Corpo o spirito?
Pratica o teoria?
Fatti o parole?
Tendenzialmente siamo abituati a trattare il mondo come una casa divisa in due stanze: da una parte, la stanza delle cose “concrete” e dall'altra, la stanza delle questioni “astratte”.
Soprattutto quando parliamo, o scriviamo, o pensiamo o, per dirla in generale, “usiamo il linguaggio”, siamo abbastanza convinti di usare un qualcosa di molto astratto.
Forse però proprio nel linguaggio troviamo una smentita a questa convinzione.
Le parole ci raccontano come tra corpo e spirito ci sia molta meno distanza di quanto non crediamo.
Ci pensavo uno degli ultimi pomeriggi non piovosi, camminando sull’argine, mio sommo maestro di meditazione.
Sull'argine si va avanti o indietro, si può spaziare con lo sguardo in alto e in basso, oppure dare libere occhiate a destra e a sinistra, ci si può fermare e poi ripartire.
Va beh, questo succede in ogni luogo aperto, con una visuale abbastanza libera.
Ma il bello sta proprio qui, perché se succedesse solo sull'argine, allora sì che sarebbe molto strano.
Il nostro essere consapevoli di noi stessi è dettato fondamentalmente da come ci sentiamo posizionati nello spazio.
E a sua volta il nostro sentirci nello spazio è dettato dal confronto generale fra verticale e orizzontale (e il tutto deriva dalla forza di gravità, ma non allarghiamo troppo l'argomento).
Stiamo parlando insomma di come il nostro corpo sente se stesso nello spazio, una faccenda strettamente fisica. Un fatto.
Torniamo alle parole: anche se tradizionalmente vengono contrapposte ai fatti, in realtà hanno una abbondante radice fisica. Moltissime parole sembrano astratte, e invece si muovono anche loro “nello spazio”.
Prendiamo ad esempio la parola “subire”. Quando la sentiamo, per raffigurarci in mente il significato, immaginiamo qualcosa che “sta sotto” [Tra l'altro, ci aiuta qui anche l’origine latina del termine, formata da “sub” (sotto) e “ire” (andare)].
Nel senso opposto, se usiamo la parola “prevalere”, o “successo”, o “vittoria”, ci raffiguriamo un qualcosa che “sta sopra”, o tende “ad andare in alto”.
Prendiamo le parole “domani”, o “progresso”, o “speranza”: ci suggeriscono qualcosa che “ci sta davanti”.
Pensiamo ad altre parole ancora più astratte (in apparenza), come “invece”, “ma”, “anzi”, “però”: quando intervengono in una frase, sentiamo come se il significato di quel che viene detto “tornasse indietro”.
Oppure, la stessa parolina “se”: dà l’impressione di una sospensione del discorso, che da quel punto potrà dirigersi in ogni direzione.
Ancora: le parole “dunque”, “insomma”, segnano una sosta nel ragionamento, mentre “infatti”, “allora”, indicano la ripartenza nello stesso.
Sono solo esempi stupidi, ma ci dicono che quando scriviamo, parliamo, pensiamo, è come se ci muovessimo nello spazio. Un po' come passeggiare sull'argine.
La cosa forte è che il “meccanismo” funziona anche al contrario.
Nel caso di utilizzo di “linguaggi fisici”, questi rimandano alle parole e ai pensieri.
Se un pittore traccia certe righe, o uno scultore fa certe forme, o un ballerino certe mosse, o un attore certe espressioni, possono voler dire “invece”, “se”, “dunque”, “insomma”, “subire”, “prevalere”, “vittoria”, “speranza”, e così via.
E mentre mi perdevo fra questi pensieri, ecco che l’argine mi ha frullato ulteriormente le idee.
La luce radente da un lato ha disegnato una gran falce d’ombra su quello opposto, un bellissimo boomerang in chiaroscuro che per meglio essere apprezzato, andava guardato in obliquo.
Cosa avrà voluto dirmi?
Boh, glielo domando alla prossima passeggiata…