«…Sono un abitudinario,
leggo la targhetta sopra l'ascensore:
qual è la capienza, quanti chili porta,
poi si apre la porta e non lo so già più...»
“Nubi di ieri sul nostro domani odierno” (“Abitudinario”)
Elio e le Storie Tese – 1989
Amici, ma voi vi sentite più mitologici o cinematografici?
«...eccolo là, ci siamo giocati il Gillipixel…ha puntato al lotto, perdendo, quei tre neuroni che gli avanzavano ed ora fluttua di felice inconsapevolezza nel regno dei “grandi affratellati”…».
No, ecco…l’interrogativo può apparire peregrino, ma di fatto potrebbe essere foriero di alcune interessanti riflessioni.
«…Certo, il più è capire di cosa minchia vai cianciando…» ribatterete ancora voi. Va beh, ma a questo siete ormai abituati e se mi concedete lo spazio di una paginetta, vado senza meno ad incominciare.
In realtà, le questioni annidate dietro al mio interrogativo d’apertura sono tali, tante e così complesse che meriterebbero una trattazione a livello universitario. Ma siccome immagino che non avrete tutto questo tempo a disposizione, vedrò di cavarmela con le solite tre fregnacce.
Quello di cui in sostanza si sta parlando qui, sono due differenti concezioni del tempo. Da una parte, il tempo interpretato come espressione di una ciclicità che continuamente si rinnova; dall’altra, il tempo visto come progressione lungo la quale nessun momento è mai uguale al precedente, né al successivo.
Sarebbe arduo andare a spulciare le origini culturali di queste due concezioni cronologiche. Forse uno più bravo di me vi saprebbe fare una bella ricostruzione storico-concettual-filologico-esegetica, ma per quanto ne so io, mi pare di poter dire che le fonti dei due modi d’intendere il tempo le possiamo ritrovare mescolate e non ben precisamente distinte un po’ nelle diverse culture.
Tanto per dirne una, la cultura greca contiene in sé il germe di entrambe le visioni, essendo stata la culla della filosofia, ma anche di uno degli “apparati” mitologici più complessi ed articolati di tutta la storia umana. Dai greci, passando anche per la filosofia, è derivata poi in qualche modo la stessa scienza, territorio di elezione del “tempo progressivo”, ma ne sono conseguite anche posizioni “eretiche” come il pensiero di Nietzsche, che si è cibato di nuovo del nutrimento del mito e del senso del ciclico ritorno delle ere, per non dimenticare i corsi e ricorsi di Vico (minchia, sto facendo carne di porco di duemila anni di cultura…).
Senza parlare poi delle abbondanti infarinate che la grande polpetta della storia ha ricevuto dalla lunga tradizione ebraico-cristiana, nell’ambito della quale la concezione di un tempo progressivo focalizzato ad un fine (la salvezza) si è ulteriormente arricchita ed articolata.
Per aggiungere ulteriore confusione al mio sunto già di per sé sufficientemente strampalato, posso inoltre ricordare come per altri versanti il senso della ciclicità del tempo sia stato paradossalmente rivalutato con le ultime frontiere della fisica dell’«infinitamente piccolo». Non chiedetemi di spiegarvi come sia possibile, ma pare, l'ho letto da qualche parte, che discendendo alle dimensioni infinitesimali delle particelle più elementari, il tempo che ritorna sui suoi passi non rappresenti un assurdo così palese, come accade invece all’interno del “macro-contorno” delle nostre esperienze di umani. Ebbene sì, cari amici viandanti per pensieri, pare proprio che una particella subatomica possa risalire l’orologio a ritroso, tornando indietro nel tempo.
Perché dunque ho parlato di mito e di cinema? Forse perché non c’era già abbastanza casino in ciò che ho detto finora? Forse anche per questo, ma in particolar modo perché credo che niente meglio di queste due fondamentali modalità narrative, nel loro “fare espressivo”, riesca ad entrare in sintonia coi modi essenziali del tempo ciclico (mito) e con quelli del tempo progressivo (cinema).
Nel mito (insieme ai suoi cugini più prossimi, quali possono essere la favola e la leggenda), il racconto è sempre fondato su certi capisaldi fissi ed immodificabili della storia raccontata, intorno ai quali si possono intessere leggere varianti, coloriture, sfumature di toni e di atmosfere, ma mantenendo sempre una generale fedeltà al narrato originario. In virtù di questa sua “natura”, il mito non solo tollera, ma addirittura quasi esige la ripetizione.
