Una delle pietre miliari della mia «mitologia infantile» è stata senza dubbio la figura del “bullo campagnolo patito di motori”.
La cosa buffa è che a me dei motori non me n’è mai potuto fregare di meno.
Questa disaffezione per bielle e pistoni prosegue florida ancora oggi, anzi per dirla tutta, negli anni si è decisamente intensificata, tramutandosi in una solenne stanzialità “sopra li maroni miei”.
Ma all’epoca subii anche io il fascino della dimensione motoristica come riflesso esistenziale.
Forse era più per una forma di curiosità verso i tipi umani, che da sempre mi accompagna.
Per far capire quanto me ne importasse: quando per tutti i miei coetanei iniziava il periodo di fibrillazione per il primo motorino (viatico agognato per essere introdotti nel mondo adulto, acquisendo nel contempo anche maggiori spunti di fascino verso l’altra metà del cielo), io continuavo a leggere i miei fumetti, a girare in bici, la testa fra le nuvole e una margherita su un orecchio, e a non beccare niente con le ragazzine.
Ciononostante, quando dal gruppetto di ragazzi riuniti intorno alla panchina sotto l’ombra del viale ascoltavo alzarsi spezzoni di discorsi inframmezzati da termini esoterici come “elaborazione Polini”, “girato a luci allargate”, “serpentone Proma”, mi sentivo anche io introdotto nel tempio del “Grande Mistero del Motore”, che nel mio caso passava più che altro da questa fascinazione per un curioso linguaggio da iniziati.
Va anche ricordato un dato essenziale al discorso: tutti i fenomeni della modernità, una volta calati in un’ambientazione campagnola, tendono a caricarsi di singolarissimi contorni, dando vita ai personaggi più strambi e bizzarri.
Quando l’elettrizzante corrente di una moda cittadina si incontra con la placida brezza del lento vivere campagnolo, dal contatto può scaturire un piccolo temporale sociale che fa scendere fra le foglie del granturco uno scrosciante acquazzone di paradossali tipi umani. Anche il “bullo campagnolo patito di motori” va annoverato senz’altro fra le più fulgide saette scaricate sul suolo agricolo da una di queste periodiche intemperie.
Dire “bullo campagnolo patito di motori” è tra l’altro alquanto generico. Quella che ruotava intorno all’universo motoristico adolescenziale era in realtà una magmatica moltitudine variegata e pluri-cromatica.
A proposito di stranezze: il mio più grande sospetto è sempre stato di non essere io il solo in quel contesto a sapere poco o nulla di motori. Credo che la maggior parte di quei ragazzini vociferanti di carburatori, segmenti e ammortizzatori a gas, in realtà millantassero una sapienza infondata. Lo scopo principale in fondo era andare a tutta birra su due ruote oppure bulleggiare in impennata con pretese da “mèjo fico” della compagnia, per fare colpo sulle ragazze.
Paradossalmente, gli unici che invece possedevano vere conoscenze tecniche erano quei ragazzi che provenivano dalle famiglie più contadine di tutte, quelli che vivevano nelle fattorie isolate fra i campi, con tanto di stalla e fienili.
Grazie alla grande dimestichezza, nutrita fin dalla più tenera età, con trattori, trebbiatrici e ogni altra sorta di complessa diavoleria agro-meccanica, per loro era un gioco da ragazzi sapere vita, morte e miracoli di quei quattro bulloni che componevano un semplice cinquantino o una Vespa Primavera.
Solo che per un beffardo contrappasso, erano poi proprio loro a non riscuotere quel grande successo fra le sbarbine locali, perché la dura “legge della zolla”, crudele corollario dello snobismo delle ragazzine di “centro paese”, dice che per quanto tu possa essere campagnolo, puoi sempre trovare qualcuno più campagnolo di te.
Una volta con mio fratello mi successe un episodio dal sapore american-graffitaro rurale.
Eravamo rimasti a piedi con la Vespa nuova sul lungo ponte appena costruito ed ancora chiuso al traffico ufficiale, motodromo ideale e superba oasi di illegalità per giovani fanatici truccatori delle due ruote.
Non che noi due rientrassimo in questa categoria: quella di mio fratello era infatti la Primavera ET3 più regolamentare che circolasse in tutta la grande pianura, per di più nata con un difetto alla centralina elettronica capace di lasciarti in braghe di tela un giro su due.
Quindi, già una lettera della sigla ET3 (Elettronica 3 Travasi) ce l’eravamo giocata; ma poi va anche detto che, con 3 “travasi” appena, e dove credevamo di andare?
