Come fu che un gruppetto di “poco più che bambini poco meno che ragazzini” si innamorarono degli sport americani, nonostante fossero nati e cresciuti in pieno autarchismo concettuale soffuso di nebbie padane, rimane a tutt’oggi un mistero.
La spiegazione si potrebbe forse ricercare per paradosso nello spirito stesso di questi luoghi. Potrei tentare di spiegare il fenomeno ricorrendo a sofisticate disamine sociologiche, ma faccio prima a riassumere il concetto in questi laconici termini: qui da noi, quando ti dicono di fare una cosa, scrupolosamente per il gusto di non farla, ci stai anche a prenderti una scrupolosa martellata sul ditone.
Lo sport “da fare”, secondo la vulgata campagnolesca, era il calcio. A noi, non è che ci dispiacesse, il calcio. Ma la posta in palio era il nostro pluralismo culturale, e ad esso non volevamo rinunciare.
Che poi: vuoi mettere la soddisfazione di sentirsi dare del “siochétto mal-maturo”, votandosi all’eccentricità di certi sport dei quali il mugiko medio locale non capiva esattamente un’acca?
La molla iniziale fu senz’altro questa.
Dopo, provandoli, scoprimmo che gli sport americani erano anche bellissimi da giocare. Ma le prime volte fu solo per il piacere di udire sollevarsi in sottofondo il diffuso mormorio della plebe rurale: “…che ràsa d'un coijòn…” (trad. = “...che razza di un insipiente, assimilabile a viril attributo sferoidale...”) .
Un’altra cosa che non usa molto nelle mie zone, è fare le cose a metà.
Per questo, quando si trattò di scegliere uno sport americano, noi ci buttammo a pesce su quello che in fatto di astrusità, se rapportato all’asfittica prospettiva agonistica locale, li batteva tutti alla grande: il baseball.
Il baseball era perfetto: vedere un ragazzino che scaglia una specie di sassata in direzione di un amico, il quale tenta di difendersi fendendo bastonate nell’aria, mentre tutto il resto della compagnia se ne stava disperso sul campo reggendo nella mano sinistra non meglio identificati vesciconi in cotenna di maiale (i guantoni), era più di quanto la padana capacità di “intendere e volere di sport” potesse tollerare.
Fra le più immense sensazioni di “onnipotenza snobistica” mai provate in vita mia, ci fu senza dubbio quella di stare al fianco di una “casa-base” posticcia piazzata alla vigliacca nel bel mezzo del campo sportivo comunale, brandendo la mazza sotto lo sguardo di compatimento del bifolco mono-calcistico di turno che si ritrovava a passare di lì, tutto sprizzante amorevole disprezzo.
Come mai amorevole? Perché fra gli usi e i costumi di qui, c’è pure questo fatto: quando ti danno del coglione, lo fanno sempre volendoti un gran bene.
Ma il baseball era solo l’aperitivo di tutta la storia: il bubbone passionale sportivo “Iù-ès-éi” doveva scoppiare all’epoca delle scuole medie, con la pallacanestro.
Avete presente la scena dei Blues Brothers, quella nella chiesa, quando John Belushi viene asfaltato da un’autostrada di luce e si mette ad osannare invasato: “…La Banda!!!...La Banda!!!...”?
Ecco, su di me la scoperta del basket ebbe un effetto simile.
Addentrarmi gradualmente nella magia delle movenze cestistiche e familiarizzare pian piano con gli eroi del basket NBA , divennero un tutt’uno.
Così, se nei pomeriggi di maggio, col caldo incipiente che saliva dalla grattugia catramata del campetto da basket del paese, assaporavo la bellezza del palleggiare, del tirare, dello scartare gli avversari come birilli, alla sera l’appuntamento era invece fissato con i playoff del campionato NBA.
Ma qui gli ostacoli agro-socio-culturali si complicavano e si articolavano fieramente anziché no.
L’unica rete che all’epoca trasmetteva le partite NBA era PIN, Prima Rete Indipendente. E l’unico posto dove la rarissima frequenza di questo canale veniva captata era il Bar Sport di fianco alla chiesa.
Va beh, dove stava il problema, si osserverà…il problema stava nel “Guardatore di Tv del Bar Sport” professionista.
Non abbiamo mai potuto appurarlo, ovviamente, ma sono certo che se si fosse verificato all’epoca sulla sua carta d’identità, dopo la voce “professione” si sarebbe letto: “Guardatore di Tv del Bar Sport”.
Era un signore domiciliato giusto giusto nel borghetto dietro al bar. Il motivo per il quale assumesse la sala-tv del locale come surrogato del proprio salotto di casa, non venne mai chiarito.
