venerdì 7 novembre 2014

Le muse di Kika van per pensieri: l’iperrealismo di Alex Gross


Dopo una pausa per varie indisposizioni tecnologiche e fisiologiche, riprendiamo oggi la rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. L’inventiva di Kika nel trovare sempre nuovi argomenti artistico-modaioli stimolanti ed inediti non finirà mai di stupirmi. Per questa puntata, la nostra “maghetta della moda” ci propone infatti un bellissimo incrocio tematico. Il racconto Kikesko è iniziato con l’abbracciare la super-cromatica fonte di ispirazione scaturita dal dolce immaginario legato alle caramelle, per passare a “Candy Crush”, il popolare videogioco del momento che impazza sugli smart-phone di mezzo mondo, e terminando in una corrente artistica moderna molto particolare, l’Iperrealismo.

Il quadro che osserviamo oggi si intitola per l’appunto “Candy Crush” ed è attualissimo, essendo stato dipinto nel 2014 da Alex Gross, un autore americano nato a New York nel 1968. Forse parlare di iperrealismo nel caso di questo pittore è per certi versi un po’ forzato. Passando in rassegna la sua produzione (possiamo trovare una bella panoramica sul suo sito), notiamo che ha adottato negli anni tecniche diverse. Nel dipinto considerato tuttavia, l’impronta iperrealista è innegabile, seppur attenuata dalle sfumature stravaganti della scena rappresentata.

Col termine Iperrealismo si intende un genere artistico sviluppato intorno agli anni ’60 e ’70 del ‘900, che può essere fatto rientrare nella grande famiglia della Pop Art. Dopo essere passata in secondo piano per un certo periodo, questo tipo di indagine espressiva è stata riscoperta a partire dall’inizio del nuovo secolo e millennio, finendo per interessare persino l’ambito della scultura, grazie all’utilizzo di materiali plastici che hanno reso sempre più convincente ed efficace la simulazione della realtà anche in termini spaziali. Tipiche tematiche dell’Iperrealismo sono spesso soggetti tratti dall’universo consumistico, pubblicitario e dalla dimensione della comunicazione di massa (aspetti questi esplorati anche da Alex Gross in numerose sue opere). Parlare dunque di iperrealismo per questo pittore, non sarà forse esaustivo, ma a mio parere è pertinente rispetto alla sua opera “Candy Crush” e a diversi altri suoi quadri.

Approaching storm (2014) - Alex Gross

Impermanence (2014) - Alex Gross

Nel tempo l’Iperrealismo è stato chiamato anche Superrealismo, Realismo Fotografico, Iperfotografismo, Sharp Focus Realism. Al di là delle sottili sfumature che pur sussisteranno nelle diverse specificazioni, basta una semplice riflessione da non esperto per rendersi conto, a partire da queste definizioni, di un fatto banale. I fattori in gioco sono fondamentalmente due: la fotografia e il confronto con la realtà. Ci rendiamo conto, in sostanza, che una delle correnti artistiche più moderne mette sul tavolo questioni che sono antiche come il concetto stesso di arte.

La prima, fondamentalissima idea chiamata in causa è la “mimesi”, il tentativo di imitazione della realtà. A tal proposito, viene da porsi una domanda altrettanto annosa: in arte, la mimesi è un valore importante? Oppure, è addirittura il valore fondante, come pretenderebbe una certa visione “ingenua” dell’arte ancora molto sentita? 

Nell’ottica di questi interrogativi, diventa molto interessante la prospettiva iperrealista, che sviscera simili argomenti ponendosi in confronto con uno degli strumenti di “presa d’atto” della realtà più potenti, ossia la fotografia. Quando comparve la fotografia, alcuni dubitarono riguardo al futuro della pittura. Furono attimi di dubbio molto fugaci, ma pure si presentarono. Era più che naturale pensare: adesso che esiste un metodo così efficace per “duplicare” la realtà, a cosa potrà servire la fatica spesa nel dipingere, se in ogni caso i risultati saranno al di sotto delle aspettative di precisione e fedeltà riproduttiva offerti dai nuovi strumenti? Eppure la pittura ha continuato a esistere, anzi, possiamo oggi constatare come non abbia perso niente del suo fascino. E non solo è passata indenne attraverso la “rivoluzione fotografica”, ma ha anche brillantemente digerito quella cinematografica, quella informatica e diverse altre dettate da sempre più raffiate innovazioni tecnologiche.

Riprodurre il reale, dunque, pur essendo un ingrediente molto qualificante e “impressionante”, non è quello fondante per definire il senso del fare alte. L’Iperrealismo si insinua con somma finezza proprio fra i meandri di questa sottile disquisizione. Riproducendo in pratica immagini a loro volta derivate da riproduzioni fotografiche, l’Iperrealismo non intende porsi in competizione “quantitativa” con quella opzione tecnologica. Il suo scopo non sta nel giungere ad affermare: guarda quanto sono bravo, so fare meglio di un fotografo. 