Nel cinema invece (anche se, per “necessità metaforiche” sto facendo ovviamente un discorso semplificato e forzatamente generalizzato), il materiale raccontato progredisce per accumulo nel corso della narrazione, che prevede un inizio ed una fine, come fossero gli estremi di un’immaginaria linea retta temporale. Nel cinema (perlomeno, di regola generale e confacente allo strumento espressivo è così, ma poi ci saranno di certo anche qui le eccezioni), il ritorno all’inizio della storia per ricominciare a raccontarla è una forzatura.
Certo, fa piacere anche rivedere un film, ma esso vive più che altro della magia della prima visione. Gli attimi spesi a vedere un film per la prima volta li viviamo di norma come un unicum irripetibile, mentre le visioni replicate, quando ci recano soddisfazione, non fanno altro che confermare un’anomala tendenza del film stesso in questione verso una propria “mitologizzazione”. Quando il film regge tante visioni ripetute, è forse per il fatto di possedere in sé le “potenzialità del mito”, della favola. Un film che amiamo rivedere è un mito travestito da lungometraggio.
Ma alla fine, quel che più interessa è come di fatto la duplice dimensione cronologica venga vissuta dentro di sé da ciascuna singola persona in una non meglio differenziata miscela esistenziale.
In tanti piccoli frangenti quotidiani, io stesso mi rendo conto di tendere talvolta alla dimensione del mito, e talaltra invece a quella filmica. Parlo proprio anche di questioni minimali, piccole inezie del vivere.
Aggiungiamo che probabilmente il fatto di essere “mitologici” oppure “cinematografici”, non ce lo possiamo scegliere. Sono forse propensioni a noi connaturate e allo stesso modo del coraggio di don Abbondio, il “mito” o il “cinema” non ce li possiamo dare da soli.
L’opinione dominante, la tendenza che maggiormente si è diffusa fra le pieghe della modernità, consiste in una preferenza generalmente accordata ad un’esistenza da vivere “cinematograficamente”. Praticamente noi tutti “viventi dell’oggi” siamo stati educati a considerare la ripetitività come un fattore negativo, atteggiamento al quale fa da contraltare una ben più consigliata tendenza a ricercare il nuovo, l’inedito, l’inaudito. La monotonia è temuta più di certi flagelli biblici, mentre l’inquieta indagine per scovare novità si prefigura come la terra promessa alla quale si dovrebbe tendere.
Vivere la vita “mitologicamente” tuttavia potrebbe rappresentare l’uovo di Colombo per il conseguimento di un certo stato di serenità ed equilibrio. L’uomo per sua natura, ma ancor più la donna (e non è una battuta…), sono esseri ampiamente “mitologici”.
Lo sono da un punto di vista spirituale, perché il nostro animo si nutre in primo luogo di certezze rinsaldate nel corso dell’esperienza vissuta. In fondo, legarsi ai propri affetti può essere visto come un ribadire i punti saldi della narrazione del proprio personale mito, ossia della propria vita stessa.
Volere veramente bene a qualcuno o a qualcosa (intendendo con “qualcosa”, ad esempio, un mestiere, un ambiente, il “paesaggio fisico” entro il quale spendere i propri giorni, e così via…) può essere visto come capacità di imparare a raccontare sempre meglio la favola della propria quotidianità. Sarò un grande ingenuo a dire così, ma io credo che possiamo innamorarci, e per davvero, solo quando sappiamo trovare sempre nuove fonti di interesse e di passione, in chi si ripete, e in ciò che si ripete, nella propria identità.
L’uomo è inoltre fortemente “mitologico” soprattutto dal punto di vista fisico. Il corpo è un racconto mitico i cui capisaldi narrativi s’imperniano sulla ciclicità “sonno-veglia”, “fame-sazietà”, “desiderio-chiav…ehm…appagamento”, e così via.
La stessa biologia, la stessa chimica della nostra fisicità sembrano volerci imbeccare verso tali significati. Durante il corso della propria vita, le cellule e gli atomi tutti di cui un umano è composto si rinnovano completamente diverse volte, eppure ciascuno rimane sempre il medesimo “racconto” che è stato e che sarà.
Mi guardo una mano, un piede, o qualsiasi altro arto o muscolo o dettaglio del mio corpo: li riconosco, mi sono familiari, sono gli stessi di quando ero bambino e poi ragazzo, e via via crescendo. Sono cambiati in dimensione e proporzioni, ma rimangono sempre la medesima parte di me che potevo osservare all’epoca, pur non essendoci probabilmente più dentro nemmeno un protone o un neutrone di allora.
