Riflettevo su di un’idea banalissima, ma fondamentale: la nostra identità è costruita per larghissima parte anche sulle cose percepite attraverso la visione. Con “identità” intendo tutto l’insieme di fattori esistenziali che prendiamo in considerazione nel momento in cui pensiamo al concetto di “io”, di “me stesso”.
L'identità come coscienza di sé, insomma, ha una larghissima componente visiva.
Io sono anche l’ambiente in cui mi muovo, sono le persone che frequento, le strade che percorro. Io sono anche il paesaggio che mi circonda, gli alberi, i fiori, gli edifici, sono i fiumi, i monti, il cielo. E tutti questi elementi sono a loro volta convogliati per larga parte verso me attraverso lo stimolo visivo da essi proiettato.
Fin qui nulla di speciale, sono considerazioni che vi poteva fare anche il primo fesso che incontravate per strada. Oggi, seppur virtualmente, vi è toccato d’incontrare me su questa strada telematica, così la parte del fesso la faccio io .
L’aspetto curioso del ragionamento tuttavia è sbucato fuori nel momento in cui ho pensato al “bianco e nero”. Con sommo stupore misto a freddo acume professorale, mi è venuto allora spontaneo prorompere fra me e me con la più classica delle esclamazioni accademiche: «…Minchia!!!...» mi sono detto, «…ma il bianco e nero non è sempre esistito...».
Il mondo è irrimediabilmente colorato e, in virtù del più puzzone dei paradossi, ci sono voluti secoli per arrivare a vederlo in bianco e nero. Ditemi voi se questa non è una bizzarria bella e buona, una stranezza degna di due innocue riflessioni e tre sapide fregnacce da riportare su “andarperpensieri”.
Più riflettevo sullo strano caso, più gli elementi anomali della mia breve indagine interiore si accumulavano. Sì, perché da una parte le sensazioni e le suggestioni legate al bianco e nero le associamo quasi spontaneamente ad un qualcosa che appartiene al passato. Un filmato, una foto in bianco e nero, da un punto di vista della pura “linea estetico-cronologica”, li consideriamo come soggetti che “vengono prima” rispetto ai corrispettivi omologhi colorati, perfezionati soltanto in una seconda fase.
Eppure per l’uomo, prima dell’invenzione di quel vecchio zio della fotografia vera e propria che andava sotto il nome di dagherrotipo, sarebbe stato del tutto inconcepibile ed innaturale vedere la realtà deprivata delle proprie specificazioni cromatiche.
Forte della convinzione che nella vita non è tanto importante trovare delle risposte, bensì sia ben più divertente e stimolante porsi delle domande, mi sono ritrovato a sguazzare in questo delicato dubbio: ma allora, il bianco e nero è una caratteristica che è giusto abbinare ad un sensazione di passato oppure appartiene più alla modernità?
La fotografia ed il cinema sono stati fenomenali strumenti di innovazione zampillati dalla ricerca dell’uomo per fare un passo avanti verso la modernità e tuttavia, per le iniziali limitazioni tecniche, questo passo avanti era obbligato ad essere mosso a partire da una rinuncia non da poco.
I colori andavano momentaneamente perduti, scivolavano via da addosso alle cose, rimanendo di pertinenza effettiva di queste ultime ed innescando nello stesso tempo un senso di connaturata nostalgia inseparabile dalle nuove immagini riproducibili
Il nuovo modo di “immaginare” in bianco e nero nasceva dunque portandosi appresso fin da subito una propria nostalgia interna per i colori abbandonati. Facendo un passo verso il “domani”, ci si ritrovava in qualche modo intrisi di “ieri”.
Certo, va anche precisato un aspetto importantissimo del discorso. Non è che con l’introduzione della fotografia, e del cinema poi, l’umanità veniva catapultata ex-abrupto, come se si partisse da una “fase zero” concettuale, nella dimensione del bianco e nero. Il “terreno estetico” in questo senso era stato precedentemente dissodato ben bene da diversi altri strumenti della riproducibilità per immagine. A replicare un mondo privo di colori ci avevano già pensato tecniche d’incisione e di stampa fra le più disparate (acquaforte, serigrafia, puntasecca, xilografia e così via, che fa pure rima…).
