venerdì 28 novembre 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Margaret Sarah Carpenter (1793-1872)


Per la rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”, ci occupiamo stavolta di “un’artista” che necessita dell’apostrofo dopo l’articolo “un”. Kika ha infatti scelto per l’occasione il “Ritratto di Lady Charlotte Penelope Sturt”, opera della pittrice inglese Margaret Sarah Carpenter (Salisbury, 1793 - Londra, 1872). Poche volte nello scenario della storia dell’arte capita di incontrare protagoniste femminili. Abbiamo già visto alcune felici eccezioni, e l’artista di oggi va sicuramente fatta rientrare nel medesimo novero.

Per l’occasione, mi trovo alquanto sguarnito dal punto di vista del commento critico. Di Margaret Sarah Carpenter, oltre al fatto che fu pittrice delle classi alte della società inglese dell’800, non saprei aggiungere molto di più. La sua opera si concentrò sulla ritrattistica. Le persone da lei dipinte, suppongo fossero spesso notabili dell’epoca o anche rappresentanti della famiglia stessa dell’artista. 

Mi limito allora ad una osservazione molto semplice del quadro, annotando mie impressioni disperse. Ciò che mi ha colpito fin dal primo sguardo, nell’elegante figura di Lady Charlotte, è l’innaturalezza compositiva di certi dettagli. Questa cosa mi ha subito richiamato alla mente l’opera di un altro artista praticamente coevo, che ha segnato la storia dell’arte in maniera molto più profonda: il francese Jean-Auguste-Dominique Ingres (Montauban, 1873 - Parigi, 1867).

Non so se Margaret Sarah Carpenter abbia mai avuto modo di conoscere l’opera di Ingres e di trarre da essa ispirazione. Sta di fatto che nel suo quadro è presente una sorta di volontà “disarticolante” della figura ritratta, molto spesso rintracciabile anche nel fare artistico del maestro francese. 

Osserviamo il dipinto: il primo componente visivo che s’impone per la sua presenza innaturale è il braccio culminante nella mano che regge il mento. Ad una prima occhiata, uno stranissimo effetto visivo mi si è immediatamente imposto: non ho potuto fare a meno di vedere quel braccio e quella mano, come se appartenessero ad un’altra persona. L’altra evidente “stranezza” anatomica è data dal lunghissimo collo della signora, che si erge sopra la collinetta delle spalle con la sinuosità e la fierezza estetica dell’appendice superiore di un cigno.

Ad un’analisi più panoramica poi, l’insieme della composizione si riassume allo sguardo in forma di un rombo: il drappo rosso in basso fa da lato opposto alla linea tracciata dal collo, mentre la guarnizione dorata del vestito (sulla destra) si contrappone il parallelo al tracciato del braccio che regge la testa. Le diagonali di questo rombo si incrociano nel diadema appuntato sul decolté della dama. Tutto l’impianto geometrico romboidale, svolge così la funzione visiva di una gentile molla di sostegno, sulla cui punta superiore è morbidamente adagiata la testa di Lady Charlotte.

Più che una figura umana, pur non perdendone la coerenza generale, questa immagine di Lady Charlotte mi ricorda una sorta di “architettura anatomica”, un edificio femminile di grande eleganza.

Che importanza ha tutto ciò? 

Ripeto: non ho la più pallida idea se Margaret Sarah Carpenter conoscesse il lavoro di Ingres. E non si può nemmeno riferire più di tanto questo modo di sperimentare pittoricamente, a tutto il resto dell’opera ritrattistica della pittrice inglese, che anzi mi sembra invece molto impostato su canoni ben più tradizionali (se si eccettua forse il seguente ritratto, anch’esso dominato dal “mistero della distorsione”: basti osservare l’inusitata sottigliezza del “vitino” oltremodo “di vespa” e ancora la lunghezza vertiginosa del collo).
Portrait of Harriet Countess Howe - Margaret Sarah Carpenter

Ma sta di fatto che questo modo di “disarticolare” il soggetto, anche pur rimanendo circoscritto al ritratto di Lady Charlotte o poco più, rappresenta nell’opera di Margaret Sarah Carpenter una scelta di grande modernità. E’ una dichiarazione dello status che compete all’artista, come osservatore privilegiato della realtà. Solo all’artista è concessa la prerogativa “visionaria” di tentare di capire il messaggio estetico profondo celato nelle “forme” del reale. Il sottile gioco fra l’oggettività delle cose del mondo e la soggettività della nostra visione si gioca sempre sul fragile filo di una interpretazione che solo la sensibilità dell’artista è in grado di cogliere. In fondo è questo che ci affascina, forse più di ogni altra cosa, nell’arte: l’eterna partita giocata fra interiorità e dimensione esteriore.

Tra l’altro Ingres non fu il primo ad avvicinarsi a questi concetti sperimentali. La storia dell’arte idealmente ci appare sì come un continuo cammino verso una modernità sempre profilata all’orizzonte. Ma è fatta spesso anche di corsi e ricorsi, di anticipazioni, premonizioni, intuizioni più o meno evidenti. Anche la novità in apparenza più inedita, in qualche modo è già stata detta da qualcuno in passato. Dunque nemmeno la predilezione di Ingres per la “deformazione” fu un assoluta novità. Prima di lui l’avevano già visitata il Parmigianino (1503-1540), ad esempio, o il visionario Cosmè Tura (1433-1495), o l’evanescenza misticheggiante di El Greco (1541-1614), e chissà chi altri ancora nei tempi più remoti.
Autoritratto in uno specchio convesso (1524) - Parmigianino 
Madonna dal collo lungo (1534-1540) - Parmigianino 
Pietà (1460 ca.) - Cosmè Tura

San Giorgio e il drago - particolare (1469) - Cosmè Tura
Laocoonte (1610-1614) - El Greco
Pietà (1592) - El Greco

Si tratta di un “ragionamento” lungo quanto il corso dell’intera storia dell’arte, insomma, e che poi si compirà con la moderna “deflagrazione del soggetto” compiuta dal Cubismo, ad esempio, oppure nell’estrema geometrizzazione della realtà a cui è approdato Piet Mondrian.

Note dolenti infine, per quanto riguarda l’indagine fisiognomica di oggi. Il volto di Lady Charlotte mi ha messo parecchio in difficoltà, tanto che sono riuscito a cogliere solo una somiglianza vaghissima. Ve la mostro in ogni caso:


Si tratta di Katia Follesa, attrice comica nota agli appassionati di Zelig, sul cui palcoscenico è spesso salita al fianco della collega Valeria Graci, a formare lo scoppiettante duo Katia e Valeria.

Ma niente paura, se una somiglianza vi par troppo poco. Come avrebbe chiosato infatti Giorgio Gaber: per fortuna che c’è la Kika, che di certo da sola non gioca al biliardo, ma stavolta ha avuto molto più occhio di me, suggerendomi questa mirabile similitudine:


Il parallelo si addice anche in modo particolare per la "britannicità" del personaggio: avrete infatti riconosciuto la bravissima attrice inglese Emma Thompson.

Ringraziando dunque di cuore la cara collega Kika per il suo prezioso contributo, vi invito senz’altro a passare sul suo blog, per scoprire le sorprese modiaole che ci ha riservato ispirandosi all’ineffabile fascino “romboidale” di lady Charlotte.


venerdì 21 novembre 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Henri De Toulouse-Lautrec (1864-1901)


Si parla ancora di Impressionismo, nell’odierna puntata della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. Prima di iniziare, una piccola premessa, che tra le altre cose, come si vedrà in seguito, è in tema anche col discorso riguardante l’artista oggetto della puntata. 