Perché dovremmo dunque reputare saggio andare continuamente a caccia della novità assoluta a tutti i costi, quando tutta la nostra costituzione di umani ci suggerisce che siamo fatti per approfondire ciò che rimane stabile? A me pare che la via fondamentale da percorrere risieda nella ricerca di sempre ulteriori e più preziose sfumature da scandagliare nelle acque di quegli affetti primari fissati stabilmente come nostro orizzonte esistenziale.
Poi, certo, la tentazione di volere una vita spericolata come quelle dei film rimane sempre molto forte, ma ciascuno può fare in merito le proprie valutazioni e riflessioni del caso.
Insomma, care amiche e cari amici viandanti per pensieri, alla fine non lo so nemmeno io perché mi sono messo a straparlare di queste cose oggi.
Voi però fate così: la prossima volta che vi troverete magari a mostrare il vostro corpo in una piscina, o su una spiaggia, fregatevene dei timori estetici dettati da un filo di pancetta o da un po’ di sfumata cellulite. Fermate il primo che passa e proclamategli a gran voce: «…Questa mia persona è un mito!...». E non preoccupatevi per le conseguenze. Se vi guarderà un po’ stranito ed incredulo, vorrà dire che in sostanza il fesso rimane pur sempre lui.
leggo la targhetta sopra l'ascensore:
qual è la capienza, quanti chili porta,
poi si apre la porta e non lo so già più...»
“Nubi di ieri sul nostro domani odierno” (“Abitudinario”)
Elio e le Storie Tese – 1989
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Amici, ma voi vi sentite più mitologici o cinematografici?
«...eccolo là, ci siamo giocati il Gillipixel…ha puntato al lotto, perdendo, quei tre neuroni che gli avanzavano ed ora fluttua di felice inconsapevolezza nel regno dei “grandi affratellati”…».
No, ecco…l’interrogativo può apparire peregrino, ma di fatto potrebbe essere foriero di alcune interessanti riflessioni.
«…Certo, il più è capire di cosa minchia vai cianciando…» ribatterete ancora voi. Va beh, ma a questo siete ormai abituati e se mi concedete lo spazio di una paginetta, vado senza meno ad incominciare.
In realtà, le questioni annidate dietro al mio interrogativo d’apertura sono tali, tante e così complesse che meriterebbero una trattazione a livello universitario. Ma siccome immagino che non avrete tutto questo tempo a disposizione, vedrò di cavarmela con le solite tre fregnacce.
Quello di cui in sostanza si sta parlando qui, sono due differenti concezioni del tempo. Da una parte, il tempo interpretato come espressione di una ciclicità che continuamente si rinnova; dall’altra, il tempo visto come progressione lungo la quale nessun momento è mai uguale al precedente, né al successivo.
Sarebbe arduo andare a spulciare le origini culturali di queste due concezioni cronologiche. Forse uno più bravo di me vi saprebbe fare una bella ricostruzione storico-concettual-filologico-esegetica, ma per quanto ne so io, mi pare di poter dire che le fonti dei due modi d’intendere il tempo le possiamo ritrovare mescolate e non ben precisamente distinte un po’ nelle diverse culture.
Tanto per dirne una, la cultura greca contiene in sé il germe di entrambe le visioni, essendo stata la culla della filosofia, ma anche di uno degli “apparati” mitologici più complessi ed articolati di tutta la storia umana. Dai greci, passando anche per la filosofia, è derivata poi in qualche modo la stessa scienza, territorio di elezione del “tempo progressivo”, ma ne sono conseguite anche posizioni “eretiche” come il pensiero di Nietzsche, che si è cibato di nuovo del nutrimento del mito e del senso del ciclico ritorno delle ere, per non dimenticare i corsi e ricorsi di Vico (minchia, sto facendo carne di porco di duemila anni di cultura…).
Senza parlare poi delle abbondanti infarinate che la grande polpetta della storia ha ricevuto dalla lunga tradizione ebraico-cristiana, nell’ambito della quale la concezione di un tempo progressivo focalizzato ad un fine (la salvezza) si è ulteriormente arricchita ed articolata.