Il suo “scopo” (sempre ammesso che in arte si possa parlare, sic et simpliciter, di “scopi”) sta invece nel mettere in evidenza come il fare arte consista in un quid creativo imponderabile, in quel residuo margine “qualitativo” che può essere assicurato soltanto dall’intervento della sensibilità, dell’intelligenza, della sapienza, della cultura, della follia, dell’inventiva e dell’imprevedibilità umana dell’artista. Ecco allora che mai nessuno strumento tecnologico, per quanto sofisticato, preciso, ultra-efficace, riuscirà mai a scalzare l’arte dal suo ruolo: perché l’arte si fonda sul “differenziale qualitativo umano” e da esso direttamente scaturisce. Ed ecco spiegato anche perché, ad esempio, se tutti (o quasi) siamo capaci di scattare una fotografia, sono invece pochissimi coloro capaci di trasformare il fotografare in un atto artistico.

L’iperrealismo dunque, frutto di una raffinatissima capacità tecnico-pittorica, esprime il meglio del proprio significato dichiarando che nemmeno la tecnica fotografica è in grado di mettere in secondo piano il “fattore umano”. Ribadendo le ragioni più profonde dell’arte, l’iperrealismo porta inoltre alle estreme conseguenze uno storico “discorso artistico”, che si può riassumere nella formula della “inafferrabilità del reale” (sensoriale, e visiva in particolare). Provo a spiegarmi meglio, riferendomi a due grandi del ‘900: Edward Hopper e Pablo Picasso. 

Hopper può essere considerato un antesignano dell’Iperrealismo, anche se non dal punto di vista della “esasperazione tecnica”, ma da quello più importante dei contenuti. Hopper ci racconta che per quanto la osserviamo con attenzione, oggettività e distacco, la realtà rimane un enigma. Le sue opere sono un vero e proprio inno a quello che (mediando concetti dall’antica tradizione sapienziale indiana) Schopenhauer definì il “velo di Maya”, ossia l’apparenza illusoria di tutto quanto ci appare nel mondo.

Picasso, per altri versi, ci ha spiegato con il Cubismo che la visione delle cose è soltanto una parte minimale della “presa d’atto” artistica sulla realtà. Non è importante solo quello che vediamo del mondo, ma nel determinare ciò che vediamo, gioca un ruolo imprescindibile tutta la consapevolezza celata nel nostro profondo.

Ecco allora che l’Iperrealismo, accentuando al massimo le potenzialità dell’«artificio» visivo, ci parla del “velo di Maya” nella sua fragilità più estrema, ricordandoci quanto evanescente e labile sia la superficie delle cose alla quale spesso e volentieri ci affidiamo ciecamente (il gioco di parole e concettuale è puramente voluto).

Non so se sono stato tanto chiaro nella mia esposizione. Ma non preoccupatevi, perché se vi è sembrato confusionario il discorso, questo non è niente in confronto al casino che vi pianterò su adesso con i risultati dell’indagine fisiognomica di oggi. Vi dico subito che da cinque somiglianze trovate, si stenta molto a tirarne fuori una decente. Ma per oggi è andata così. Il volto della ragazzina di “Candy Crush” è molto suggestivo, ma la sua essenza piena ha continuato a sfuggirmi. Ho dovuto fare ricorso a diversi volti famosi, di origine orientale e occidentale. Nessuno coglie in pieno l’obiettivo, ma ciascuno offre un piccolo contributo. Il risultato ottimale lo si può solo immaginare in un’ideale fusione fra questi.

La prima ipotesi è la seguente:

Si tratta di Nancy Kwan, attrice nata ad Hong Kong e poi naturalizzata americana. Negli anni ’60 divenne famosa per la sua interpretazione nel film “Il mondo di Suzie Wong” (1960), mentre in anni a noi più vicini, ha recitato nel film “Dragon – La storia di Bruce Lee” (1993).

Rimanendo sempre in estremo oriente, ecco il secondo volto:



Abbiamo qui France Nuyen, altra attrice di origini orientali (il padre era vietnamita), ma nata in Francia, a Marsiglia. Su di lei non vi so dire molto altro, se non che si tratta di una figura estremamente affascinante, scoperta per caso andando a spasso per il web.

Il terzo personaggio è un volto abbastanza familiare ai patiti dei film di “mazzate orientali” (fra i quali, producendomi in una delle mie innumerevoli anomalie, mi schiero senz’altro pure io):

Si tratta della dolce Nora Miao, anche lei nata ad Hong Jong e famosa per la sua partecipazione a quasi tutte le pellicole realizzate dallo straordinario maestro di Kung Fu, Bruce Lee. In particolare, Nora Miao recitò nei film “Il furore della Cina colpisce ancora” (The Big Boss - 1971), “Dalla Cina con furore (Fist of Fury - 1972), “L'urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente (Way of the Dragon -1972).