E’ interessante domandarsi come mai la scelta cade spesso su opere del periodo impressionista. Il motivo è presto detto. Come si sa, il mio intervento è strettamente abbinato e segue subito a ruota la rubrica di Kika su moda e pittura. Ora, non esiste forse in tutto il panorama della storia dell’arte, un’epoca che, più dell’Impressionismo, abbia saputo condurre il discorso figurativo sino al suo estremo confine. Dopo l’Impressionismo, la “figura” è deflagrata in mille correnti: è stata smembrata dal Cubismo, annullata, trasposta o ridotta alle sue componenti visive pure dall’astrattismo, quasi ignorata o a limite fatta oggetto d’ironia dal Dadaismo, e così via.

L’Impressionismo è insomma l’ultima grande stagione dell’arte ad aver celebrato “l’integrità della figura”, nella sua “massima espressione di modernità”. Ecco spiegato perché la scelta di Kika va a finire spesso su quel periodo, che possiamo anche vedere come il parallelo artistico naturale dell’attuale mondo della moda. Perché oltre a questo, e in virtù di questo, l’Impressionismo ha anticipato una quantità di “componenti estetiche” che poi nella moda hanno trovato un loro “campo di applicazione”, un loro “territorio di elezione”, molto efficaci. L’artista di oggi lo sta a dimostrare in pieno. 

Prendiamo in considerazione infatti niente di meno che Henri De Toulouse-Lautrec (Albi, 1964 – Malromè, 1901) e in particolare una sua celeberrima opera del 1890, “Dressage des nouvelles par Valentin-le-Désossé”, più comunemente conosciuto come “Il ballo al Moulin Rouge”.

Così come accade per tutti i periodi dell’arte classificati da una definizione riassuntiva, anche quando usiamo il termine “Impressionismo”, lo facciamo per comodità di esposizione. In realtà, ciascuno degli importanti artisti che l’Impressionismo “lo hanno fatto” (ed Henri De Toulouse-Lautrec è senza dubbio tra quelli) si differenzia per una propria indagine creativa e conoscitiva personale. Sullo fondo, si pone, per ciascun impressionista, il grande impianto teorico programmatico di questa corrente: indagare intorno al confine che attraverso il meccanismo visivo mette in contatto realtà e coscienza. Per ciascuno però questo territorio d’indagine si specifica nella direzione di approfondimenti di natura diversa.

L’aspetto che più interessa a Henri De Toulouse-Lautrec è quello psicologico. In questo risiede gran parte della sua modernità, nonché la stretta relazione della sua opera con tanti “moventi estetici”, che in seguito sono stati assorbiti e fatti propri da tante “dimensioni comunicative” moderne, non ultima (e qui tiro un po’ le somme di questa lunga premessa) la moda.
Toulouse-Lautrec non predilige gli ambienti notturni parigini solo per il fatto che amava quel mondo e si sentiva profondamente amalgamato ad esso. C’è anche questo aspetto, ma la motivazione più intima è profonda sta nell’interesse dell’artista per il “paesaggio umano”. Sfondo costitutivo della realtà, è per lui l’umanità. E l’umanità non si presenta come un’entità statica, fissata una volta per tutte. L’umanità è dinamismo, relazione, trasmissione vicendevole e multi-ramificata di energie interiori, soprattutto mentali. In estrema sintesi, l’umanità si fonda per larga parte sulla comunicazione.

Scrive Giulio Carlo Argan: «…Toulouse analizza la sensazione come stimolo psicologico, e naturalmente dal livello dell’individuo passa a quello della società perché nulla è “in sé”, tutto è relazione…».

Tutto, nell’opera di Toulouse-Lautrec, è teso ad esaltare questa estesa rete di “energia informativa” che continuamente fluisce tra la realtà e gli esseri umani, e soprattutto da un essere umano all’altro. La realtà, per come ci si presenta ai sensi, è percorsa da una continua corrente di stimoli psicologici, “messaggi”, “pacchetti comunicativi”, che si possono cogliere, studiare attraverso l’artificio pittorico ed estetico in genere, ed eventualmente piegare alla volontà dell’artista per riuscire a “smuovere qualcosa” nell’interiorità dello spettatore. Il discorso risulterà forse più chiaro se si aggiunge che, non a caso, l’opera “Il ballo al Moulin Rouge” venne acquistata quasi subito dal proprietario del famoso ritrovo notturno parigino, per essere esposta nel foyer del locale da poco tempo inaugurato, quasi in forma di antesignano dei moderni cartelloni pubblicitari. 

Non è un caso nemmeno che lo stesso Toulouse-Lautrec sia considerato un fondamentale precursore della moderna pubblicità, perché dedicò parecchi dei suoi sforzi artistici alla creazione di manifesti e volantini, che il pittore reputava meritevoli di attenzione e dignità pari a quelle riservate alle più tradizionali opere su tela. 

L’espressività di Toulouse-Lautrec è rapida, concisa, sintetica, fortemente dinamica. Volendo mettere in parallelo il suo operare artistico, con la dimensione della scrittura, si potrebbe avvalersi della metafora del reportage: Toulouse parla un linguaggio veloce, quasi “giornalistico”, usa frasi incisive, che vanno al sodo, raccontano il mondo con i tratti strettamente necessari. Da una parte, si preoccupa di non lasciarsi sfuggire la profondità delle cose; dall’altra, non concede nulla alla ridondanza che offuscherebbe la freschezza essenziale del messaggio.

Passando all’indagine fisiognomica di oggi, devo dire che si è rivelata alquanto tortuosa e dagli esiti assai bizzarri, come si vedrà. Mentre Kika si è occupata della ballerina, per motivi modaioli, io mi sono concentrato sulla signora di profilo in primo piano. A parte la difficoltà del punto di vista laterale, trovo questo volto molto affascinante. Lo sguardo vagamente socchiuso, a metà fra l’indolente e il sonnolento; le labbra prominenti e un po’ arricciate; il naso ficcante e sottile. Sono tutte componenti somatiche che creano un arcano femmineo di notevole magnetismo.

Ma nonostante questo, non mi veniva in mente nessun somiglianza. La più plausibile che ho trovato, anche se pur sempre assai vaga, è questa:


Si tratta di Jean Simmons, grande diva inglese del cinema, che ha fatto naturalmente fortuna come uno dei volti più belli di Hollywood. 

Vedevo che c’era qualcosa, fra Jean Simmons e la signora del Moulin Rouge, ma era molto lontano, remoto, velato. E non era sufficiente. Così, sono stato colto da una folgorazione un po’ folle, già successa in un'altra indagine di volti famosi. Pur essendo la signora del Moulin Rouge molto femminile, mi ha ricordato un uomo. Eccovi svelata la suprema stranezza:


Non dovrei nemmeno dirvelo, ma si tratta del grande Gregory Peck, che anche solo per aver impersonato l’avvocato Atticus Finch nel fantastico film “Il buio oltre la siepe”, meriterebbe un posto nell’olimpo dei migliori attori di tutti i tempi.

