Quante volte ho fatto il chierichetto io, da bambino…
Al di là di come il proprio personale rapporto con la religione si è in seguito sviluppato crescendo, quasi tutti hanno fatto il chierichetto a Gillipixiland. O meglio, dalla trafila “mini-ecclesiastica” erano esonerati giusto i bambini catalogati nella risma dei “ribelli”, per loro stessa natura. Talvolta pure fra i più “rivoltosi”, se per caso appartenevano a famiglie pie e devote per lunga tradizione consolidata attraverso diverse generazioni, avvenivano reclutamenti pressoché forzati.
Alla fin fine, io non ricadevo in nessuna delle categorie previste per la suddivisione. Non derivavo da nessuna tradizione familiare di particolare devozione, e tanto meno ero un piccolo sovversivo. Nemmeno ci avrei tenuto più di tanto, ad andare a fare il chierichetto. Mi lasciassero a casa a giocare coi miei LEGO, che per me la felicità ed il grado massimo tollerabile di ostentazione della mia piccola persona, risiedevano tutte lì.
Ciononostante, i piccoli un po’ riservati e imbranati come me, finivano immancabilmente per essere coinvolti in faccende né eccessivamente volute, ma nemmeno rifiutate più di tanto.
E fu così che, come per un’infinità di “crocicchi di scelta” incontrati successivamente nel corso degli anni, anche il fatto di intraprendere la strada della “chierichettitudine” si verificò all'incirca per caso. Non esordii nemmeno in una messa della domenica, ma entrai in quel mondo, per così dire, dalla porta di servizio.
Mi trovavo a perdere il pomeriggio di un giorno qualunque con un pugno di amici a zonzo per strade campagnole familiari come le nostre tasche, quando alcuni di loro ricordarono l’impegno di dover andare a servire messa.
Capitò che, per giustificate esenzioni prontamente sbandierate dai “ribelli” e per impegni millantati da alcuni altri, col numero risultante degli unici due disponibili, non si raggiungesse il quorum.
Il minimo di una squadra di chierichetti era dato da tre piccoli “intonacati”. Il plenum, la formazione al gran completo, necessitava di un quartetto, ma sotto i tre non si sarebbe dovuto andare, perché tre erano le mansioni principali da adempiere.
I due bimbi già destinati al servizio, guardandosi in po’ intorno e soppesati i diversi poteri contrattuali distribuiti nel rimasuglio della piccola compagnia, non poterono fare a meno di concludere la loro disamina deliberativa, uscendosene fuori con un: «…Gillipix, vieni te, dai…», invito al quale io, facendo appello al mio proverbiale “decisionismo”, ribattei fermamente: «…Eh, va beh, verrò…».
Associo ancora il ricordo di quel primo debutto sull’altare, già bello e che addobbato con la lunga veste rossa parzialmente adornata dalla più breve cotta bianca, a certi indeterminati timori che immagino debba provare un attore ignaro del copione, spinto a calci sul palcoscenico. Gli amici, già scafati del “mestiere”, e nemmeno il prete, non mi avevano spiegato nulla, dato che eravamo giunti in canonica in extremis. Semplicemente, eseguii le istruzioni sussurrate in diretta dal “collega” al mio fianco, muovendomi come un automa cerimoniale e fluttuando in una sensazione stranissima di esposizione “para-mediatico-teatrale”, in corso tutta principalmente nella mia testa, dato che a seguire la messa ci saranno state sì e no una decina delle solite vecchiette più affezionate.
In quei momenti non lo sapevo ancora, ma quella doveva essere la prima di una trafila lunghissima di messe servite. Non entro nel merito di cosa la religione significasse per me a quei tempi, e nemmeno di ciò che ha significato in seguito ed che significa ora. Sarebbe un discorso troppo complesso, personale, densissimo di contraddizioni così eclatanti da non saperne rendere conto nemmeno in minima parte.
Quello di cui posso parlare invece è il ricordo positivo lasciato in me da quel lungo periodo di “chierichettitudine”: sembrerà strano, ma queste credo siano le cose che succedono ad essere bambini introversi ed imbranati. La cosa ha forse a che fare con un certo senso della religiosità, ma presenta anche aspetti, per così dire, più “secolari”.
Ebbi modo poi di impararmi con comodo alla perfezione tutta la procedura cerimoniale, divenendo quasi uno “specialista”: come muovermi al seguito degli spostamenti del prete sull’altare, come scegliere il momento giusto per prendere il piattello per la fila della gente alla comunione, versare le ampolline, ripiegare il tovagliolo. C’era un qualcosa di misterioso celato dietro quei gesti, che mi faceva sentire come avvolto da una nuvola di sospensione extra-temporale.