Per proseguire la macedonia somatica, passiamo ora all’occidente. Questo volto noto l’ho già utilizzato in un’altra occasione, ma mi è sembrato funzionare anche stavolta:

E’ la più piccola delle sorelle Goggi, Daniela, alla quale sono associati tanti cari ricordi dei bei tempi andati, quando ancora “…a Zigo-Zago c’era un mago, con la faccia blu…”.

Chiudo col botto la serie delle somiglianze, con un volto stra-famoso, forse uno dei più noti del momento. Anche se andrebbe precisato che questa signorina, più che con il volto, ci ha abituato a guardarci in faccia con lo “sguardo” di altre parti del suo corpo:

Sì, è proprio lei, l’ineffabile miss Stefani Joanne Angelina Germanotta, o Lady Gaga che dir si voglia. Lo so, presa in qualsiasi altra inquadratura, non rassomiglia alla ragazzina di “Candy Crush” neanche per idea, ma ho trovato che in questa particolare foto, qualche elemento utile ci fosse.

Si conclude qui l’odierna puntata della nostra rubrichetta. Ora tutti sul blog della brava Kika, per scoprire le magie che ci ha riservato, alle prese con la bambina terribile delle caramelle.


2 commenti:

Kika ha detto...

Bellissima la tua definizione di arte basata sul “differenziale qualitativo umano” e l'esempio del fotografare come atto meccanico vs. artistico. Nel confronto tra pittura e fotografia mi hai fatto pensare a una cosa forse banale ma che mi è apparsa come un'improvvisa illuminazione: le correnti artistiche moderne hanno cominciato ad esplorare "altro" rispetto alla realtà copiabile, facendo una straordinaria rivoluzione (v. espressionismo, simbolismo, poi cubismo, astrattismo, surrealismo...) proprio perché era arrivata la Fotografia a scombinare le carte in tavola?? È grazie all'avvento della fotografia se la pittura ha fatto un salto di qualità volando verso nuovi lidi?? O era comunque tempo che succedesse?

Ps: tra i volti quello più somigliante secondo me è Nancy Kwan, ma anche la foto di Lady Gaga non scherza, che occhio hai avuto Gilli! :) La Kwan non la conoscevo se non di fama riflessa: "Il mondo di Suzie Wong" non l'ho mai visto ma ne ho molto sentito parlare. C'è persino una linea di alimenti cinesi che si chiama "Suzie Wong" penso in suo onore, l'ho vista tempo fa al supermercato (tanto per restare in tema di moderno consumismo :) - la cosa piacerebbe a Gross :)

Gillipixel ha detto...

@->Kika: la tua considerazione non è per nulla banale, Kika, anzi...le nuove tecniche forniscono sicuramente stimoli alle vie espressive "tradizionali", ma è vero anche il contrario...è successo anche dopo, col cinema, ad esempio, che ha influenzato anche tanti modi di fare di altre arti all'apparenza distanti, come la narrativa...e poi è successo che arti "nuove" ma al tempo stesso "antiche", come i fumetti, e arti più recenti (ad esempio sempre il cinema), si siano influenzate a vicenda, ragionando sul fare tecnico l'una dell'altra, e ricavandone commistioni operative che hanno dato vita a nuovi percorsi conoscitivi...

(non so se sono stato molto chiaro :-)

Da alcune settimane, tanto per dire, mi sono reso conto dell'ennesima di queste contaminazioni fra mezzi, anche se non in ambito strettamente artistico...parlo del Corriere della Sera in formato cartaceo...non so se lo prendi a volte, ma per chi è abituato a prenderlo di tanto in tanto da anni, si è potuta notare una evoluzione (o involuzione?) del formato, che nell'ultima versione si è chiaramente appiattito sul modello grafico (e anche in ordine alla tempistica) del web: articoli molto brevi, interlinea abbondante, pagine piccole, "trafiletti-curiosità" (nel senso di piccole notiziole da leggere in un attimo, magari tutte incentrate su una foto particolare, che cattura l'occhio)...tutto pensato per una lettura rapida e molto dinamica...secondo me questa è una regressione, ma è anche una prova lampante di come i mezzi si influenzano fortemente...

La cosa bella del ragionamento, ad ogni modo, è che alla fine, il punto che fa sempre la differenza è sempre quel "differenziale qualitativo umano" che dicevo :-)

Anche io non ho mai visto questo film di Suzie Wong, forse perché un tempo passava per qualcosa di "proibito" e per bambini e ragazzini era considerato sconveniente :-) adesso sono anni che non ne sento parlare... figuriamoci quanto sono cambiati i tempi con Lady Gaga :-) ormai le manca di salire sul palco con la radiografia della milza, e poi ci ha fatto vedere tutto :-)

Bacini radiografati :-)