E con questo, credo che per oggi di stramberie ve ne ho rifilate a sufficienza. Ora sono curiosissimo di vedere come Kika ha declinato il tema dei collant arancioni, sulla base del dipinto di Toulouse. Per cui invito tutti a venirlo a scoprire su “Le muse di Kika”.


martedì 18 novembre 2014

Consumetto in Rosso


Erano le ore 17 e 42 minuti di un bel sabato di primavera, quando Eodolfo Sgrugnabusi venne travolto dalla frenesia per l’informazione. Rimanere sempre aggiornato si trasformò per lui quasi in un dovere morale. Da allora non si faceva mancare nessuna fonte possibile: leggeva più giornali che poteva, guardava qualsiasi programma di approfondimento in tv, si teneva sempre al passo consultando i più svariati siti internet, si scannava con foga sui social network, impiantando interminabili e motivatissime discussioni con altri frequentatori della rete, riguardo ai temi di più stretta attualità. 

Questo ritmo forsennato di iper-rimpinzamento nozionistico-informativo dopo un po’ di tempo condusse Eodolfo alla saturazione.

Nella terribile sera, di una certa giornata in cui l’overdose di notizie aveva raggiunto il suo picco, accade l’imprevedibile. L’angoscia procurata dalla tempesta informativa, per Eodolfo era andata di pari passo con una smania consolatoria a suon di prelibatezze culinarie. Sfortuna volle che quella volta, a cena, il nostro martire del moderno informazionismo, si fosse scofanato laute razioni di cotechino e peperonata, spinte a naufragare in cospicui marosi di chianti e grignolino. Il suo intelletto, già così pregno all’inverosimile di una diffusa obesità informativa, non resse all’ulteriore aggravio psicosomatico. 

Venuta l’ora di andare a dormire, Eodolfo fece appena in tempo a posare la testa sul cuscino e a chiudere le palpebre, che subito un sonno tormentoso lo avvolse. Nel deliquio spasmodico procurato dalla ciclopica digestione disturbata, la sua mente rinfanciullì fra i territori onirici. Sognò di essere tornato bambino, con la mamma assisa sul bordo del letto, intenta a raccontargli questa favola:

*******

«...C’era una volta una bella bambina chiamata Consumetto in Rosso. Viveva nel paesino di Home Banking, laddove il torrentello del Mutuo Agevolato confluisce nel grande fiume della Finanza Creativa. Consumetto abitava insieme a sua mamma Esternalizzazione e a suo papà Ripresa Economica. La loro graziosa casetta faceva angolo fra corso Ronald Reagan e piazza Margaret Thatcher. 

Un bel giorno, Esternalizzazione disse alla sua bimba: “...Cara Consumetto, dovresti andare nel bosco del Libero Mercato per portare il cestino della merenda a tua nonna Meritocrazia...”. Consumetto accolse subito di buon grado l’invito. Per lei, addentrarsi nel bosco del Libero Mercato era sempre fonte di avventure strabilianti.

“…Fai molta attenzione, però…” si raccomandò la mamma, “...lo sai che nel bosco ci sono tanti pericoli. E’ pieno di animali e di persone sospette. Se dovessi fare degli incontri, sii molto prudente. Non dare assolutamente confidenza al Tasso di Disoccupazione. Gira alla larga dal dirupo di Insider Trading. E bada bene di stare lontana dai cespugli più grossi e bui: lì dentro si potrebbe nascondere il Mercato Nero…”.

Consumetto in Rosso, che era una bambina talmente brava da girare sempre con la sua piccola visura camerale nello zainetto, rispose: “...Non preoccuparti, mamma, quando cammino nel bosco, non mi fermo quasi mai. Solo qualche volta faccio una sosta dietro all’aiuola del Jobs Act, giusto giusto se sento la voglia di delocalizzare un goccetto di pipì...”.

“...Va bene, Consumetto...” disse ancora la mamma, “...ora vai, altrimenti si fa tardi. Ti ho messo tutto nel cestino: i panini imbottiti di capitali all’estero, la confettura di pressione fiscale e il ragù di fuga di cervelli, che alla nonna piace tanto...”.

“...Ciao mamma...” salutò la bimba, incamminandosi per il sentiero del bosco. Consumetto in quel momento non lo sapeva ancora, ma quella giornata l’avrebbe poi ricordata per molto tempo.

Superato di poco il laghetto della Concertazione, la bimba si imbatté in un capannello di persone, alle prese con un’antica automobile in panne sul ciglio della stradina boschiva. Avvicinandosi, riconobbe subito la famiglia “Piuttosto-che”. C’erano papà “Chi-più-ne-ha-più-ne-metta”, mamma “E-quant’altro”, coi loro due figlioli, “Come-dire” e “Quello-che-è”.

Erano tutti intenti a confabulare e ad armeggiare intorno alla vettura, per farla ripartire. Papà “Chi-più-ne-ha-più-ne-metta” sosteneva che bisognasse versare nel radiatore fumante una bella tanica di distillato di Competitività. Mamma “E-quant’altro” non era d’accordo: secondo lei invece, era necessario incentivare l’export per riavviare il volano dell’economia, rabboccando il carburatore con buone dosi di ottimismo dei mercati. I piccoli “Come-dire” e “Quello-che-è”, avevano preso tutto per un gioco, come spesso fanno i bambini. Facendo finta di interessarsi, si davano di nascosto dei coppini sulla Spending-review, soffocando a stento risatine e mormorandosi all’orecchio piccoli insulti innocenti: “...Tasi...” “...Ah sì? E tu Tari allora...” “...Iuc, iuc...” “...Tares a te è a chi non te lo dice...” “...Ma vattela a far sbattere nell’Irpef, va’...”.

Consumetto in Rosso salutò tutti rispettosamente con un luminoso sorriso e passò oltre. Aveva percorso ancora qualche centinaia di metri, quando da dietro un fitto macchione, posto al termine di un leggero declivio, sentì levarsi un fragoroso e scomposto vocio. Subito una piccola folla compatta di persone emerse alla vista, mentre il brusio si faceva più intenso e le parole distinguibili. Consumetto capì subito di chi si trattava: era il leggendario Popolo delle Partite Iva, che vagava senza metà per il bosco, lanciando contro la volta dei rami frondosi un turbinio di male parole e formando sopra la propria testa un tetto salariale di bestemmie a tutele crescenti.

La turba, transitando, lasciava dietro di sé una pioggia a scia di fatture e scontrini, che Consumetto prese a seguire distraendosi. Il codazzo di fogliettini la condusse proprio nel mezzo dell’aiuola del Jobs Act. Qui, come aveva detto alla mamma, Consumetto era solita fare una piccola sosta per alleggerirsi appena di qualche zampillo d’acqua. L’aiuola era guarnita di tutti i più bei fiorellini del luogo: quarantanove varietà floreali, una per ogni forma di contratto di lavoro a tempo determinato. Come di consueto, dalla sua posizione accovacciata a rendimento fisso, Consumetto poteva ammirare tutto quel florilegio di colori: spiccavano l’orchidea interinale, il margheritone coordinato e continuato, il gladiolo a progetto, il garofano a prestazione occasionale.

Dopo aver contemplato per qualche istante il bucolico scenario, Consumetto si asciugò alla bene meglio con una foglia di Derivati, si tirò su i veti incrociati e riprese il cammino. Arrivata al sentierino che immetteva nella casa della nonna, volle farle una sorpresa. Badando bene a non calpestare qualche sofferenza bancaria e avendo cura di non incespicare nel rastrello della Legge di Stabilità, Consumetto si avvicino con circospezione alla finestra della camera della nonna.

Ah, quale orripilante spettacolo si presentò ai suoi innocenti occhi! Il perfido Mercato Nero aveva fatto subdolamente irruzione nella casetta e stava stimolando i consumi a Nonna Meritocrazia, mentre lei si dava da fare con lui per rilanciargli la Crescita. Consumetto rimase sconvolta: aveva sempre pensato alla nonna con tenerezza, nella sua immaginazione lei era sempre apparsa prima di allora come la fatina del decentramento federale, la sirenetta dell’Autonomia locale, mentre adesso la coglieva sul fatto, tutta intenta ad imporre i diktat della Troika...»