E poi c’era quella componente “comunitaria” così intensa, quel sentirmi così radicato nell’essenza del paese, svolgendo il mio piccolo ruolo “chierichettario”. Dalla mia “privilegiata” posizione di “mini-ecclesiastico”, mi sono sentito di volta in volta fuso a momenti intensissimi di gioie, dolori, sorrisi, lacrime; assaporando, per dire, anche certi disorientanti risvolti di noie ancestrali, nel corso di una miriade di funerali, battesimi, sposalizi, Pasque, Natali o altre cerimonie del tutto ordinarie. Fare il chierichetto era come essere un filtro, continuamente chiamato ad imbibirsi del clima umano del paese.
Anche il parroco probabilmente dovette accorgersi di questa mia graduale presa di possesso del “personaggio”, tanto che veniva a reclutarmi spesso anche nell’orario di scuola, se per caso capitava un funerale in contemporanea. Questo fatto, nella mia semplicità di bambino, mi ricolmava di una sorta di bizzarro orgoglio nascosto, e che tuttavia mi premuravo bene di non rivelare ai compagni di classe. Mi piaceva sentirmi segretamente appagato di quella mia posizione da “esperto dell’identità collettiva” del paese.
Ricordo ancora con un filo di commozione il particolare funerale di una vecchina.
Si celebrò appunto in orario di scuola, ed il prete puntualmente si presentò in aula per richiedere alla maestra di poter usufruire della mia “chierichettevole professionalità”. La vecchietta era originaria di una piccolissima frazione di Gillipixiland, e volle essere seppellita nel minuscolo cimitero di quel luogo, quattro semplici mura sotto l’argine del Piccolo Fiume. La giornata era piovosa, e seguendo il feretro lungo la carraia fangosa che portava al ristretto riquadro di tombe, mi inzaccherai il buffissimo paio di stivaletti anni ’70 che indossavo quel giorno. Tornato in classe, mi sentii particolarmente fiero dei “gradi di fango” conquistai sul campo, anche perché fu quella l’ultima persona ad essere ospite di quel piccolo camposanto.
Alla fine, smisi a fatica la “chierichettale” divisa bianco-rossa
Negli ultimi tempi delle elementari mi stava addirittura troppo corta, lasciando scoperta buona parte dei polpacci, ormai. Venne poi la fase dell’adolescenza, con le sue crisi inevitabili, di carattere sia spirituale, sia corporale.
E anche se ovviamente avevo iniziato ormai a capire da tempo che tornare indietro non sarebbe stato possibile ed in fondo nemmeno auspicabile, nondimeno la dismissione di quella divisa rimase per lungo tempo uno dei sintomi per me più intensamente associati a quelle nuove e sconosciute crisi.
Al di là di come il proprio personale rapporto con la religione si è in seguito sviluppato crescendo, quasi tutti hanno fatto il chierichetto a Gillipixiland. O meglio, dalla trafila “mini-ecclesiastica” erano esonerati giusto i bambini catalogati nella risma dei “ribelli”, per loro stessa natura. Talvolta pure fra i più “rivoltosi”, se per caso appartenevano a famiglie pie e devote per lunga tradizione consolidata attraverso diverse generazioni, avvenivano reclutamenti pressoché forzati.
Alla fin fine, io non ricadevo in nessuna delle categorie previste per la suddivisione. Non derivavo da nessuna tradizione familiare di particolare devozione, e tanto meno ero un piccolo sovversivo. Nemmeno ci avrei tenuto più di tanto, ad andare a fare il chierichetto. Mi lasciassero a casa a giocare coi miei LEGO, che per me la felicità ed il grado massimo tollerabile di ostentazione della mia piccola persona, risiedevano tutte lì.
Ciononostante, i piccoli un po’ riservati e imbranati come me, finivano immancabilmente per essere coinvolti in faccende né eccessivamente volute, ma nemmeno rifiutate più di tanto.
E fu così che, come per un’infinità di “crocicchi di scelta” incontrati successivamente nel corso degli anni, anche il fatto di intraprendere la strada della “chierichettitudine” si verificò all'incirca per caso. Non esordii nemmeno in una messa della domenica, ma entrai in quel mondo, per così dire, dalla porta di servizio.
Mi trovavo a perdere il pomeriggio di un giorno qualunque con un pugno di amici a zonzo per strade campagnole familiari come le nostre tasche, quando alcuni di loro ricordarono l’impegno di dover andare a servire messa.
Capitò che, per giustificate esenzioni prontamente sbandierate dai “ribelli” e per impegni millantati da alcuni altri, col numero risultante degli unici due disponibili, non si raggiungesse il quorum.
Il minimo di una squadra di chierichetti era dato da tre piccoli “intonacati”. Il plenum, la formazione al gran completo, necessitava di un quartetto, ma sotto i tre non si sarebbe dovuto andare, perché tre erano le mansioni principali da adempiere.
I due bimbi già destinati al servizio, guardandosi in po’ intorno e soppesati i diversi poteri contrattuali distribuiti nel rimasuglio della piccola compagnia, non poterono fare a meno di concludere la loro disamina deliberativa, uscendosene fuori con un: «…Gillipix, vieni te, dai…», invito al quale io, facendo appello al mio proverbiale “decisionismo”, ribattei fermamente: «…Eh, va beh, verrò…».