Per aggiungere ulteriore confusione al mio sunto già di per sé sufficientemente strampalato, posso inoltre ricordare come per altri versanti il senso della ciclicità del tempo sia stato paradossalmente rivalutato con le ultime frontiere della fisica dell’«infinitamente piccolo». Non chiedetemi di spiegarvi come sia possibile, ma pare, l'ho letto da qualche parte, che discendendo alle dimensioni infinitesimali delle particelle più elementari, il tempo che ritorna sui suoi passi non rappresenti un assurdo così palese, come accade invece all’interno del “macro-contorno” delle nostre esperienze di umani. Ebbene sì, cari amici viandanti per pensieri, pare proprio che una particella subatomica possa risalire l’orologio a ritroso, tornando indietro nel tempo.
Perché dunque ho parlato di mito e di cinema? Forse perché non c’era già abbastanza casino in ciò che ho detto finora? Forse anche per questo, ma in particolar modo perché credo che niente meglio di queste due fondamentali modalità narrative, nel loro “fare espressivo”, riesca ad entrare in sintonia coi modi essenziali del tempo ciclico (mito) e con quelli del tempo progressivo (cinema).
Nel mito (insieme ai suoi cugini più prossimi, quali possono essere la favola e la leggenda), il racconto è sempre fondato su certi capisaldi fissi ed immodificabili della storia raccontata, intorno ai quali si possono intessere leggere varianti, coloriture, sfumature di toni e di atmosfere, ma mantenendo sempre una generale fedeltà al narrato originario. In virtù di questa sua “natura”, il mito non solo tollera, ma addirittura quasi esige la ripetizione.
Nel cinema invece (anche se, per “necessità metaforiche” sto facendo ovviamente un discorso semplificato e forzatamente generalizzato), il materiale raccontato progredisce per accumulo nel corso della narrazione, che prevede un inizio ed una fine, come fossero gli estremi di un’immaginaria linea retta temporale. Nel cinema (perlomeno, di regola generale e confacente allo strumento espressivo è così, ma poi ci saranno di certo anche qui le eccezioni), il ritorno all’inizio della storia per ricominciare a raccontarla è una forzatura.
Certo, fa piacere anche rivedere un film, ma esso vive più che altro della magia della prima visione. Gli attimi spesi a vedere un film per la prima volta li viviamo di norma come un unicum irripetibile, mentre le visioni replicate, quando ci recano soddisfazione, non fanno altro che confermare un’anomala tendenza del film stesso in questione verso una propria “mitologizzazione”. Quando il film regge tante visioni ripetute, è forse per il fatto di possedere in sé le “potenzialità del mito”, della favola. Un film che amiamo rivedere è un mito travestito da lungometraggio.
Ma alla fine, quel che più interessa è come di fatto la duplice dimensione cronologica venga vissuta dentro di sé da ciascuna singola persona in una non meglio differenziata miscela esistenziale.
In tanti piccoli frangenti quotidiani, io stesso mi rendo conto di tendere talvolta alla dimensione del mito, e talaltra invece a quella filmica. Parlo proprio anche di questioni minimali, piccole inezie del vivere.
Aggiungiamo che probabilmente il fatto di essere “mitologici” oppure “cinematografici”, non ce lo possiamo scegliere. Sono forse propensioni a noi connaturate e allo stesso modo del coraggio di don Abbondio, il “mito” o il “cinema” non ce li possiamo dare da soli.
L’opinione dominante, la tendenza che maggiormente si è diffusa fra le pieghe della modernità, consiste in una preferenza generalmente accordata ad un’esistenza da vivere “cinematograficamente”. Praticamente noi tutti “viventi dell’oggi” siamo stati educati a considerare la ripetitività come un fattore negativo, atteggiamento al quale fa da contraltare una ben più consigliata tendenza a ricercare il nuovo, l’inedito, l’inaudito. La monotonia è temuta più di certi flagelli biblici, mentre l’inquieta indagine per scovare novità si prefigura come la terra promessa alla quale si dovrebbe tendere.
Vivere la vita “mitologicamente” tuttavia potrebbe rappresentare l’uovo di Colombo per il conseguimento di un certo stato di serenità ed equilibrio. L’uomo per sua natura, ma ancor più la donna (e non è una battuta…), sono esseri ampiamente “mitologici”.
Lo sono da un punto di vista spirituale, perché il nostro animo si nutre in primo luogo di certezze rinsaldate nel corso dell’esperienza vissuta. In fondo, legarsi ai propri affetti può essere visto come un ribadire i punti saldi della narrazione del proprio personale mito, ossia della propria vita stessa.
Volere veramente bene a qualcuno o a qualcosa (intendendo con “qualcosa”, ad esempio, un mestiere, un ambiente, il “paesaggio fisico” entro il quale spendere i propri giorni, e così via…) può essere visto come capacità di imparare a raccontare sempre meglio la favola della propria quotidianità. Sarò un grande ingenuo a dire così, ma io credo che possiamo innamorarci, e per davvero, solo quando sappiamo trovare sempre nuove fonti di interesse e di passione, in chi si ripete, e in ciò che si ripete, nella propria identità.