*******

Eodolfo venne a quel punto riportato tumultuosamente alla veglia dall’eccesso di orrore scatenatosi insieme all'orripilante immagine, mentre, quasi nello stesso momento, anche tutti i suoi condomini si svegliarono di soprassalto per un tremendo boato che scosse il palazzo fin nelle sue fondamenta. Quel rumore altro non era che un ultrasonico rutto liberatorio, esalato da Eodolfo nel conseguire finalmente la meritata emancipazione digestiva. Poi gli animi s’acquietarono, tutti si girarono sull’altra chiappa e proseguirono a ronfare, ma il trauma rimase impresso ancora per lungo tempo nell’animo di Eodolfo.

Basti dire che per diverse settimane dopo il sogno, non volle nemmeno sapere il valore dello spread e ogni volta che andava a far spesa, acquistava solo il minimo necessario trasportabile a mano, perché anche soltanto l’idea della Borsa, gli dava la nauesa.



lunedì 17 novembre 2014

Sentir la mancanza del sentirsi mancanti


Da non so più quanto tempo ormai, mi succede un piccolo fatto. Si tratta più che altro di un vezzo, un diversivo estemporaneo semi-involontario, quasi un tic. Magari son lì, intento in qualche impalpabile cosetta della più svariata natura (scrivere, leggere, pensare, fantasticare, immaginare o altre attività inattive del genere) e zac! Ecco che mi viene voglia di guardare l’orologio. Non ci sarebbe niente di strano, se non il fatto che la cosa capita spesso e volentieri quelle volte in cui sapere l’orario non mi serve proprio a niente.

Ma l’aspetto ancor più insolito è un altro. Non passano che pochi attimi da quando ho consultato il display del cellulare (nella mia modalità attuale di controllare l’ora, dato che non son solito portare l’orologio al polso), e già mi sono scordato in pieno che ore sono. Proprio non c‘è verso: l’ho vista una manciata di secondi fa, ma non so assolutamente l’ora.

La cosa mi è successa per tanto tempo, ma solo di recente mi è venuto da chiedermi come mai. Che cosa vuol dire questa necessità quasi inconscia di voler sapere l’orario, resa ancor più effimera e volatile dall’immediato oblio che l’accompagna? Non ho saputo darmi spiegazioni precise e circostanziate, a simili quesiti. Però in proposito, mi hanno accarezzato la mente alcuni vaghi lampi d’intuizione, che mi sono parsi interessanti. 

Una prima suggestione (molto mitologico-fanta-leggendaria, me ne rendo conto, ma che non mi vergogno a spiattellare qui senza pudore) consiste nell’ipotesi che la nostra natura, per sua “costituzione ontologica”, non sia fatta per manifestarsi ed esplicarsi nel tempo. Il tempo è sì un abito che ci sentiamo cucito addosso secondo una taglia perfettamente studiata dal Grande Sarto Universale, ossia dalla realtà stessa in cui siamo calati. Ma questo vestito, pur essendo anche esaltante per molti aspetti, è a tratti costrittivo, imprigionante, quasi soffocante.

Anche senza voler scomodare i grandi filoni di pensiero della gloriosa tradizione, sia occidentale che orientale (penso in primis a Platone e al Buddha), questo sospetto indiziariamente subodorato secondo cui il nostro essere deriverebbe dalla “atemporalità” e ad essa sarebbe destinato a ritornare, non può fare a meno di affacciarsi alla nostra sensibilità. Il “non-tempo”, la brama di non essere nel tempo, sono fattori che rechiamo dentro di noi, come impronte genetiche immateriali. Ecco perché troviamo la massima soddisfazione in tutte quelle espressioni della vita che son capaci di ravvivare questa propensione latente celata nel nostro profondo. La musica o l’arte in genere, per esempio. Ma anche altre “attività” per lo più “non finalizzate”, come possono essere innamorarsi (e se appena c’è modo poi, fare l’amore), lasciarsi andare alla contemplazione, alla meditazione, star lì, semplicemente respirare ed esserci, grattarsi la pancia, annusarsi un’ascella, dormire magari, e così via. Si tratta, in tutti questi casi, di “mezzi di trasporto fuori dal tempo”.

Ma forse questa spiegazione non è completa, né sufficiente, per coprire tutto il senso del mio guardare l’ora per scordandomela subito appresso. Guardare l’orologio per dimenticare immediatamente il suo responso, è forse, come ho detto, sintomo di una sotterranea fame di atemporalità. Ma se è vero che la nostra essenza è in parte composta da questo anelito ad essere ri-partoriti al di fuori del tempo, per altri aspetti non possiamo negare la nostra natura di esseri perennemente “mancanti” (inteso sia in senso attivo, ossia persone “che mancano”, in quanto sempre separati da un’agognata pienezza; ma anche e soprattutto in direzione passiva, nel senso di individui “ai quali manca”, che provano il sentimento della mancanza di qualcosa). 

Nella mancanza viviamo immersi, in essa sguazza il nostro intimo. Portando un po’ agli estremi il concetto, potremmo quasi dire che di mancanza si nutre la nostra esistenza stessa. Viviamo per ciò che ci manca. Lì è nascosta la molla esistenziale più attiva e mobilitante che possiamo immaginare. Ciò che abbiamo perde in un batter d’occhio tutta la sua importanza e il suo valore, se non ci fosse sempre sullo sfondo ciò che ci manca, a fare da orizzonte essenziale costante. Così allora forse si spiega, secondo altri aspetti, il mio adocchiare invano l’orario. E’ per assaporare un vago sapore imprecisato del tempo, che ogni tanto mi ritrovo a consultare gratuitamente l’orologio. Lo faccio per sentire ribadita la mia indefinita natura di entità “mancante”, che meglio non può essere espressa se non dal senso del tempo, con tutte le sue golose promesse da gran dottore capace di curare le mancanze future.

Ovviamente, tra le due spiegazione sussiste un’ovvia contraddizione. Guardo l’orologio invano, perché voglio star fuori dal tempo? Oppure perché nella sensazione della temporalità pura, mi ci voglio sentire calato? 

Per tutte e due le cose. 

Ecco perché la vita è così affascinante, ma tormentosa insieme. Ecco perché siamo assetati senza sosta di un’acqua che mai ci può dissetare. Siamo di continuo attirati dentro al vortice maliardo del tempo, ma aneliamo anche a sfuggire da esso. Siamo fatti di questa incredibile contraddizione. La accogliamo in noi inspirando, ci scorre in tutto il corpo, nelle vene, e poi la ributtiamo fuori di nuovo, insieme al fiato.

E’ tutto questo che mi passa attraverso, quando controllo l’orario e subito dopo mi scordo di che ore sono: il profondo sentimento della mancanza di sentirmi mancante.


venerdì 14 novembre 2014

Le muse di Kika van per pensieri: William Merrit Chase (1849-1916)

Torniamo un po’ sui nostri passi, oggi, con la rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. Per strabiliarci con le sue magie modaiole, Kika ha infatti scelto ancora un epigono dell’Impressionismo, il pittore americano William Merrit Chase (Niveneh, 1 novembre 1849 - New York, 25 ottobre 1916). In particolare, ci concentriamo su un’opera del 1888, “Ragazza col kimono blu”.

