domenica 6 gennaio 2019

Mattoni d'umano


Ciascuno di noi, quasi sempre senza rendersene conto, o senza premeditare più di tanto la cosa, erige “architetture” ogni giorno.

Si tratta ovviamente di “edifici immateriali” che stanno in piedi grazie a interpretazioni personali di come percepiamo e auspichiamo essere la nostra presenza in un certo spazio.

Soprattutto in considerazione del confronto con gli altri.

Un piccolo capannello di amici che chiacchierano amabilmente in mezzo a una piazza; due innamorati che si scambiano effusioni e tenerezze su una panchina; copie di ballerini che volteggiano su una pista a una festa estiva; un’assemblea riunita all’aperto per qualche cerimonia, di qualsiasi natura; ventidue giocatori di calcio schierati sul campo, più l'arbitro e il pubblico: sono solo alcuni esempi di “architetture intangibili”, ma non di meno capaci di caricarsi di forti significati di “relazione spaziale”, di vicinanza o distacco, di competizione o sfida, di complicità o di mantenimento di distanze formali, e così via.

Naturalmente, la relazione sul piano dello spazio non è poi mai fine a se stessa, ma introduce sempre alla relazione sul piano sociale e di interscambio umano.

Ogni nostro confronto con gli altri non può escludere la costruzione di uno spazio che si va formando interamente nelle nostre aspettative, nei nostri modi di vedere e sentire, in ciò che ci attendiamo sia il mondo per noi.

Il “capomastro” incaricato di fabbricare queste “architetture non materiali” è la parola. Con la parola possiamo innalzare muri di separazione e chiusura, oppure definire accoglienti stanze che invitino gli altri a entrare, possiamo dotare questi ambienti dei comfort migliori per far sentire completamente a suo agio l’ospite di turno.

La parola aperta al dialogo, invita l’interlocutore a collaborare alla costruzione di un’architettura condivisa: si crea una sorta di “consorzio di imprese” che lavorano insieme a fare un condominio in cui si andrà ad abitare tutti e due, o delle casette a schiera, o piccole villette separate ma impostate su buoni rapporti di vicinato.

La parola non dialogante, esclusiva, che si rinchiude a fortezza, tende a isolare l’altro, a lasciarlo fuori in un probabile terreno di disagio e scarsa, se non nulla, considerazione.

Agli ordini del “capomastro parola”, sta una squadra di “operai e muratori” addetti a curare altri particolari costruttivi dell’edificio di relazione.

Di questa “squadra” fanno parte i gesti, la mimica facciale, gli sguardi, le espressioni, il linguaggio del corpo e le distanze possibili fra i corpi stessi, fino all’opzione di potersi toccare con maggiore o minore facoltà di avanzamento.

Ad esempio, in un dialogo di circostanza tra due semisconosciuti, si mantiene un rispettoso distacco fra i corpi e non è contemplata l'eventualità di contatto.

Fra due amici, qualche buffetto su un braccio, sulle mani o su una spalla, per sottolineare i passi più concitati del discorso, sono leciti e normali.

Poi, di man in mano che aumenta il grado di confidenza, si ampliano anche le disponibilità di contatto, lasciando licenza di sussistere a carezze, baci e oltre. In questo senso, due amanti intenti a far l’amore stanno edificando una delle più complesse architetture di relazione immaginabili.

Per diventare architetti o geometri in questo particolare ambito costruttivo immateriale, non ci sono scuole.

Il miglior modo per fare progressi risiede nel desiderio stesso di imparare, a sua volta incentivato da disposizioni propositive come l'ascolto, lo sforzo di comprendere, l’apertura alle possibilità, la sensibilità, la capacità di cogliere sfumature, la “fantasia sociale”, l’immaginazione nel confronto.
Sono questi i ferri del mestiere dell’architetto relazionale.

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