L’idea della riproduzione di soggetti privati della loro originaria cromia era stato patrimonio concettuale anche di altre espressioni artistiche “più dirette”, come la tecnica del carboncino, solo per fare un esempio banale, o altri modi di dipingere o “lasciare segni” ancor più primitivi (per banalizzare ancor di più, penso anche ai graffiti preistorici).
In aggiunta a tutto questo, si può menzionare la potente spallata inferta alla questione da un altro involontario evento che lentamente, nei secoli, si era insinuato fra le pieghe dei meccanismi estetici verso i quali l’uomo è sensibile. Parlo dell’idea di «classicità», una delle categorie fondamentali di tutta la “storia estetica umana”, che si è andata stranamente formando intorno ad un’erronea convinzione.
Quando pensiamo al termine “classico” in ambito artistico, non è difficile associarlo semi-automaticamente a scenari di rinuncia del colore: la candida plasticità delle state di Fidia o Prassitele, il fascino marmoreo dei templi dell'antica Grecia, ecc.
La cosa curiosa sta nel fatto che tutto ciò si fonda su di un equivoco capace di suscitare quasi il sorriso.
Quelle opere si sono infatti fatte largo fra i secoli per giungere sino a noi sulla scia di un clamoroso fraintendimento, perché in origine erano completamente colorate ed è stato solamente in virtù della beffarda mano del tempo, che ce le siamo ritrovate restituite nude nel loro biancore chiaroscurale.
Insomma, anche se ora per pura mia ignoranza in materia non mi vengono in mente esempi più illuminanti, è fuori di dubbio che il bianco e nero non è nato con la fotografia, né col cinema. Eppure la deprivazione cromatica non era probabilmente mai stata recepita in misura così netta e “tranciante”, come dal momento in cui quelle due tecniche a noi ormai più che familiari furono introdotte.
La novità delle prime foto e dei primi film ha sfiorato così efficacemente l'illusorietà di una riproduzione realistica da sottolineare in maniera mai prima sperimentata l'assenza di una delle componenti più potenti di quell'illusione, com'era quella del colore.
Ogni volta che l'uomo, prima dell'avvento della foto e del filmato, si era armato dell'intenzione di riprodurre per immagini la realtà, si era preoccupato per prima cosa dei colori, essi erano stati il suo pensiero più immediato. Ora, ecco che arrivavano invece queste due nuove tecniche capaci di imitare il mondo in una strabiliante maniera mai vista prima, ma che si perdevano per strada un ingrediente così basilare della loro magia.
E per aggiungere ancora solamente una piccola impressione personale estemporanea, non sarà allora un caso che quando sento una persona di 60 o 70 anni o più raccontare un aneddoto della propria gioventù, alla mia immaginazione viene spontaneo fabbricarsi degli ideali fotogrammi mentali in bianco e nero delle vicende ascoltate.
Chissà, forse è proprio in forza di tutte queste loro componenti storico-culturali che la foto o il fotogramma in bianco e nero ci affascinano tuttora così tanto. Forse è per quella loro tendenza a canzonarci con la temporalità illogica in essi contenuta fin dall'attimo in cui sono stati inventati, che ci sono sempre apparsi velati di un'aura di enigma.
Forse è perché ancora oggi, di fronte ad un immagine o ad un filmato in bianco e nero non sappiamo mai deciderci bene se siano sempre moderni benché poco attuali, oppure sempre attuali benché poco moderni.
Forse sarà un po' per tutti questi motivi, ma non venitelo a chiedere a me. Parafrasando infatti il poeta, seppur in tono molto più modesto, come già vi accennavo prima, «...io di risposte non ne ho, io faccio solo uòkk-enn-uòll...».
L'identità come coscienza di sé, insomma, ha una larghissima componente visiva.
Io sono anche l’ambiente in cui mi muovo, sono le persone che frequento, le strade che percorro. Io sono anche il paesaggio che mi circonda, gli alberi, i fiori, gli edifici, sono i fiumi, i monti, il cielo. E tutti questi elementi sono a loro volta convogliati per larga parte verso me attraverso lo stimolo visivo da essi proiettato.