Di Impressionismo ho già parlato in lungo e in largo (almeno per quel che mi consentono le mie possibilità), affrontando vari altri esponenti più o meno importanti di questa corrente. Sull’Impressionismo è stata scritta una marea di libri. Il problema è che avendone letti pochissimi, non saprei aggiungere molto, rispetto a quando detto in altre puntate. Anche per quanto riguarda l’autore medesimo, William Merrit Chase, rischierei di riportare puri dati biografici letti su altri siti. Per cui, mi sento di scartare anche questa opzione e preferisco invece (forse anche perché si parla ancora di Impressionismo) riportare qualche mia impressione sparsa e poi fare una pura analisi compositiva del quadro di oggi.

Perché è importante l’Impressionismo, al di là delle sue “argomentazioni dirette” che introdusse nell’ambito del generale discorso della storia dell’arte? Fra le tante risposte che si possono dare al quesito, credo che una abbastanza buona sia questa: l’Impressionismo è importante perché rappresenta uno spartiacque fondamentale di inaugurazione della Modernità. Ci sarebbero mille motivazioni per sostenere questa affermazione, ma io considererò la più banale.

Ogni volta che ci siamo occupati di pittori vissuti tra fine ‘800 e inizio ‘900, abbiamo potuto classificarli nella famiglia degli Impressionisti. Ma basta spostarsi solo di pochi anni più avanti, e questa uniformità svanisce, si infrange in mille rivoli artistici anche molto diversi fra loro. L’Impressionismo è forse l’ultima corrente artistica “unitaria”, che ha rappresentato un riferimento “universale” per il mondo creativo della sua epoca. Al tempo stesso, è stato lo “stile” che ha inaugurato la fine della fedeltà allo stile. 

Se consideriamo le epoche prima dell’Impressionismo come “il passato”, possiamo far riferimento ai vari periodi, associandoli di volta in volta ad uno stile: partiamo ad esempio dal Romanico, poi venne il Gotico, poi il Rinascimento, e ancora il Barocco, il Rococò, il Neoclassicismo, il Romanticismo (per facilitare l’esempio, ho mischiato un po’ definizioni in certi casi pertinenti più all’architettura, con altre più direttamente riferita all’arte in genere, ma era solo per capirci).

Con l’Impressionismo posiamo invece il piede sulla soglia del “moderno”. E’ l’ultimo stile che s’impone come modello preminente, ma dopo di esso il concetto di modello si frammenterà in tante esperienze di ricerca fra loro anche molto differenziate. Come capita a volte, partendo da una semplice constatazione, si può pervenire ad una qualche profonda consapevolezza. Ecco allora che possiamo capire meglio questa caratteristica dell’Impressionismo, se facciamo un po’ mente locale rispetto alla sua stessa essenza: col movimento impressionistico per la prima volta il “relativismo” fa il suo ingresso prepotente nel mondo dell’arte. 

Per spiegarmi meglio, riporto alcuni passaggi (un po’ ostici, lo so, ma molto densi e significativi) tratti dal bellissimo (e difficilissimo) libro “Arte e filosofia”, di Massimo Donà (2007), che ho già avuto modo di citare in altre occasioni:

«…Manet stava avviando una vera e propria rivoluzione pittorica. Alle sue spalle si stagliava ormai l’acquisizione cartesiana secondo cui la realtà che riteniamo esistere fuori di noi non è altro che una nostra “rappresentazione”. Non solo; la modernità, a partire da Kant, era giunta ad ammettere anche questo: per quanto ci si sforzi, quel che riusciremo a sapere del mondo, sarà sempre e comunque un “essere oggettivo”; qualcosa che sarà tale sempre e solamente per il “soggetto”. Un fenomeno dell’essere; e mai l’essere in quanto tale. Una porzione del reale; quel che di quest’ultimo si dà nella relazione (quella soggetto-oggetto) di là dalla quale nulla potrebbe in alcun modo darsi… […] Insomma, il pittore non poteva sapere quale fosse “la vera realtà”, di là da quell’insieme di sensazioni cromatiche, masse di colore, conformità della figura umana e del paesaggio… […] …l’impressione appariva ormai come l’unica cosa da dipingere…».

L’Impressionismo è stato insomma l’ultimo “panorama globale” di riferimento per l’arte, che tuttavia serbava proprio nella sua natura stessa il moderno germe della deflagrazione dell’indagine conoscitiva a venire. Se riguardo alla “realtà esterna a noi”, non possiamo più dire nulla di certo, definitivo e valido per tutti, trascorso il periodo “di stupore” (quello Impressionista, appunto) in cui l’intero mondo dell’arte prende atto all’unisono di questa nuova sconcertate precarizzazione della verità, la conseguente frammentazione moderna degli stili e dei riferimenti culturali, non poteva che venire subito dopo quasi come naturale conseguenza.

Venendo a dire due parole sul quadro di oggi, “Ragazza col kimono blu”, possiamo fare innanzitutto un appunto stilistico. In questa opera è evidente una tendenza a “boldinizzare” la tecnica impressionista. Di Giovanni Boldini (Ferrara, 1842-Parigi, 1931) abbiamo già parlato in altre puntate. Fu pittore alla moda, che assunse spesso e volentieri il linguaggio impressionista come strumento di meraviglia superficiale per l’osservatore delle sue opere. Anche nel quadro di William Merrit Chase possiamo vedere una certa ricerca dell’effetto fine a se stesso, un’evocazione di atmosfere morbide, sensuali ed eteree che poco si preoccupano della ricerca conoscitiva più profonda.

Interessante è invece l’impianto compositivo della scena. L’occhio dell’osservatore è chiamato ad “arrampicarsi” lungo il delicato declivio della figura ad “esse” della donna ritratta, partendo dai piedi per risalire su su, fino ad incappare nella misteriosità del volto. Alla tensione visiva verso il volto contribuiscono anche, ciascuna a modo suo, le diverse disposizioni delle mani della ragazza. Anche da esse si diparte un energetico stimolo a “guardare oltre” che inevitabilmente ci spinge ad addentrarci ancora una volta verso il viso.
Il viso di questa ragazza col kimono blu mi ha dato non poco filo da torcere nell’indagine fisiognomica di oggi. Questo mi induce a un’ulteriore riflessione. Il gioco di ricercare un viso noto da abbinare ai soggetti ritratti nei quadri, oltre ad essere ogni volta molto divertente, mi spinge ad osservare con molta cura le fisionomie. E per quanto “minori” siano i vari artisti considerati, non mi è mai successo di incontrare un viso poco significativo. In ogni volto c’è sempre un quid di mistero femminile, di “enigma umano”, che già di per sé vale il quadro intero, lo valorizza al di là dell’importanza del ruolo svolto dall’autore nel grande libro della storia dell’arte. Questo mi conforta in una convinzione: nel volto umano si riassume il più alto concentrato di “energia visiva” immaginabile ed è per questo che gli artisti di tutte le epoche non si sono mai stancati, né mai si stancheranno, di ritrarlo.

Detto ciò, vi espongo le mie due ipotesi per la ragazza col kimono. Quella più efficace, mi sembra la seguente:


Non potete non riconoscerla, soprattutto se almeno una volta avete sentito la sua voce, una delle più belle della musica leggera italiana: è ovviamente Antonella Ruggiero, già famosa negli anni ’70 come cantante dei Matia Bazar e poi molto apprezzata anche nella sua carriera da solista.

