martedì 28 febbraio 2012

Nulla-saccente


Come se la caverebbe un muratore che da un giorno all'altro si rendesse conto di avere paura dell’altezza? Oppure un mozzo, improvvisamente alle prese con il mal di mare? Oppure ancora, un chirurgo con la repulsione per il sangue, un macellaio folgorato di botto da una smodata propensione al vegetarianesimo, o un attore travolto da una timidezza patologica?

In un modo più o meno simile, credo se la cavi lo scribacchino affetto di tanto in tanto da attacchi di nulla-saccenza.

Il nulla-saccente non solo non vorrebbe sapere niente, ma si dispiace persino di sapere quel poco di qualcosa che sa. Vorrebbe solo seguire il dettato fisiologico delle proprie esternazioni corporali, senza interferenze di sorta da parte della mente. Mangiare, bere, dormire, muoversi un po' e tutte le altre estrinsecazioni della fisicità che ciascuno conosce. Il nulla-saccente vorrebbe limitarsi a quello soltanto.

Lo stato di nulla-saccenza perfetta rimane però una chimera molto remota da acquisire. Per quanto ci si sforzi di non sapere, di nullificare ogni anfratto riflessivo, di non pensare se non a supreme beate fave “nichilisticheggianti”, alla fine sbuca sempre fuori qualche nozione molesta a ronzare fra i neuroni.

Un buono compromesso si raggiunge forse dedicandosi a discipline “dai più” ritenute (e a ragione, ma inconsapevolmente) inutili. “Dai più” insipienti, ovviamente. Fra queste la più adatta all'uopo credo sia la filosofia. La filosofia consente di tenere impegnato il rimacinio mentale, in ogni caso inevitabile, blandendolo con un materiale vitale più duttile e malleabile dell'acre ragionare per concetti finalistici ordinari.

Filosofando o anche soltanto lasciandosi abbracciare, mollemente adagiati sulla battigia esistenziale, da una lieve risacca filosofica che ci carezzi le membra concettuali con spumosi e fiacchi flutti meditativi, si perviene ad un discreto compromesso, capace di appagare in qualche modo il nostro desiderio di nulla-saccenza.

L'opinione comune si chiede spesso a cosa la filosofia possa servire. Quello che credo di aver capito io, è che mai domanda più fuori luogo si potrebbe porre. Perché se c'è un'attitudine mentale più lontana dall'idea del “servire a qualcosa”, questa è proprio la filosofia. Il “servire a qualcosa” presuppone l'esistenza di un soggetto che, disponendo di un oggetto e facendo “leva” sulle sue potenzialità di strumento, possa addivenire ad un qualche scopo prefissato.

Con la filosofia no: lei è come una grande campana, immensa, che avvolge ed ingloba tutte le restanti più o meno piccole campane, rappresentate dalle nostre innumerevoli prerogative esistenziali. Filosofare significa far vibrare le nostre piccole e limitate campanelle, nel tentativo di entrare in risonanza armonica con la grande campana globale che ci avvolge.

«...è stato inteso in larga misura [...] che i concetti (e direi con ragione, anche se la formulazione è ritrita) sono vivi, o addirittura che la vita dei concetti – Hegel usa l'espressione enfatica “la vita del concetto” - è propriamente la stessa cosa che la filosofia [...]...il compito di una trattazione filosofica della terminologia filosofica non può essere, a rigore, altro che quello di ridestare questa vita che si è coagulata nei termini, nelle parole...».

“Terminologia filosofica” - Theodor W. Adorno – 1973

Forse è proprio per questa sua proprietà di saper ridurre al minimo possibile la distanza fra il soggetto (suo malgrado sempre pensante) e lo strumento del proprio ragionare (andando praticamente a coincidere con il vivo “farsi” del linguaggio stesso), che la filosofia si attaglia così bene allo status di nulla-saccente, il quale in essa riscopre un habitat quasi perfetto.

Mi piace riscriverlo: «...i concetti sono vivi e la vita dei concetti è propriamente la stessa cosa che la filosofia...».

Allora, filosofando ci si accorge di come l'impellenza a pensare si riveli a se stessa nella propria inevitabilità pura, e a quel punto ogni moto di ribellione affidato alla volontà di nulla-saccenza si riscopre un po' fuori luogo, o perlomeno molto ridimensionato.

Ecco insomma, alla fin fine, cosa accade ad uno scribacchino affetto di tanto in tanto da attacchi di nulla-saccenza: si riduce a scrivere queste vaccate.


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