E quando dico che era professionista, lo dico a ragion veduta. La sua fruizione della tele avveniva nella forma di una vera e propria pay-tv ante-litteram. Con una differenza fondamentale: invece della scheda pre-pagata, lui andava giù di bicchierini di cigliegioni sotto spirito.
Per il perdigiorno da bar, com’è noto, la scelta dell’articolo oggetto di consumazione è uno dei punti cruciali per la massimizzazione dello spazio-tempo scroccato all’esercizio commerciale. Non a caso, il “Guardatore di Tv del Bar Sport” sceglieva per sé il massimo: con un bicchierino di cigliegioni maraschinati nelle mani si trasformava nel Mozart del “far flanella”.
Voi capite bene che di fronte ad un simile avversario, capace di farsi durare una “maròla” (trad. = “nocciolo”) di ciliegia in bocca, ciucciandola anche per tutto il primo tempo di “Via col vento”, la lotta per il canale si faceva più ardua che mai.
A quel punto si innescava una guerra fredda delle più serrate: nella stanzetta accanto, ci davamo dentro col calciobalilla, nella speranza di ricacciare, con il nostro casino, il nemico alla volta della trincea domestica del suo divano. Ma s-lirati com’eravamo, non potevamo reggere il confronto sulla lunga distanza, riuscendo a giocare solo poche partite.
Così ci rassegnavamo, attendendo la resa nemica decretata in tarda serata dalla palpebra calante del “Guardatore di Tv del Bar Sport”.
Una delle più memorabili battaglie si tenne quella sera di maggio che seguì ad una giornata in cui ci eravamo esaltati da matti ad infilare il cesto sul campetto. Ci precipitammo al Bar Sport affamati di gesta mitologico-cestistiche yankee, ma il “nostro” era già perfettamente posizionato in saletta-tv armato delle peggiori intenzioni: spararsi dal primo all’ultimo fotogramma l’intera «Dolce vita» di Fellini!!!
Fra di noi, quando realizzammo il programma bellico dell’avversario, ci fu chi per poco non si ritrovò a collassare sul tavolo da ping-pong, e ce ne volle poi di spuma al ginger per farlo ritornare in sentimenti.
Anche quella volta, dopo due frullate di rabbia con gli omini del calciobalilla, non si potè fare altro che pazientare: neanche con le paghette di quattro settimane messe assieme, avremmo tirato su tanta moneta da giocarci la «Dolce vita» di Fellini nella sua interezza!
Si sfiorarono picchi di parossismo scancheratorio supremo, con gente fra di noi che giunse persino a pregare invano per l’improbabile affogamento della Ekberg nella famosa scena della fontana di Trevi, ma alla fine tutta l’attesa patita bruciò via come la candela che era valsa (…io i detti me li faccio e me li plasmo a piacere, va mò làh).
Dopo che il “Guardatore di Tv del Bar Sport” abbandonò la trincea fellinato per bene, riuscimmo a carpire solo un ultimo stralcio di partita.
Ma fu la prima volta in vita mia che vidi un uomo volare: Phil Ford, playmaker dei Kansas City Kings, che sul movimento conclusivo di un’entrata a canestro, eseguì in aria una perfetta rotazione a 360 gradi, prima di depositare la palla dolcemente nel cesto. Standing ovation di noi sbarbati cestisti in erba, e giuramento di eterna fedeltà alla palla-cesto ed al suo profeta Dan Peterson, già da allora unica e vera voce del basket NBA.
Non è un caso che a distanza di tanti anni questi ricordi mi siano riaffiorati alla mente proprio in questi giorni. Anch’essi sono infatti un piacevole frutto del digitale agricolo: fra i pochi canali pescati dal fatidico rural-decoder, c’è anche SportItalia, che trasmette un sacco di partite NBA, sempre ed ancora con un’unica voce, quella di Dan Peterson (…anche se, senza dover lottare oggi con un “Guardatore di Tv del Bar Sport”, devo dire che c’è un po’ meno soddisfazione).
La spiegazione si potrebbe forse ricercare per paradosso nello spirito stesso di questi luoghi. Potrei tentare di spiegare il fenomeno ricorrendo a sofisticate disamine sociologiche, ma faccio prima a riassumere il concetto in questi laconici termini: qui da noi, quando ti dicono di fare una cosa, scrupolosamente per il gusto di non farla, ci stai anche a prenderti una scrupolosa martellata sul ditone.
Lo sport “da fare”, secondo la vulgata campagnolesca, era il calcio. A noi, non è che ci dispiacesse, il calcio. Ma la posta in palio era il nostro pluralismo culturale, e ad esso non volevamo rinunciare.
Che poi: vuoi mettere la soddisfazione di sentirsi dare del “siochétto mal-maturo”, votandosi all’eccentricità di certi sport dei quali il mugiko medio locale non capiva esattamente un’acca?