L’uomo è inoltre fortemente “mitologico” soprattutto dal punto di vista fisico. Il corpo è un racconto mitico i cui capisaldi narrativi s’imperniano sulla ciclicità “sonno-veglia”, “fame-sazietà”, “desiderio-chiav…ehm…appagamento”, e così via.
La stessa biologia, la stessa chimica della nostra fisicità sembrano volerci imbeccare verso tali significati. Durante il corso della propria vita, le cellule e gli atomi tutti di cui un umano è composto si rinnovano completamente diverse volte, eppure ciascuno rimane sempre il medesimo “racconto” che è stato e che sarà.
Mi guardo una mano, un piede, o qualsiasi altro arto o muscolo o dettaglio del mio corpo: li riconosco, mi sono familiari, sono gli stessi di quando ero bambino e poi ragazzo, e via via crescendo. Sono cambiati in dimensione e proporzioni, ma rimangono sempre la medesima parte di me che potevo osservare all’epoca, pur non essendoci probabilmente più dentro nemmeno un protone o un neutrone di allora.
Perché dovremmo dunque reputare saggio andare continuamente a caccia della novità assoluta a tutti i costi, quando tutta la nostra costituzione di umani ci suggerisce che siamo fatti per approfondire ciò che rimane stabile? A me pare che la via fondamentale da percorrere risieda nella ricerca di sempre ulteriori e più preziose sfumature da scandagliare nelle acque di quegli affetti primari fissati stabilmente come nostro orizzonte esistenziale.
Poi, certo, la tentazione di volere una vita spericolata come quelle dei film rimane sempre molto forte, ma ciascuno può fare in merito le proprie valutazioni e riflessioni del caso.
Insomma, care amiche e cari amici viandanti per pensieri, alla fine non lo so nemmeno io perché mi sono messo a straparlare di queste cose oggi.
Voi però fate così: la prossima volta che vi troverete magari a mostrare il vostro corpo in una piscina, o su una spiaggia, fregatevene dei timori estetici dettati da un filo di pancetta o da un po’ di sfumata cellulite. Fermate il primo che passa e proclamategli a gran voce: «…Questa mia persona è un mito!...». E non preoccupatevi per le conseguenze. Se vi guarderà un po’ stranito ed incredulo, vorrà dire che in sostanza il fesso rimane pur sempre lui.
5 commenti:
io mi sento un film che racconta un mito... come mi colloco?
del mito però bisogna vedere ciò che è buono, funzionale, invece ciò che è ripetizione dolorosa e stupida va eliminato, a questo servono le novità, a pulire il mito, a imparare a raccontare la storia con voce diversa.
baci mitologici
@->Farly: eheheheh :-) purtroppo (o per fortuna) non credo che ci sia una ricetta, Farly :-)
Certo, dici bene poi...approfondire il mito vuol dire anche scremare le parti negative :-)
Alla fine, tutto sommato forse è meglio essere film mitici, hai ragione :-)
Bacini a fotogrammi...anzi no: a fotochili :-D minchia, questa è tremenda :-D ahahahahah
in effetti anche blogspot disapprova la battuta dicendo sesseet... lo vedo lì con il ditino alzato che ammonisce :-D
ecco se tu dovessi scegliere di essere un film-mitico quale sceglieresti?
io sono incerta o meglio, certi giorni mi sento blade runner, altri 2001 odissea nello spazio, altri ancora il te' nel deserto... ma di solito mi sento il dittatore dello stato libero di bananas ...
bacini cinofili
ups volevo dire cinefili :-D
@->Farly: ehehehehe, probabilmente andava bene anche cinofili, Farly :-)
Non ti saprei dire di preciso quale film mitico mi piacerebbe essere :-) anche perchè stranamente capita che i film più mitici per me, ossia intesi come quelli che più amo rivedere, non sempre sono dei capolavori :-)
Ad esempio: i due di Trinità e in genere tutti quelli di Bud Spencer e Terence Hill :-) tutta la filmografia di Bruce Lee :-) e poi, esagero, anche alcune vaccatone con Steven Seagal, tipo trappola in alto mare :-D
Però, se dovessi dire proprio un film mitico "mio" è Birdy di Alan parker, con Mattew Modine :-)
Bacini con le ali :-)
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