domenica 12 febbraio 2012

Kaputtgemacht



Riguardo alla bellezza delle parole e sul giocare con esse, ho già scritto in varie, diffuse e confuse occasioni. Il linguaggio è un prolungamento fondamentale e potentissimo del nostro essere vivi e se ne potrebbe parlare ad libitum. Ma quello che volevo raccontare oggi invece è solo un curioso, piccolo risvolto di tutta la questione.

Le parole sono una miniera di stupore sempre rinnovata e praticamente infinita. Già sapere tutto della propria lingua è un’impresa non solo titanica, ma sovrumanamente impossibile, perché le lingue non stanno mai ferme, guizzano in ogni momento verso nuove significazioni, si plasmano nelle menti e nelle bocche delle persone, che le impastano di nuove accezioni e sfumature, continuamente. Se poi si pensa a quante lingue ci sono nel mondo, possiamo stare certi che di materiale vitale messo sotto forma di meraviglia verbale, ne avanza ancora un bel po’ e ci basta per parecchi anni a venire.

Uno degli aspetti riguardanti le parole che ho sempre trovato più affascinante, è appunto confrontare come suonano certe espressioni nelle differenti lingue. In questo senso, la “non conoscenza” degli altri idiomi può essere vista come ignoranza (e di fatto la è), oppure come opportunità per spingersi verso sempre nuovi pretesti di stupore linguistico. Anzi, in tantissime occasioni mi sono reso conto di come proprio l’ignoranza, inopinatamente, aiuti in questo gioco della meraviglia. Non lo dico per “vantarmi”, ma oltre l’italiano, conosco malamente solo un po’ l’inglese e per il resto biascico poco più di curiosi suoni messi lì, insieme a qualche vocabolo casualmente imparato dalle fonti meno probabili.

Questo mio “mare magnum” ignorantesco di fondo non depone dunque sicuramente a mio favore, ma mi agevola nel modo di guardare alle lingue straniere come a dei curiosi forzieri, nei quali, quasi impenetrabilmente, sono racchiuse sequele di sonorità misteriose, sorta di rituali vocali atti ad imbastire incantesimi sillabici, da pronunciare con voluttà incantatoria, come un novello ministro di un culto giocoso tutto contrappuntato sul ritmo e sul piacere dell’ascoltare e del sillabare.

Avevo letto da qualche parte che il neonato, già dai primissimi giorni appena fuori dalla pancia della mamma, è istintivamente attratto dal suono delle parole. Parecchio tempo prima di iniziare a capire, non solo i significati delle parole, ma anche il meccanismo stesso in virtù del quale esse sono portatrici di significati ai fini comunicativi, il mini-cucciolo di uomo ama le parole, le predilige rispetto alle altre fonti uditive, come “oggetti sonori” di per se stessi speciali. 

In un qualche modo, se si guarda alle altre lingue da ignorante, si ha l’opportunità di rivivere quella condizione primigenia infantile. In più, giocando questo gioco da adulti, si sommano le mille suggestioni assorbite nel tempo, per cui la confusione verbale si fa ancora più ricca e fricandònica. 

La lingua tedesca, in questa prospettiva, è per me un campo di gioco piuttosto fascinoso. Non solo non la conosco per niente, ma negli anni le si sono appiccicate piccole significazioni e coloriture accessorie dai sapori più contrastanti, che ne fanno uno dei terreni più fertili per il tipo di giocosità di cui sto parlando. Il tedesco, nel mio vago conoscere, si è inzuppato ad esempio della terribilità sanguinosa e tragica delle sbraitature hitleriane, con tutte le lugubri sigle belliche e marziali annesse e connesse, ma ha avuto modo anche d’ingentilirsi comicamente di candori buffoneschi nella versione maccheronica e fumettistica delle “Sturmtruppen” di Bonvi. 

Poi, a sprazzi, è stata anche la volta della filosofia. Senza avere a disposizione un lingua così articolata, logicamente e filologicamente complessa, come il tedesco, forse nessuna fra le più immense e vertiginose architetture concettuali dell’epoca moderna, avrebbero visto la luce: da Kant ad Hegel, a Schopenhauer, sino a Nietszche, Hiedegger e molti altri. Ed è proprio nell’ambito della filosofia, che mi è capitato in questi giorni d’imbattermi in una piccola epifania di infantilismo linguistico stupefatto, frutto della mia teutonica ignoranza pura.

«...Quel Nietszche mi ha distrutto!...». 

Una frase simile usava ripeterla il filosofo Martin Heidegger agli amici, durante il periodo dei massimi e più vertiginosi rovelli intellettuali e spirituali a lui procurati dallo studio e dall’estenuante confronto con l’opera del monumentale pensatore che lo aveva preceduto solo di pochi decenni, Friedrich Nietszche appunto, e che era stato capace di andare a toccare le massime vette mai rasentate dalla mente umana nel secolare cammino della filosofia occidentale. L’aneddoto l’ho rinvenuto sempre nell’interessante ed impervio “libretto” di Franco Volpi, «La selvaggia chiarezza – Scritti su Heidegger» (Adelphi – 2011), già citato alcuni articoletti fa.

«...Quel Nietszche mi ha distrutto!...», nel senso di: mi ha steso, mi ha demolito, mi ha massacrato, mi ha messo alle corde. Non ci sarebbe proprio niente da ridere, insomma, perché si trattò di una faccenda davvero seria. Lo studio di Nietszche fu una prova estremamente snervante per Heidegger, ne venne fuori con le ossa spirituali veramente rotte, sfiorò esaurimenti nervosi e depressioni pesanti. Insomma, una cosa drammatica e toccante al tempo stesso, eroica. 

Eppure, quando ho letto come suona la frase nell’originale tedesco, non ho potuto fare a meno di provare un moto di armonia divertita. Non per la fattispecie di per sé dei contenuti in questione (come detto), ma per la pura essenza linguistica tedesca che vive nella mia immaginazione di infante non cresciuto sotto quel profilo, e preservato teutonicamente ignorante.

Così infatti si crucciava il buon Martin Heidegger, nella sua sconsolata constatazione originale:
«...Der Nietszche hat mich kaputtgemacht!...».

Nessun commento: