccoli piattini taglienti. Una sfumatura di dubbio non meglio precisata mi strisciava tuttavia nel sottoscala della mente. Solo col senno di poi ho capito che m’insospettiva il fatto del “Made in Germany” raddoppiato. C’era bisogno di ripeterlo, non bastava scritto una volta sola?


Il motivo l’ho scoperto solo vivendo, e girando il “temperone” dalla parte del suo retro: proprio in calce alla cassetta metallica, c’era infatti scritto il solito, questa volta più che mai sconsolante, “Made in China”. La scoperta mi ha stupito e recato un po’ di tristezza al tempo stesso.


Ora, se c’è un sommo ignorante economico a questo mondo, beh, state certi che quello sono proprio io, e dunque, invece di parlare, non dovrei far altro che andare a letto e coprirmi su bene. Non fate caso allora a quel che dirò: dal punto di vista della teoria economica, saranno senz’altro degli strafalcioni indicibili. 

Però, sarò padrone di dire che questa bi-faccialità di provenienze commerciali mi ha intristito? Mi ha fatto pensare al tanto osannato “Mercato”, facendomelo apparire ancor più come un arengo cialtronesco talmente pidocchioso, da costringere ormai chi vi opera, a produrre anche una cazzata così banale come può essere un umilissimo “temperone” (cinque pezzi cinque in totale di assemblaggio…), stiracchiando micragnosamente sul prezzo di ogni minimissimo dettaglio, pur di far risultare una strabollita fava di infinitesimale margine di profitto in più. 

Di certo non sarà stato così, però mi sono immaginato ipotetici tristi scenari imbastiti intorno a nobilissime lotte sindacali, miseramente perdute nel nome della delocalizzazione: facciamo le lame in Germania, ma le cassettine no, quelle le sanno fare meglio e meno care i cinesi. E magari (spero di no, ma come scenario ipotizzato nell’attuale panorama delirante, sarebbe del tutto plausibile…), sulla base di questo giochino hanno anche perso il posto dei lavoratori.

Sulla scia di questi pensieri sconsolanti, mi sono rituffato poi un attimo ancora nel mio vagheggiare dietro ragionamenti semi-bambineschi, domandandomi come la prenderà il mio “matitone rosso-blu”, questa faccenda del lasciarsi temperare da un articolo di così oriunda e bislacca fattura. 

Alla fine però, colto di nuovo da un accesso di real-politik de ‘sta cippa, mi è sovvenuto il quesito più beffardo di tutti: ma se le lamette le fanno in Germania e la cassettina in Cina, dove stra-minchia le faranno le due viti? 

domenica 12 febbraio 2012

Kaputtgemacht



Riguardo alla bellezza delle parole e sul giocare con esse, ho già scritto in varie, diffuse e confuse occasioni. Il linguaggio è un prolungamento fondamentale e potentissimo del nostro essere vivi e se ne potrebbe parlare ad libitum. Ma quello che volevo raccontare oggi invece è solo un curioso, piccolo risvolto di tutta la questione.

Le parole sono una miniera di stupore sempre rinnovata e praticamente infinita. Già sapere tutto della propria lingua è un’impresa non solo titanica, ma sovrumanamente impossibile, perché le lingue non stanno mai ferme, guizzano in ogni momento verso nuove significazioni, si plasmano nelle menti e nelle bocche delle persone, che le impastano di nuove accezioni e sfumature, continuamente. Se poi si pensa a quante lingue ci sono nel mondo, possiamo stare certi che di materiale vitale messo sotto forma di meraviglia verbale, ne avanza ancora un bel po’ e ci basta per parecchi anni a venire.

Uno degli aspetti riguardanti le parole che ho sempre trovato più affascinante, è appunto confrontare come suonano certe espressioni nelle differenti lingue. In questo senso, la “non conoscenza” degli altri idiomi può essere vista come ignoranza (e di fatto la è), oppure come opportunità per spingersi verso sempre nuovi pretesti di stupore linguistico. Anzi, in tantissime occasioni mi sono reso conto di come proprio l’ignoranza, inopinatamente, aiuti in questo gioco della meraviglia. Non lo dico per “vantarmi”, ma oltre l’italiano, conosco malamente solo un po’ l’inglese e per il resto biascico poco più di curiosi suoni messi lì, insieme a qualche vocabolo casualmente imparato dalle fonti meno probabili.