La molla iniziale fu senz’altro questa.
Dopo, provandoli, scoprimmo che gli sport americani erano anche bellissimi da giocare. Ma le prime volte fu solo per il piacere di udire sollevarsi in sottofondo il diffuso mormorio della plebe rurale: “…che ràsa d'un coijòn…” (trad. = “...che razza di un insipiente, assimilabile a viril attributo sferoidale...”) .
Un’altra cosa che non usa molto nelle mie zone, è fare le cose a metà.
Per questo, quando si trattò di scegliere uno sport americano, noi ci buttammo a pesce su quello che in fatto di astrusità, se rapportato all’asfittica prospettiva agonistica locale, li batteva tutti alla grande: il baseball.
Il baseball era perfetto: vedere un ragazzino che scaglia una specie di sassata in direzione di un amico, il quale tenta di difendersi fendendo bastonate nell’aria, mentre tutto il resto della compagnia se ne stava disperso sul campo reggendo nella mano sinistra non meglio identificati vesciconi in cotenna di maiale (i guantoni), era più di quanto la padana capacità di “intendere e volere di sport” potesse tollerare.
Fra le più immense sensazioni di “onnipotenza snobistica” mai provate in vita mia, ci fu senza dubbio quella di stare al fianco di una “casa-base” posticcia piazzata alla vigliacca nel bel mezzo del campo sportivo comunale, brandendo la mazza sotto lo sguardo di compatimento del bifolco mono-calcistico di turno che si ritrovava a passare di lì, tutto sprizzante amorevole disprezzo.
Come mai amorevole? Perché fra gli usi e i costumi di qui, c’è pure questo fatto: quando ti danno del coglione, lo fanno sempre volendoti un gran bene.
Ma il baseball era solo l’aperitivo di tutta la storia: il bubbone passionale sportivo “Iù-ès-éi” doveva scoppiare all’epoca delle scuole medie, con la pallacanestro.
Avete presente la scena dei Blues Brothers, quella nella chiesa, quando John Belushi viene asfaltato da un’autostrada di luce e si mette ad osannare invasato: “…La Banda!!!...La Banda!!!...”?
Ecco, su di me la scoperta del basket ebbe un effetto simile.
Addentrarmi gradualmente nella magia delle movenze cestistiche e familiarizzare pian piano con gli eroi del basket NBA , divennero un tutt’uno.
Così, se nei pomeriggi di maggio, col caldo incipiente che saliva dalla grattugia catramata del campetto da basket del paese, assaporavo la bellezza del palleggiare, del tirare, dello scartare gli avversari come birilli, alla sera l’appuntamento era invece fissato con i playoff del campionato NBA.
Ma qui gli ostacoli agro-socio-culturali si complicavano e si articolavano fieramente anziché no.
L’unica rete che all’epoca trasmetteva le partite NBA era PIN, Prima Rete Indipendente. E l’unico posto dove la rarissima frequenza di questo canale veniva captata era il Bar Sport di fianco alla chiesa.
Va beh, dove stava il problema, si osserverà…il problema stava nel “Guardatore di Tv del Bar Sport” professionista.
Non abbiamo mai potuto appurarlo, ovviamente, ma sono certo che se si fosse verificato all’epoca sulla sua carta d’identità, dopo la voce “professione” si sarebbe letto: “Guardatore di Tv del Bar Sport”.
Era un signore domiciliato giusto giusto nel borghetto dietro al bar. Il motivo per il quale assumesse la sala-tv del locale come surrogato del proprio salotto di casa, non venne mai chiarito.
E quando dico che era professionista, lo dico a ragion veduta. La sua fruizione della tele avveniva nella forma di una vera e propria pay-tv ante-litteram. Con una differenza fondamentale: invece della scheda pre-pagata, lui andava giù di bicchierini di cigliegioni sotto spirito.
Per il perdigiorno da bar, com’è noto, la scelta dell’articolo oggetto di consumazione è uno dei punti cruciali per la massimizzazione dello spazio-tempo scroccato all’esercizio commerciale. Non a caso, il “Guardatore di Tv del Bar Sport” sceglieva per sé il massimo: con un bicchierino di cigliegioni maraschinati nelle mani si trasformava nel Mozart del “far flanella”.
Voi capite bene che di fronte ad un simile avversario, capace di farsi durare una “maròla” (trad. = “nocciolo”) di ciliegia in bocca, ciucciandola anche per tutto il primo tempo di “Via col vento”, la lotta per il canale si faceva più ardua che mai.
A quel punto si innescava una guerra fredda delle più serrate: nella stanzetta accanto, ci davamo dentro col calciobalilla, nella speranza di ricacciare, con il nostro casino, il nemico alla volta della trincea domestica del suo divano. Ma s-lirati com’eravamo, non potevamo reggere il confronto sulla lunga distanza, riuscendo a giocare solo poche partite.