La seconda somiglianza è forse più forzata. Ma ho trovato che qualche elemento c’entrasse lo stesso, per cui ve la voglio mostrare:

Qui andiamo più sul difficile, con un volto del passato: si tratta di Hedy Lamarr (1914-2000), stella del periodo d’oro della Hollywood in bianco e nero. Di recente, tra l’altro, ho scoperto che oltre ai gloriosi trascorsi da attrice, la biografia di Hedy Lamarr riserva altri notevoli capitoli che ne fanno una delle donne più interessanti e di valore del ventesimo secolo. Originaria dell’Austria, fu costretta ad emigrare negli USA per la sua ostilità verso il regime nazista. Durante la guerra, ideò insieme a George Antheil un sistema di “manipolazione” delle onde radio, che convertito dagli scopi militari all’utilizzo civile al termine del conflitto, le valse la registrazione di una quantità di brevetti, molto importanti ancora oggi, ad esempio, nell’ambito della telefonia mobile.

Fatto anche questo piccolo excursus fisiognomico-cinematografico-storico, per oggi ci salutiamo e ce ne andiamo a scoprire come Kika ha interpretato il Kimono blu della ragazza di William Merrit Chase.

mercoledì 12 novembre 2014

Vucumpropoli


Quando si è immersi nella consuetudine fino ai capelli, per forza di cose si fatica a distinguere bene ciò che ci circonda. E vorremmo ben vedere! Ma come si fa vedere con gli occhi affondati in qualche cosa?

Ogni tanto viene utile allora uno scrollone di consapevolezza. Fare mentalmente come in certi film un po’ datati. Qualcuno sveniva e subito si levava per la stanza il grido tipico: presto, i sali! I mitici sali. Che cosa siano di preciso non l’ho mai saputo (e forse non lo voglio nemmeno sapere). Mi pare di aver sentito dire da qualche parte che si tratta di una sorta di super concentrato puzzone, tipo un gran fetore di carogna amplificata in pochi grammi di sostanza, in grado di mollare uno strattone sensoriale anche alla proboscide di un pachiderma.

Ci vorrebbe proprio uno scossone del genere, per cavarci fuori dall’assuefazione commerciale in cui siamo ficcati fin sopra alla testa. Non ci accorgiamo quasi più di niente, perché tutto è ormai troppo. Ma da mattina a sera, siamo circondanti, assediati, assillati, scassamichiati da gente che ci vuole vendere qualcosa. Viviamo vite completamente in vendita. 

D’accordo, per molti aspetti, è sempre stato così. Comprare, vendere e l’insieme di regole che fanno da panorama a queste due fondamentali attività: sono tutte questioni di civiltà importanti, conquiste della cultura e dell’ingegno umano. Ma forse mai prima della nostra epoca, la cosa ci era entrata così tanto nel profondo dell’essere, sino ad imbibirci il midollo. Proviamo allora a dare un’annusata profonda a un bel carognone scrollatore, tiriamoci fuori per un attimo dalla melma commerciale totalizzante (magari proprio sniffando il suo fetore) e rendiamoci un attimo conto: è impressionante. 

E’ la vucumprizzazione della realtà (la bruttezza immonda della parola è in qualche modo voluta: sempre per rendere più efficace l’effetto puzzaccia di carcassa frollata).  

Tutti ti vendono di tutto. Non fai in tempo a girarti, che ad ogni angolo sbuca un tizio che ti offre cose in cambio di denaro. Ti telefonano a casa in continuazione: vu cumprà? Te lo scrivono sui muri delle città, su cartelloni, insegne luminose, autobus, taxi: vu cumprà? Te lo scrivono per posta: vu cumprà? Non parliamo della tv, dei giornali, di internet: vu cumprà? Vu cumprà? Vu cumprà?

Uno degli aspetti più grotteschi di tutto questo, è che poi magari perdiamo la pazienza (anche giustamente, non dico di no) quando è un extracomunitario per la strada, o chi per lui, ad importunarci con qualche sua offerta di cianfrusaglie. Lo schiviamo, passiamo oltre stizziti, ma non ci rendiamo conto che è quasi come se gli stessimo dicendo: «…Ehi, lasciami perdere, non vedi come sono impegnato? Devo già farmi fracassare tutto il giorno le palle da ben altri venditori! Non ho tempo per il tuo dilettantismo…tzk, tzk…».

Che poi, siamo alle solite. Fossero cose che dico io, va beh, ci si potrebbe passare sopra con un liberatorio: ma va a dà via al cül, va là Gilipix!

Ma il punto è che non lo dico solo io:

«…Secondo Michael Sandel, filosofo e professore alla Harvard University, si è passati in pochi anni e senza rendersene conto “da un’economia di mercato a una società di mercato”, con una differenza sostanziale: “la prima è uno strumento per organizzare la produzione, la seconda è una società dove tutto è in vendita, dove il pensiero di mercato permea tutte le sfere del vivere”. Il mercato è il modello delle relazioni sociali, l’unico valore considerato è il valore di scambio. La crisi è stata utilizzata non solo per imporre delle riforme, ma, ancora peggio, per rafforzare ulteriormente l’idea di una presunta “obiettività” degli stessi concetti di mercato e libero scambio.

“Ogni organizzazione sociale, per potersi stabilire, deve fondarsi in maniera cruciale sull’incorporare nel senso comune tutto un insieme di credenze – idee al di là di ogni questione, assunzioni talmente profonde che lo stesso fato che siano delle assunzioni è raramente portato alla luce. Nel caso del neoliberismo, tale insieme di idee ruota attorno alla supposta naturalezza del mercato, al primato dell’individuo competitivo, alla superiorità del privato sul pubblico […] Il tentativo è quello di presentarli come verità eterne – i concetti del mercato e dell’individualismo sono una mera descrizione di uno stato ideale di natura”("After neoliberalism: analysing the present" - Stuart Hall, Doreen Massey, Michael Rustin - "Soundings" - 2013) …».

Dobbiamo restituire fiducia ai mercati - FALSO!” - Andrea BaranesEd. Laterza (2014)

venerdì 7 novembre 2014

Le muse di Kika van per pensieri: l’iperrealismo di Alex Gross


Dopo una pausa per varie indisposizioni tecnologiche e fisiologiche, riprendiamo oggi la rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. L’inventiva di Kika nel trovare sempre nuovi argomenti artistico-modaioli stimolanti ed inediti non finirà mai di stupirmi. Per questa puntata, la nostra “maghetta della moda” ci propone infatti un bellissimo incrocio tematico. Il racconto Kikesko è iniziato con l’abbracciare la super-cromatica fonte di ispirazione scaturita dal dolce immaginario legato alle caramelle, per passare a “Candy Crush”, il popolare videogioco del momento che impazza sugli smart-phone di mezzo mondo, e terminando in una corrente artistica moderna molto particolare, l’Iperrealismo.

Il quadro che osserviamo oggi si intitola per l’appunto “Candy Crush” ed è attualissimo, essendo stato dipinto nel 2014 da Alex Gross, un autore americano nato a New York nel 1968. Forse parlare di iperrealismo nel caso di questo pittore è per certi versi un po’ forzato. Passando in rassegna la sua produzione (possiamo trovare una bella panoramica sul suo sito), notiamo che ha adottato negli anni tecniche diverse. Nel dipinto considerato tuttavia, l’impronta iperrealista è innegabile, seppur attenuata dalle sfumature stravaganti della scena rappresentata.