Che minchia fossero mai ‘sti travasi, non l’ho mai saputo. Era uno dei tanti termini misterici che volavano come le zanzare nelle discussioni sotto le fronde del viale. Io so solo che all’epoca, se non avevi almeno 5 travasi sotto la sella, col Kaiserslautern che potevi sperare in un mezzo appuntamento con una ragazzina.
Fatto sta che eravamo lì ingloriosamente intenti a spingere il nostro ultra-legalitario cavallo di ferro lungo il ponte, quando sopraggiunsero due Vespe di quelle col trucco così pesante che al confronto Renato Zero dei bei tempi era un giovinetto acqua e sapone.
Erano ragazzi di un paese vicino e si offrirono gentilmente di darci una trainata verso casa. Lungo il tragitto comune, riferirono a mio fratello che volevano gareggiare con la Vespa più veloce del nostro paesello, e se per caso conoscevamo l’impavido cavaliere che la montava.
Altroché se lo conoscevamo: si narrava che la sua Vespa sfiorasse i 130 all’ora e lui era uno dei più fulgidi esponenti del bullismo motoristico campagnolo, un tipo che tra le sottane ci trafficava a suo agio come in mezzo ai carburatori, quasi-idolo inconfessato di tanti ragazzini (come me) che avevano avuto invece il destino di venire su ordinariamente “per bene”, privi del fascinoso carisma dell’innocuo mascalzoncello di provincia.
Poi non seppi mai se la grande sfida sul ponte venne disputata o no.
Quello che purtroppo seppi non molto tempo dopo, non avrei voluto saperlo mai.
Il mio “Cavalier Vespato” preferito, il simbolo più elegante della fantasia motoristica degli anni della mia bambinità, aveva perso la sfida più importante, quella con le insidie del crescere e con tutte le acrobazie esistenziali attraverso le quali devi passare per diventare uomo.
Era morto proprio in un incidente con la Vespa.
Ma ironia beffarda della sorte volle che la cosa non accadesse in occasione di una delle rombanti dimostrazioni di velocità tanto ambite. Si spense invece durante un giro ordinario, per di più sedendo in sella dietro come passeggero.
Al suo ricordo queste indegne righe sono dedicate, perché a suo modo quel ragazzo è stato un simbolo della mia infanzia e la sua energia vitale la sento ancora fremere nell’aria della grande pianura ogni volta che il vento soffia fra le fronde del viale, veloce come la scia lunga di una Vespa truccata.
La cosa buffa è che a me dei motori non me n’è mai potuto fregare di meno.
Questa disaffezione per bielle e pistoni prosegue florida ancora oggi, anzi per dirla tutta, negli anni si è decisamente intensificata, tramutandosi in una solenne stanzialità “sopra li maroni miei”.
Ma all’epoca subii anche io il fascino della dimensione motoristica come riflesso esistenziale.
Forse era più per una forma di curiosità verso i tipi umani, che da sempre mi accompagna.
Per far capire quanto me ne importasse: quando per tutti i miei coetanei iniziava il periodo di fibrillazione per il primo motorino (viatico agognato per essere introdotti nel mondo adulto, acquisendo nel contempo anche maggiori spunti di fascino verso l’altra metà del cielo), io continuavo a leggere i miei fumetti, a girare in bici, la testa fra le nuvole e una margherita su un orecchio, e a non beccare niente con le ragazzine.
Ciononostante, quando dal gruppetto di ragazzi riuniti intorno alla panchina sotto l’ombra del viale ascoltavo alzarsi spezzoni di discorsi inframmezzati da termini esoterici come “elaborazione Polini”, “girato a luci allargate”, “serpentone Proma”, mi sentivo anche io introdotto nel tempio del “Grande Mistero del Motore”, che nel mio caso passava più che altro da questa fascinazione per un curioso linguaggio da iniziati.
Va anche ricordato un dato essenziale al discorso: tutti i fenomeni della modernità, una volta calati in un’ambientazione campagnola, tendono a caricarsi di singolarissimi contorni, dando vita ai personaggi più strambi e bizzarri.
Quando l’elettrizzante corrente di una moda cittadina si incontra con la placida brezza del lento vivere campagnolo, dal contatto può scaturire un piccolo temporale sociale che fa scendere fra le foglie del granturco uno scrosciante acquazzone di paradossali tipi umani. Anche il “bullo campagnolo patito di motori” va annoverato senz’altro fra le più fulgide saette scaricate sul suolo agricolo da una di queste periodiche intemperie.
Dire “bullo campagnolo patito di motori” è tra l’altro alquanto generico. Quella che ruotava intorno all’universo motoristico adolescenziale era in realtà una magmatica moltitudine variegata e pluri-cromatica.