Questo mio “mare magnum” ignorantesco di fondo non depone dunque sicuramente a mio favore, ma mi agevola nel modo di guardare alle lingue straniere come a dei curiosi forzieri, nei quali, quasi impenetrabilmente, sono racchiuse sequele di sonorità misteriose, sorta di rituali vocali atti ad imbastire incantesimi sillabici, da pronunciare con voluttà incantatoria, come un novello ministro di un culto giocoso tutto contrappuntato sul ritmo e sul piacere dell’ascoltare e del sillabare.

Avevo letto da qualche parte che il neonato, già dai primissimi giorni appena fuori dalla pancia della mamma, è istintivamente attratto dal suono delle parole. Parecchio tempo prima di iniziare a capire, non solo i significati delle parole, ma anche il meccanismo stesso in virtù del quale esse sono portatrici di significati ai fini comunicativi, il mini-cucciolo di uomo ama le parole, le predilige rispetto alle altre fonti uditive, come “oggetti sonori” di per se stessi speciali. 

In un qualche modo, se si guarda alle altre lingue da ignorante, si ha l’opportunità di rivivere quella condizione primigenia infantile. In più, giocando questo gioco da adulti, si sommano le mille suggestioni assorbite nel tempo, per cui la confusione verbale si fa ancora più ricca e fricandònica. 

La lingua tedesca, in questa prospettiva, è per me un campo di gioco piuttosto fascinoso. Non solo non la conosco per niente, ma negli anni le si sono appiccicate piccole significazioni e coloriture accessorie dai sapori più contrastanti, che ne fanno uno dei terreni più fertili per il tipo di giocosità di cui sto parlando. Il tedesco, nel mio vago conoscere, si è inzuppato ad esempio della terribilità sanguinosa e tragica delle sbraitature hitleriane, con tutte le lugubri sigle belliche e marziali annesse e connesse, ma ha avuto modo anche d’ingentilirsi comicamente di candori buffoneschi nella versione maccheronica e fumettistica delle “Sturmtruppen” di Bonvi. 

Poi, a sprazzi, è stata anche la volta della filosofia. Senza avere a disposizione un lingua così articolata, logicamente e filologicamente complessa, come il tedesco, forse nessuna fra le più immense e vertiginose architetture concettuali dell’epoca moderna, avrebbero visto la luce: da Kant ad Hegel, a Schopenhauer, sino a Nietszche, Hiedegger e molti altri. Ed è proprio nell’ambito della filosofia, che mi è capitato in questi giorni d’imbattermi in una piccola epifania di infantilismo linguistico stupefatto, frutto della mia teutonica ignoranza pura.

«...Quel Nietszche mi ha distrutto!...». 

Una frase simile usava ripeterla il filosofo Martin Heidegger agli amici, durante il periodo dei massimi e più vertiginosi rovelli intellettuali e spirituali a lui procurati dallo studio e dall’estenuante confronto con l’opera del monumentale pensatore che lo aveva preceduto solo di pochi decenni, Friedrich Nietszche appunto, e che era stato capace di andare a toccare le massime vette mai rasentate dalla mente umana nel secolare cammino della filosofia occidentale. L’aneddoto l’ho rinvenuto sempre nell’interessante ed impervio “libretto” di Franco Volpi, «La selvaggia chiarezza – Scritti su Heidegger» (Adelphi – 2011), già citato alcuni articoletti fa.

«...Quel Nietszche mi ha distrutto!...», nel senso di: mi ha steso, mi ha demolito, mi ha massacrato, mi ha messo alle corde. Non ci sarebbe proprio niente da ridere, insomma, perché si trattò di una faccenda davvero seria. Lo studio di Nietszche fu una prova estremamente snervante per Heidegger, ne venne fuori con le ossa spirituali veramente rotte, sfiorò esaurimenti nervosi e depressioni pesanti. Insomma, una cosa drammatica e toccante al tempo stesso, eroica. 

Eppure, quando ho letto come suona la frase nell’originale tedesco, non ho potuto fare a meno di provare un moto di armonia divertita. Non per la fattispecie di per sé dei contenuti in questione (come detto), ma per la pura essenza linguistica tedesca che vive nella mia immaginazione di infante non cresciuto sotto quel profilo, e preservato teutonicamente ignorante.