Associo ancora il ricordo di quel primo debutto sull’altare, già bello e che addobbato con la lunga veste rossa parzialmente adornata dalla più breve cotta bianca, a certi indeterminati timori che immagino debba provare un attore ignaro del copione, spinto a calci sul palcoscenico. Gli amici, già scafati del “mestiere”, e nemmeno il prete, non mi avevano spiegato nulla, dato che eravamo giunti in canonica in extremis. Semplicemente, eseguii le istruzioni sussurrate in diretta dal “collega” al mio fianco, muovendomi come un automa cerimoniale e fluttuando in una sensazione stranissima di esposizione “para-mediatico-teatrale”, in corso tutta principalmente nella mia testa, dato che a seguire la messa ci saranno state sì e no una decina delle solite vecchiette più affezionate.
In quei momenti non lo sapevo ancora, ma quella doveva essere la prima di una trafila lunghissima di messe servite. Non entro nel merito di cosa la religione significasse per me a quei tempi, e nemmeno di ciò che ha significato in seguito ed che significa ora. Sarebbe un discorso troppo complesso, personale, densissimo di contraddizioni così eclatanti da non saperne rendere conto nemmeno in minima parte.
Quello di cui posso parlare invece è il ricordo positivo lasciato in me da quel lungo periodo di “chierichettitudine”: sembrerà strano, ma queste credo siano le cose che succedono ad essere bambini introversi ed imbranati. La cosa ha forse a che fare con un certo senso della religiosità, ma presenta anche aspetti, per così dire, più “secolari”.
Ebbi modo poi di impararmi con comodo alla perfezione tutta la procedura cerimoniale, divenendo quasi uno “specialista”: come muovermi al seguito degli spostamenti del prete sull’altare, come scegliere il momento giusto per prendere il piattello per la fila della gente alla comunione, versare le ampolline, ripiegare il tovagliolo. C’era un qualcosa di misterioso celato dietro quei gesti, che mi faceva sentire come avvolto da una nuvola di sospensione extra-temporale.
E poi c’era quella componente “comunitaria” così intensa, quel sentirmi così radicato nell’essenza del paese, svolgendo il mio piccolo ruolo “chierichettario”. Dalla mia “privilegiata” posizione di “mini-ecclesiastico”, mi sono sentito di volta in volta fuso a momenti intensissimi di gioie, dolori, sorrisi, lacrime; assaporando, per dire, anche certi disorientanti risvolti di noie ancestrali, nel corso di una miriade di funerali, battesimi, sposalizi, Pasque, Natali o altre cerimonie del tutto ordinarie. Fare il chierichetto era come essere un filtro, continuamente chiamato ad imbibirsi del clima umano del paese.
Anche il parroco probabilmente dovette accorgersi di questa mia graduale presa di possesso del “personaggio”, tanto che veniva a reclutarmi spesso anche nell’orario di scuola, se per caso capitava un funerale in contemporanea. Questo fatto, nella mia semplicità di bambino, mi ricolmava di una sorta di bizzarro orgoglio nascosto, e che tuttavia mi premuravo bene di non rivelare ai compagni di classe. Mi piaceva sentirmi segretamente appagato di quella mia posizione da “esperto dell’identità collettiva” del paese.
Ricordo ancora con un filo di commozione il particolare funerale di una vecchina.
Si celebrò appunto in orario di scuola, ed il prete puntualmente si presentò in aula per richiedere alla maestra di poter usufruire della mia “chierichettevole professionalità”. La vecchietta era originaria di una piccolissima frazione di Gillipixiland, e volle essere seppellita nel minuscolo cimitero di quel luogo, quattro semplici mura sotto l’argine del Piccolo Fiume. La giornata era piovosa, e seguendo il feretro lungo la carraia fangosa che portava al ristretto riquadro di tombe, mi inzaccherai il buffissimo paio di stivaletti anni ’70 che indossavo quel giorno. Tornato in classe, mi sentii particolarmente fiero dei “gradi di fango” conquistai sul campo, anche perché fu quella l’ultima persona ad essere ospite di quel piccolo camposanto.
Alla fine, smisi a fatica la “chierichettale” divisa bianco-rossa
Negli ultimi tempi delle elementari mi stava addirittura troppo corta, lasciando scoperta buona parte dei polpacci, ormai. Venne poi la fase dell’adolescenza, con le sue crisi inevitabili, di carattere sia spirituale, sia corporale.
E anche se ovviamente avevo iniziato ormai a capire da tempo che tornare indietro non sarebbe stato possibile ed in fondo nemmeno auspicabile, nondimeno la dismissione di quella divisa rimase per lungo tempo uno dei sintomi per me più intensamente associati a quelle nuove e sconosciute crisi.