Fin qui nulla di speciale, sono considerazioni che vi poteva fare anche il primo fesso che incontravate per strada. Oggi, seppur virtualmente, vi è toccato d’incontrare me su questa strada telematica, così la parte del fesso la faccio io .
L’aspetto curioso del ragionamento tuttavia è sbucato fuori nel momento in cui ho pensato al “bianco e nero”. Con sommo stupore misto a freddo acume professorale, mi è venuto allora spontaneo prorompere fra me e me con la più classica delle esclamazioni accademiche: «…Minchia!!!...» mi sono detto, «…ma il bianco e nero non è sempre esistito...».
Il mondo è irrimediabilmente colorato e, in virtù del più puzzone dei paradossi, ci sono voluti secoli per arrivare a vederlo in bianco e nero. Ditemi voi se questa non è una bizzarria bella e buona, una stranezza degna di due innocue riflessioni e tre sapide fregnacce da riportare su “andarperpensieri”.
Più riflettevo sullo strano caso, più gli elementi anomali della mia breve indagine interiore si accumulavano. Sì, perché da una parte le sensazioni e le suggestioni legate al bianco e nero le associamo quasi spontaneamente ad un qualcosa che appartiene al passato. Un filmato, una foto in bianco e nero, da un punto di vista della pura “linea estetico-cronologica”, li consideriamo come soggetti che “vengono prima” rispetto ai corrispettivi omologhi colorati, perfezionati soltanto in una seconda fase.
Eppure per l’uomo, prima dell’invenzione di quel vecchio zio della fotografia vera e propria che andava sotto il nome di dagherrotipo, sarebbe stato del tutto inconcepibile ed innaturale vedere la realtà deprivata delle proprie specificazioni cromatiche.
Forte della convinzione che nella vita non è tanto importante trovare delle risposte, bensì sia ben più divertente e stimolante porsi delle domande, mi sono ritrovato a sguazzare in questo delicato dubbio: ma allora, il bianco e nero è una caratteristica che è giusto abbinare ad un sensazione di passato oppure appartiene più alla modernità?
La fotografia ed il cinema sono stati fenomenali strumenti di innovazione zampillati dalla ricerca dell’uomo per fare un passo avanti verso la modernità e tuttavia, per le iniziali limitazioni tecniche, questo passo avanti era obbligato ad essere mosso a partire da una rinuncia non da poco.
I colori andavano momentaneamente perduti, scivolavano via da addosso alle cose, rimanendo di pertinenza effettiva di queste ultime ed innescando nello stesso tempo un senso di connaturata nostalgia inseparabile dalle nuove immagini riproducibili
Il nuovo modo di “immaginare” in bianco e nero nasceva dunque portandosi appresso fin da subito una propria nostalgia interna per i colori abbandonati. Facendo un passo verso il “domani”, ci si ritrovava in qualche modo intrisi di “ieri”.
Certo, va anche precisato un aspetto importantissimo del discorso. Non è che con l’introduzione della fotografia, e del cinema poi, l’umanità veniva catapultata ex-abrupto, come se si partisse da una “fase zero” concettuale, nella dimensione del bianco e nero. Il “terreno estetico” in questo senso era stato precedentemente dissodato ben bene da diversi altri strumenti della riproducibilità per immagine. A replicare un mondo privo di colori ci avevano già pensato tecniche d’incisione e di stampa fra le più disparate (acquaforte, serigrafia, puntasecca, xilografia e così via, che fa pure rima…).
L’idea della riproduzione di soggetti privati della loro originaria cromia era stato patrimonio concettuale anche di altre espressioni artistiche “più dirette”, come la tecnica del carboncino, solo per fare un esempio banale, o altri modi di dipingere o “lasciare segni” ancor più primitivi (per banalizzare ancor di più, penso anche ai graffiti preistorici).
In aggiunta a tutto questo, si può menzionare la potente spallata inferta alla questione da un altro involontario evento che lentamente, nei secoli, si era insinuato fra le pieghe dei meccanismi estetici verso i quali l’uomo è sensibile. Parlo dell’idea di «classicità», una delle categorie fondamentali di tutta la “storia estetica umana”, che si è andata stranamente formando intorno ad un’erronea convinzione.