Col termine Iperrealismo si intende un genere artistico sviluppato intorno agli anni ’60 e ’70 del ‘900, che può essere fatto rientrare nella grande famiglia della Pop Art. Dopo essere passata in secondo piano per un certo periodo, questo tipo di indagine espressiva è stata riscoperta a partire dall’inizio del nuovo secolo e millennio, finendo per interessare persino l’ambito della scultura, grazie all’utilizzo di materiali plastici che hanno reso sempre più convincente ed efficace la simulazione della realtà anche in termini spaziali. Tipiche tematiche dell’Iperrealismo sono spesso soggetti tratti dall’universo consumistico, pubblicitario e dalla dimensione della comunicazione di massa (aspetti questi esplorati anche da Alex Gross in numerose sue opere). Parlare dunque di iperrealismo per questo pittore, non sarà forse esaustivo, ma a mio parere è pertinente rispetto alla sua opera “Candy Crush” e a diversi altri suoi quadri.

Approaching storm (2014) - Alex Gross

Impermanence (2014) - Alex Gross

Nel tempo l’Iperrealismo è stato chiamato anche Superrealismo, Realismo Fotografico, Iperfotografismo, Sharp Focus Realism. Al di là delle sottili sfumature che pur sussisteranno nelle diverse specificazioni, basta una semplice riflessione da non esperto per rendersi conto, a partire da queste definizioni, di un fatto banale. I fattori in gioco sono fondamentalmente due: la fotografia e il confronto con la realtà. Ci rendiamo conto, in sostanza, che una delle correnti artistiche più moderne mette sul tavolo questioni che sono antiche come il concetto stesso di arte.

La prima, fondamentalissima idea chiamata in causa è la “mimesi”, il tentativo di imitazione della realtà. A tal proposito, viene da porsi una domanda altrettanto annosa: in arte, la mimesi è un valore importante? Oppure, è addirittura il valore fondante, come pretenderebbe una certa visione “ingenua” dell’arte ancora molto sentita? 

Nell’ottica di questi interrogativi, diventa molto interessante la prospettiva iperrealista, che sviscera simili argomenti ponendosi in confronto con uno degli strumenti di “presa d’atto” della realtà più potenti, ossia la fotografia. Quando comparve la fotografia, alcuni dubitarono riguardo al futuro della pittura. Furono attimi di dubbio molto fugaci, ma pure si presentarono. Era più che naturale pensare: adesso che esiste un metodo così efficace per “duplicare” la realtà, a cosa potrà servire la fatica spesa nel dipingere, se in ogni caso i risultati saranno al di sotto delle aspettative di precisione e fedeltà riproduttiva offerti dai nuovi strumenti? Eppure la pittura ha continuato a esistere, anzi, possiamo oggi constatare come non abbia perso niente del suo fascino. E non solo è passata indenne attraverso la “rivoluzione fotografica”, ma ha anche brillantemente digerito quella cinematografica, quella informatica e diverse altre dettate da sempre più raffiate innovazioni tecnologiche.

Riprodurre il reale, dunque, pur essendo un ingrediente molto qualificante e “impressionante”, non è quello fondante per definire il senso del fare alte. L’Iperrealismo si insinua con somma finezza proprio fra i meandri di questa sottile disquisizione. Riproducendo in pratica immagini a loro volta derivate da riproduzioni fotografiche, l’Iperrealismo non intende porsi in competizione “quantitativa” con quella opzione tecnologica. Il suo scopo non sta nel giungere ad affermare: guarda quanto sono bravo, so fare meglio di un fotografo. 

Il suo “scopo” (sempre ammesso che in arte si possa parlare, sic et simpliciter, di “scopi”) sta invece nel mettere in evidenza come il fare arte consista in un quid creativo imponderabile, in quel residuo margine “qualitativo” che può essere assicurato soltanto dall’intervento della sensibilità, dell’intelligenza, della sapienza, della cultura, della follia, dell’inventiva e dell’imprevedibilità umana dell’artista. Ecco allora che mai nessuno strumento tecnologico, per quanto sofisticato, preciso, ultra-efficace, riuscirà mai a scalzare l’arte dal suo ruolo: perché l’arte si fonda sul “differenziale qualitativo umano” e da esso direttamente scaturisce. Ed ecco spiegato anche perché, ad esempio, se tutti (o quasi) siamo capaci di scattare una fotografia, sono invece pochissimi coloro capaci di trasformare il fotografare in un atto artistico.

L’iperrealismo dunque, frutto di una raffinatissima capacità tecnico-pittorica, esprime il meglio del proprio significato dichiarando che nemmeno la tecnica fotografica è in grado di mettere in secondo piano il “fattore umano”. Ribadendo le ragioni più profonde dell’arte, l’iperrealismo porta inoltre alle estreme conseguenze uno storico “discorso artistico”, che si può riassumere nella formula della “inafferrabilità del reale” (sensoriale, e visiva in particolare). Provo a spiegarmi meglio, riferendomi a due grandi del ‘900: Edward Hopper e Pablo Picasso. 

Hopper può essere considerato un antesignano dell’Iperrealismo, anche se non dal punto di vista della “esasperazione tecnica”, ma da quello più importante dei contenuti. Hopper ci racconta che per quanto la osserviamo con attenzione, oggettività e distacco, la realtà rimane un enigma. Le sue opere sono un vero e proprio inno a quello che (mediando concetti dall’antica tradizione sapienziale indiana) Schopenhauer definì il “velo di Maya”, ossia l’apparenza illusoria di tutto quanto ci appare nel mondo.

Picasso, per altri versi, ci ha spiegato con il Cubismo che la visione delle cose è soltanto una parte minimale della “presa d’atto” artistica sulla realtà. Non è importante solo quello che vediamo del mondo, ma nel determinare ciò che vediamo, gioca un ruolo imprescindibile tutta la consapevolezza celata nel nostro profondo.

Ecco allora che l’Iperrealismo, accentuando al massimo le potenzialità dell’«artificio» visivo, ci parla del “velo di Maya” nella sua fragilità più estrema, ricordandoci quanto evanescente e labile sia la superficie delle cose alla quale spesso e volentieri ci affidiamo ciecamente (il gioco di parole e concettuale è puramente voluto).

Non so se sono stato tanto chiaro nella mia esposizione. Ma non preoccupatevi, perché se vi è sembrato confusionario il discorso, questo non è niente in confronto al casino che vi pianterò su adesso con i risultati dell’indagine fisiognomica di oggi. Vi dico subito che da cinque somiglianze trovate, si stenta molto a tirarne fuori una decente. Ma per oggi è andata così. Il volto della ragazzina di “Candy Crush” è molto suggestivo, ma la sua essenza piena ha continuato a sfuggirmi. Ho dovuto fare ricorso a diversi volti famosi, di origine orientale e occidentale. Nessuno coglie in pieno l’obiettivo, ma ciascuno offre un piccolo contributo. Il risultato ottimale lo si può solo immaginare in un’ideale fusione fra questi.

La prima ipotesi è la seguente:

Si tratta di Nancy Kwan, attrice nata ad Hong Kong e poi naturalizzata americana. Negli anni ’60 divenne famosa per la sua interpretazione nel film “Il mondo di Suzie Wong” (1960), mentre in anni a noi più vicini, ha recitato nel film “Dragon – La storia di Bruce Lee” (1993).

Rimanendo sempre in estremo oriente, ecco il secondo volto:



Abbiamo qui France Nuyen, altra attrice di origini orientali (il padre era vietnamita), ma nata in Francia, a Marsiglia. Su di lei non vi so dire molto altro, se non che si tratta di una figura estremamente affascinante, scoperta per caso andando a spasso per il web.