Così infatti si crucciava il buon Martin Heidegger, nella sua sconsolata constatazione originale:
«...Der Nietszche hat mich kaputtgemacht!...».

mercoledì 8 febbraio 2012

L’opportunità di bambineggiare ancora



C’è un piccolo visitatore dei giardini che si presenta sempre con regolarità ogni inverno, ma soltanto quando si creano determinate circostanze: neve e freddo intenso. In questi giorni, le due condizioni si sono concretizzate in pieno e come da copione il grazioso mini-ospite è arrivato: un delicato rappresentante dell’allegra famigliola dei pettirossi, guizzante da par suo, fra un ramoscello imbiancato ed un arbusto intirizzito. A me è parso un esemplare solo, ma magari erano diversi di passaggio, però in momenti sfalsati. Chi lo sa. Mi sarebbe piaciuto fissarlo in una bella foto, ma non ne ho avuto il modo, sia perché è velocissimo e pressoché imprendibile nel ridotto recinto di un fotogramma, sia perché non importava poi più di tanto. Averlo potuto ammirare in quei fugaci attimi è stato già un piccolo incanto di per sé.

A parte il fatto che mi è sempre stato molto simpatico, anche per quella sua sagoma “pallottiforme”, che lo rende più aggraziato e “cartone-animatesco” rispetto ai comuni passerotti, non sarei nemmeno venuto qui a parlarvi del pettirosso oggi, se la sua tenera sortita non mi avesse suggerito altre riflessioni. 

Osservandolo, mi è venuta infatti alla mente, non so nemmeno come mai, quella leggenda indefinita, forse studiata anche a memoria all’epoca delle elementari sotto forma di poesia, secondo la quale la singolarità di quella “macchia” rossiccia anteriormente depositata sul piumaggio del piccolo “4 grammi” svolazzante, sarebbe da far risalire all’epoca della crocifissione di Gesù. Il “balzelloso” uccellino si sarebbe trovato nei paraggi del Golgota ed avvicinandosi alla croce, con i limitati mezzi uccelleschi messi a sua disposizione dalla natura, avrebbe tentato di alleviare le sofferenze del Cristo, non ricordo bene se cercando di svellere i chiodi, oppure di sollevare la dolorosa pressione delle spine calcate a corona sulla fronte. Le gocce di sangue avrebbero fatto il resto.

Non sarei venuto a parlarvi nemmeno di questo, se i miei pensieri si fossero conclusi tutti qui. La parte più significativa è giunta appena dopo, o quasi in contemporanea direi. Mentre mi sovveniva la levità di quell’ingenua antica leggenda, ho sentito infatti salire quasi all’unisono dentro di me la forza molesta del cinismo adulto nel frattempo acquisito, che mi imponeva praticamente in automatico di sorridere in misura piuttosto sarcastica di simili reminiscenze infantili.

Stavolta però, subito in successione, si è verificato un altro fenomeno particolare: lo scetticismo razionalizzante e semi-istintuale scattato in un primo momento, è stato a sua volta spazzato via da un piccolo moto di ribellione di segno contrario. Mi sono detto: «…Ma chi se ne frega?!?!?! Lasciati andare per un attimo! Anche se non è vero, si paga uguale. Guarda com’è simpatico ed elegante nei suo movimenti: anche se è una balla, è bello lo stesso, non dico crederci, ma almeno per un minuto concedersi allo smarrimento senza pretese, in quel territorio della mente dai confini così labili a delimitare il vero dal non vero…».

Non che me ne importasse di difendere in modo particolare quella leggenda, che tra l’altro anche da bambino non mi aveva mai esaltato più di tanto, così densa, come mi appariva pure allora, di ridondante e deamicisiana melensaggine. E nemmeno è mia intenzione di venire ad impiantare qui una crociata a favore del “credulonismo” più arrendevole, da qualsiasi fonte esso possa trarre ispirazione. 

Il mio sentire era di carattere più sottile e generale.

L’acquisizione di una maturità adulta è una conquista importante, “la” conquista per eccellenza direi, alla quale ciascuno tenta di pervenire lungo una serie molto lunga di tappe in crescendo della propria personalità (io sto ancora lottando parecchio in questo senso e per me la strada da fare è ancora parecchia, ma questo è un altro discorso…). Però, forse più spesso di quanto non crediamo, succede pure che lungo questo duro ed malagevole cammino, ci perdiamo per strada taluni ingredienti caratteriali che magari varrebbe invece la pena conservare, o perlomeno far evolvere in sintonia con le altre qualità acquisite nel tempo. In questo senso, non è detto che una sorta di “ponderata credulità” sia da considerare in ogni caso un disvalore. Quando si è imparato a tenere sempre ben presente la lezione fondamentale che ci spiega come il passo fra l’esser “creduli” ed il divenire invece dei “creduloni”, è minacciosamente molto breve, per il resto ci si può giostrare le cose “cum grano salis”. 