Quando pensiamo al termine “classico” in ambito artistico, non è difficile associarlo semi-automaticamente a scenari di rinuncia del colore: la candida plasticità delle state di Fidia o Prassitele, il fascino marmoreo dei templi dell'antica Grecia, ecc.
La cosa curiosa sta nel fatto che tutto ciò si fonda su di un equivoco capace di suscitare quasi il sorriso.
Quelle opere si sono infatti fatte largo fra i secoli per giungere sino a noi sulla scia di un clamoroso fraintendimento, perché in origine erano completamente colorate ed è stato solamente in virtù della beffarda mano del tempo, che ce le siamo ritrovate restituite nude nel loro biancore chiaroscurale.
Insomma, anche se ora per pura mia ignoranza in materia non mi vengono in mente esempi più illuminanti, è fuori di dubbio che il bianco e nero non è nato con la fotografia, né col cinema. Eppure la deprivazione cromatica non era probabilmente mai stata recepita in misura così netta e “tranciante”, come dal momento in cui quelle due tecniche a noi ormai più che familiari furono introdotte.
La novità delle prime foto e dei primi film ha sfiorato così efficacemente l'illusorietà di una riproduzione realistica da sottolineare in maniera mai prima sperimentata l'assenza di una delle componenti più potenti di quell'illusione, com'era quella del colore.
Ogni volta che l'uomo, prima dell'avvento della foto e del filmato, si era armato dell'intenzione di riprodurre per immagini la realtà, si era preoccupato per prima cosa dei colori, essi erano stati il suo pensiero più immediato. Ora, ecco che arrivavano invece queste due nuove tecniche capaci di imitare il mondo in una strabiliante maniera mai vista prima, ma che si perdevano per strada un ingrediente così basilare della loro magia.
E per aggiungere ancora solamente una piccola impressione personale estemporanea, non sarà allora un caso che quando sento una persona di 60 o 70 anni o più raccontare un aneddoto della propria gioventù, alla mia immaginazione viene spontaneo fabbricarsi degli ideali fotogrammi mentali in bianco e nero delle vicende ascoltate.
Chissà, forse è proprio in forza di tutte queste loro componenti storico-culturali che la foto o il fotogramma in bianco e nero ci affascinano tuttora così tanto. Forse è per quella loro tendenza a canzonarci con la temporalità illogica in essi contenuta fin dall'attimo in cui sono stati inventati, che ci sono sempre apparsi velati di un'aura di enigma.
Forse è perché ancora oggi, di fronte ad un immagine o ad un filmato in bianco e nero non sappiamo mai deciderci bene se siano sempre moderni benché poco attuali, oppure sempre attuali benché poco moderni.
Forse sarà un po' per tutti questi motivi, ma non venitelo a chiedere a me. Parafrasando infatti il poeta, seppur in tono molto più modesto, come già vi accennavo prima, «...io di risposte non ne ho, io faccio solo uòkk-enn-uòll...».
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2 commenti:
io al bianco e nero associo un ragionamento un pochino diverso, mi spiego, ci pensavo proprio ieri, avevo letto su di un libro (dalla città nervosa) una frase a proposito dei rapporti tra cinema e letteratura, si diceva: "se in un libro si parla di una sedia ogni lettore la immaginerà a suo modo, un re penserà ad una sedia luigi XIV, un barbone ad una sedia sgangherata... se in un film compare una sedia, c'è solo quella sedia" ecco l'immagine in bianco e nero è una via di mezzo tra letteratura e cinema. è cinematografica nella forma e letteraria nel colore, un po' come i racconti dei vecchi :-)
bacini a pois
@->Farly: molto bella la tua interpretazione della questione, Farly...devo dire che stavolta sei stata molto più equilbrista dei pensieri di me :-)
Il bianco e nero rimane ad ogni modo molto misterioso per il suo fascino quasi nato involontariamente, per limitazioni tecniche iniziali, che hanno aggiunto un ingrediente particolare...e rimane anche il fatto che il bianco e nero è un frullatore di tempi :-) un funambolo cronologico :-)
Bacini su pellicola kodak :-)
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