Così ci rassegnavamo, attendendo la resa nemica decretata in tarda serata dalla palpebra calante del “Guardatore di Tv del Bar Sport”.
Una delle più memorabili battaglie si tenne quella sera di maggio che seguì ad una giornata in cui ci eravamo esaltati da matti ad infilare il cesto sul campetto. Ci precipitammo al Bar Sport affamati di gesta mitologico-cestistiche yankee, ma il “nostro” era già perfettamente posizionato in saletta-tv armato delle peggiori intenzioni: spararsi dal primo all’ultimo fotogramma l’intera «Dolce vita» di Fellini!!!
Fra di noi, quando realizzammo il programma bellico dell’avversario, ci fu chi per poco non si ritrovò a collassare sul tavolo da ping-pong, e ce ne volle poi di spuma al ginger per farlo ritornare in sentimenti.
Anche quella volta, dopo due frullate di rabbia con gli omini del calciobalilla, non si potè fare altro che pazientare: neanche con le paghette di quattro settimane messe assieme, avremmo tirato su tanta moneta da giocarci la «Dolce vita» di Fellini nella sua interezza!
Si sfiorarono picchi di parossismo scancheratorio supremo, con gente fra di noi che giunse persino a pregare invano per l’improbabile affogamento della Ekberg nella famosa scena della fontana di Trevi, ma alla fine tutta l’attesa patita bruciò via come la candela che era valsa (…io i detti me li faccio e me li plasmo a piacere, va mò làh).
Dopo che il “Guardatore di Tv del Bar Sport” abbandonò la trincea fellinato per bene, riuscimmo a carpire solo un ultimo stralcio di partita.
Ma fu la prima volta in vita mia che vidi un uomo volare: Phil Ford, playmaker dei Kansas City Kings, che sul movimento conclusivo di un’entrata a canestro, eseguì in aria una perfetta rotazione a 360 gradi, prima di depositare la palla dolcemente nel cesto. Standing ovation di noi sbarbati cestisti in erba, e giuramento di eterna fedeltà alla palla-cesto ed al suo profeta Dan Peterson, già da allora unica e vera voce del basket NBA.
Non è un caso che a distanza di tanti anni questi ricordi mi siano riaffiorati alla mente proprio in questi giorni. Anch’essi sono infatti un piacevole frutto del digitale agricolo: fra i pochi canali pescati dal fatidico rural-decoder, c’è anche SportItalia, che trasmette un sacco di partite NBA, sempre ed ancora con un’unica voce, quella di Dan Peterson (…anche se, senza dover lottare oggi con un “Guardatore di Tv del Bar Sport”, devo dire che c’è un po’ meno soddisfazione).
6 commenti:
bello questo racconto, bello davvero! l'immagine della felicità da piccoli snob è perfetta e mi evoca la mia personale soddisfazione quando, anni fa, dicevo di non possedere una televisione chessò dal parrucchiere le facce delle signore erano da fotografare... be' nemmeno ora ce l'ho però ho un accrocco che prende 3 canali :-)
Grazie, Farly :-) è vero, sono soddisfazioni strane e un po' bizzarre, ma chissà perchè posseggono un che di prezioso che è impagabile :-) come, che ne so, sfilare lungo la via più modaiola della città, reggendo in mano e in bella vista Il mondo come volontà e rappresentazione di Arturo degli Schopenauri...però, può essere un'idea :-D
ma questa di soddisfazione rischia di restare molto solitaria, gli altri guardano il libro, leggono il titolo e pensano sia un noir tedesco ;-) munic dice l'oracolo sogghignando
hai ragione, Farly, non ci avevo pensato... :-) tocca escogitare nobismi alternativi...fammi pensare...che ne dici di una bella declamazione con voce stentorea dei Cantos Pisanos di Ezra Pound nel bel mezzo della corsia surgelati dell'ipermercato? :-D
exessed, mi dice a me: come sempre ha ragione, ho proprio esagerato
:-)
Ezra Pound tra i surgelati può sembrare un raccoglitore di bollini per lo sconto su un nuovo prosciutto affumicato messicano, che di questi tempi necessita di incentivi vari...
Certo che l'immagine del Guardatore di TV del Bar Sport seduto davanti alle abbondanze dell'Anitona nazional-popolare vale un applauso!
ehehhhe...grazie Maffy per l'applauso :-) il Guardatore di TV del Bar Sport se la gustava l'Anitona (e per questo aveva anche la nostra comprensione ampia) ma noi mini-cestisti sbarbatelli soffrivamo da matti in attesa della nostra dose di basket NBA :-)
Posta un commento