Elevando ancor più l’altitudine del discorso, ritengo che questa non meglio definibile “ponderata credulità” faccia parte in pianta stabile del corredo culturale dell’artista, per esempio, oppure dello scienziato impegnato in ricerche caratterizzate da una certa purezza concettuale particolarmente astratta (il cui prototipo più immediato che mi sovviene è senza dubbio l’immagine di Albert Einstein), o ancora del grande filosofo, e così via. In generale, questa “credulità nobilitata” può essere vista allora come una componente imprescindibile della creatività: essa risiede in quella capacità, non comune ma da tutti coltivabile, di lasciarsi attraversare da energie illusorie, senza farsi sopraffare da queste ultime. 

Non sempre le grandi utopie della storia hanno recato con sé conseguenze significative. Molte sono svanite nel nulla come una bolla di sapone. Ma le volte che qualcosa di notevole ne è derivato, senza dubbio “a monte” e nell’animo di chi quei sogni, anche strampalati, ha coltivato, c’era una cospicua dose di “credulità nobile”: di essa ogni utopia si è senza dubbio nutrita.

Ecco perché, alla vista di quel “mini-spiumettoso” rossiccio nel mio giardino, è stato bello non essermi accontentato della prima immediata repressione “cinicheggiante” che mi ha colto sul momento. Un po’ per tutte le riflessioni che vi ho raccontato. Un po’ per un’altra, a mio parere, importante considerazione che ne ho tratto. Se avessi dato retta al primissimo impulso di andarmene di là, magari a verificare le bollette del gas o a produrmi in simili “adultevoli” performance, invece di soffermarmi a considerare con maggiore gentilezza l’antica leggenda in questione, non ne sarebbe derivato l’agio di domandarmi qualcosa riguardo ad una possibile origine di quella mitologica credenza. 

Nell’ambito del vitale spirito di osservazione popolare, il pettirosso è stato molto probabilmente da sempre associato, per affinità dettata dal suo singolare comparire e comportarsi, a frangenti che avevano a che vedere con il senso della sofferenza in generale. Arriva quando c’è neve e tanto freddo, con la stagione più impervia, e di lì a supporre che sia spinto vicino alle case per via della penuria di cibo riscontrata nei suoi luoghi di dimora più consueti, ci vuole un attimo. Magari pure questa è un’ulteriore credenza scaturita a torto e forse non ha giustificazione “etologica” effettiva, ma poco importa ai fini del presente discorso. 

Quel che conta è stata la piccola epifania di significati che ne ho potuto trarre. L’associazione fra le semplici suggestioni scaturite da uno scenario naturale quotidiano e la dimensione più ampia del mistero del dolore del Cristo (che si creda o no: anche questo esula da quanto sto dicendo…) mi è parsa sfociare in una preziosità meditativa che in ogni caso valeva la pena di esplorare. A controprova del fatto che una giusta dose di “nobile credulità” non rappresenta, come a prima vista potrebbe sembrare, un laccio inutilmente tenuto collegato ad un passato da oltrepassare, bensì un elemento del carattere fondamentalmente sano ed utile ad integrare l’equilibrio auspicabile nell’atto del perseguire una propria maturità.

venerdì 3 febbraio 2012

Questa sera vegeto di mio




Questa sera non esco.
Non che le altre volte faccia diverso.
Ma stasera, più ungarettianamente
del solito, me ne sto con le quattro
capriole di pixel della tele.

Il Paese è stretto nella morsa del gelo,
dicono, stronzeggiando dalla medesima
per tutto il giorno, quei quattro
immorsatori degli zebedi pubblici.

Un messaggio ronza dal cell:
è Naomi! Se credo, il suo jet
privato mi aspetta al primo
aeroporto utile, per una serata
con lei, a Parigi o Saint Cagnolè sur Mer.

«…No, Nao, grazie, No…»,
per stavolta
scandinavigo al timone del mio
divano e poi,
perdona se te lo dico,
ma per meno di una Meryl Streep
non mi sarei proprio scomodato,
stasera.

Stasera
vegeto di mio.
Fra tocchi detective sotto l’elastico
procrastino l’improrogabilità
della specie umana,
e l’inutilitar
m’è dolce in questa pozza.