Il terzo personaggio è un volto abbastanza familiare ai patiti dei film di “mazzate orientali” (fra i quali, producendomi in una delle mie innumerevoli anomalie, mi schiero senz’altro pure io):

Si tratta della dolce Nora Miao, anche lei nata ad Hong Jong e famosa per la sua partecipazione a quasi tutte le pellicole realizzate dallo straordinario maestro di Kung Fu, Bruce Lee. In particolare, Nora Miao recitò nei film “Il furore della Cina colpisce ancora” (The Big Boss - 1971), “Dalla Cina con furore (Fist of Fury - 1972), “L'urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente (Way of the Dragon -1972).

Per proseguire la macedonia somatica, passiamo ora all’occidente. Questo volto noto l’ho già utilizzato in un’altra occasione, ma mi è sembrato funzionare anche stavolta:

E’ la più piccola delle sorelle Goggi, Daniela, alla quale sono associati tanti cari ricordi dei bei tempi andati, quando ancora “…a Zigo-Zago c’era un mago, con la faccia blu…”.

Chiudo col botto la serie delle somiglianze, con un volto stra-famoso, forse uno dei più noti del momento. Anche se andrebbe precisato che questa signorina, più che con il volto, ci ha abituato a guardarci in faccia con lo “sguardo” di altre parti del suo corpo:

Sì, è proprio lei, l’ineffabile miss Stefani Joanne Angelina Germanotta, o Lady Gaga che dir si voglia. Lo so, presa in qualsiasi altra inquadratura, non rassomiglia alla ragazzina di “Candy Crush” neanche per idea, ma ho trovato che in questa particolare foto, qualche elemento utile ci fosse.

Si conclude qui l’odierna puntata della nostra rubrichetta. Ora tutti sul blog della brava Kika, per scoprire le magie che ci ha riservato, alle prese con la bambina terribile delle caramelle.


martedì 4 novembre 2014

Fra due guanciali di essenza femminile


L’ernia del disco non sarà mai il mio mestiere…chissà come mai mi viene da iniziare così oggi, vendittizzando a destra e a manca una manciata di ricordi nati sotto il segno dei dolori lombari.

Il mal di schiena è da tanto tempo mio molesto compagno di viaggio. Eppure ci ho messo troppo tempo a capire che me ne dovevo occupare seriamente. Questo per dire che qualche anno fa, mi sono deciso a saperne di più riguardo ad un certo corso di yoga. Su incitamento di una cara amica, già fedele frequentatrice delle lezioni, siamo partiti insieme una bella sera. 

Il corso si teneva nella piccola palestra di una scuola media. In un’impeccabile atmosfera da ora di ginnastica alle medie, per l’appunto. Pareti gialline, linoleum verde mar di Brianza, spalliere inchiavardate al muro, cavallina e se non ricordo male, addirittura quadro svedese. Date le condizioni particolari della mia schiena, prima di buttarmi a pesce nella prova degli esercizi proposti, mi sono premurato di chiedere informazioni all’istruttore. Dribblando tra l’altro anche alcuni bonari sfottimenti da parte della mia amica, che mi rimproverava, pur celati sotto altre parole, il reato di lesa virilità e di manifesta indecisione nel fare le cose. 

Il bravo istruttore si rivelò persona gentile e disponibile. Mi spiegò che avevo fatto proprio bene a consultarmi prima con lui. Contento della risposta, mi sentivo già molto più Yoga e meno Yoghi di quanto non pensassi. Non era detto che gli esercizi proposti nella lezione fossero indicati per me. Era preferibile, mi disse, una serie di sedute personalizzate, che infatti mi premurai di seguire nelle settimane successive, con risultati anche soddisfacenti.

Ma dato che ero lì, e per tornare a casa dovevo ad ogni modo aspettare la mia amica, mi misi buono in un angoletto a vedere di cosa si trattasse. A parte l’istruttore e me, erano tutte donne. Giovani signore o ragazze anche, una trentina in tutto. Nell’inusitata circostanza, dapprima mi balenarono alla mente sprazzi confusi di goliardiche reminiscenze scollacciate ed echi di titoli filmici di infimo tenore, tipo “Il ripetente fa l’occhietto a tutta la classe” oppure “La professoressa di ginnastica sveste il suo corpo docente”.

Ma lentamente quelle sgangherate immagini vennero spazzate via. Il maestro lavorava con sotto una musichetta d’ambiente molto rilassata, impartendo pacate istruzioni ad ogni nuovo esercizio. Tra un’indicazione e l’altra, raccomandava di continuo di prestare attenzione al respiro, lasciando fluire la mente il più possibile. Il clima si faceva sempre più disteso e io assorbivo di riflesso qualche ondata di relax, anche solo stando nel mio punto di osservazione, semi-sdraiato su una pila di materassini intrisi di ore e ore di gioiosa riottosità prepuberale distillata.

Piano piano per tutto l’ambiente della piccola palestra si diffuse un’aura di energia buona. Alla gentilezza decisa del maestro, faceva eco la concentrazione delle signore, che eseguivano con diligenza tutte le movenze indicate. Il loro silenzio non suonava casuale, ma sembrava fatto apposta per lasciar parlare i corpi. Per non interferire con le parole parlate dalle ginocchia che si flettevano, dalle braccia che s’innalzavano, dai glutei che si tendevano, dalle cosce rese toniche con stiramenti e tensioni.

Me ne stavo nel mio cantuccio, a filtrare con gli occhi e il resto dei sensi quella delizia femminile sparsa copiosa nell’aria, quando l’orchestrazione generale del tutto si addentrò nel culmine della sinfonia. L’accordo di lunghezza d'onda fra maestro e allieve stava toccando i suoi picchi più armoniosi. Ad un bel momento, tutte vennero invitate a distendersi a terra, sul loro stuoino. Le luci si abbassarono un po’, la musica si fece sempre più suadente. Si trattava di chiamare in causa gli addominali. Il maestro invitò la sua orchestra a sollevare in alternanza una gamba e poi l’altra, concentrando la forza sui muscoli del ventre e stringendo dentro, come quando, parole testuali, si deve trattenere la pipì.

Seguì una manciata di lunghi secondi di silenzio ancora più denso, durante i quali le allieve eseguivano scrupolosamente il compito. Il tempo si sospese per lunghi attimi. Nello spazio dello stanzone era sparsa tutta una bella vibrazione di donna, come scaturita dai tasti di pianoforte in cui si era tramutata quella distesa di gambe risalenti e discendenti in sincrono accordo. Nella trascuratezza del pensare, toccava solo alla dolcezza dei ventri intonare una melodia armonica bassa e continua in sintonia con la penombra creata. Il pensiero tutto condensato in quel coro di pance femminili, che in quegli istanti mi raffiguravo come rarefatti mantici di delicatezza estrema, tutti presi ad emanare il loro canto gentile nato dalla molle profondità del mistero fisico interiore, per affiorare alla saldezza muscolare della superficie epidermica.

Mi ci vollero poi parecchi minuti per riemergere allo scorrere del tempo, al seguito di quella singolare estraniazione. Anche dopo, tornando in macchina con la mia amica, e poi di nuovo a casa, ripensando a quei momenti, mi rimase ancora a lungo dentro il sapore di una preziosità respirata, di una privilegiata prospettiva sull’enigma femminile, col quale, per puro caso, mi era toccato di potermi mettere in risonanza. Il dono estemporaneo di aver potuto respirare, per qualche lampo di tempo, in armonia col respiro ampio e disteso dell’essere.