A proposito di stranezze: il mio più grande sospetto è sempre stato di non essere io il solo in quel contesto a sapere poco o nulla di motori. Credo che la maggior parte di quei ragazzini vociferanti di carburatori, segmenti e ammortizzatori a gas, in realtà millantassero una sapienza infondata. Lo scopo principale in fondo era andare a tutta birra su due ruote oppure bulleggiare in impennata con pretese da “mèjo fico” della compagnia, per fare colpo sulle ragazze.
Paradossalmente, gli unici che invece possedevano vere conoscenze tecniche erano quei ragazzi che provenivano dalle famiglie più contadine di tutte, quelli che vivevano nelle fattorie isolate fra i campi, con tanto di stalla e fienili.
Grazie alla grande dimestichezza, nutrita fin dalla più tenera età, con trattori, trebbiatrici e ogni altra sorta di complessa diavoleria agro-meccanica, per loro era un gioco da ragazzi sapere vita, morte e miracoli di quei quattro bulloni che componevano un semplice cinquantino o una Vespa Primavera.
Solo che per un beffardo contrappasso, erano poi proprio loro a non riscuotere quel grande successo fra le sbarbine locali, perché la dura “legge della zolla”, crudele corollario dello snobismo delle ragazzine di “centro paese”, dice che per quanto tu possa essere campagnolo, puoi sempre trovare qualcuno più campagnolo di te.
***
Una volta con mio fratello mi successe un episodio dal sapore american-graffitaro rurale.
Eravamo rimasti a piedi con la Vespa nuova sul lungo ponte appena costruito ed ancora chiuso al traffico ufficiale, motodromo ideale e superba oasi di illegalità per giovani fanatici truccatori delle due ruote.
Non che noi due rientrassimo in questa categoria: quella di mio fratello era infatti la Primavera ET3 più regolamentare che circolasse in tutta la grande pianura, per di più nata con un difetto alla centralina elettronica capace di lasciarti in braghe di tela un giro su due.
Quindi, già una lettera della sigla ET3 (Elettronica 3 Travasi) ce l’eravamo giocata; ma poi va anche detto che, con 3 “travasi” appena, e dove credevamo di andare?
Che minchia fossero mai ‘sti travasi, non l’ho mai saputo. Era uno dei tanti termini misterici che volavano come le zanzare nelle discussioni sotto le fronde del viale. Io so solo che all’epoca, se non avevi almeno 5 travasi sotto la sella, col Kaiserslautern che potevi sperare in un mezzo appuntamento con una ragazzina.
Fatto sta che eravamo lì ingloriosamente intenti a spingere il nostro ultra-legalitario cavallo di ferro lungo il ponte, quando sopraggiunsero due Vespe di quelle col trucco così pesante che al confronto Renato Zero dei bei tempi era un giovinetto acqua e sapone.
Erano ragazzi di un paese vicino e si offrirono gentilmente di darci una trainata verso casa. Lungo il tragitto comune, riferirono a mio fratello che volevano gareggiare con la Vespa più veloce del nostro paesello, e se per caso conoscevamo l’impavido cavaliere che la montava.
Altroché se lo conoscevamo: si narrava che la sua Vespa sfiorasse i 130 all’ora e lui era uno dei più fulgidi esponenti del bullismo motoristico campagnolo, un tipo che tra le sottane ci trafficava a suo agio come in mezzo ai carburatori, quasi-idolo inconfessato di tanti ragazzini (come me) che avevano avuto invece il destino di venire su ordinariamente “per bene”, privi del fascinoso carisma dell’innocuo mascalzoncello di provincia.
Poi non seppi mai se la grande sfida sul ponte venne disputata o no.
Quello che purtroppo seppi non molto tempo dopo, non avrei voluto saperlo mai.
Il mio “Cavalier Vespato” preferito, il simbolo più elegante della fantasia motoristica degli anni della mia bambinità, aveva perso la sfida più importante, quella con le insidie del crescere e con tutte le acrobazie esistenziali attraverso le quali devi passare per diventare uomo.
Era morto proprio in un incidente con la Vespa.
Ma ironia beffarda della sorte volle che la cosa non accadesse in occasione di una delle rombanti dimostrazioni di velocità tanto ambite. Si spense invece durante un giro ordinario, per di più sedendo in sella dietro come passeggero.
Al suo ricordo queste indegne righe sono dedicate, perché a suo modo quel ragazzo è stato un simbolo della mia infanzia e la sua energia vitale la sento ancora fremere nell’aria della grande pianura ogni volta che il vento soffia fra le fronde del viale, veloce come la scia lunga di una Vespa truccata.