«…Pur con gl’infiniti suoi difetti, evviva l’Italia, per Dio!!!...»
Gillipixel – 17 marzo 2011
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Tutti abbiamo presente la magia sprigionata dall’atto di mettersi a leggere un nuovo libro.
Parlo di quel senso di iniziazione assoluta e sempre rinnovata che ogni volta ci fa sentire come dinnanzi allo spalancarsi di un’inedita avventura, tutta da assaporare proiettandola fra i territori di un mondo mentale ed emotivo “a venire”, ma sul momento ancora completamente sconosciuto.
Prendiamo in mano il nostro bel volumetto, lo soppesiamo, ci lasciamo accarezzare i polpastrelli dalla consistenza della copertina e dal “ruvidìo” della risacca zigrinata che possiamo far schiumeggiare a tenere ondate a partire dalle tre estremità scoperte delle pagine. Poi passiamo ad aprire l’intonso mistero lì racchiuso, con un gesto non molto dissimile dal fatidico disvelamento di una nudità fino ad un attimo prima rimasta celata dietro il dolce tormento di un succulento desiderio.
Magari ci affondiamo pure il naso, fra le pagine, colmandoci le narici di quello stupore necessario a rimanere ancora un attimo in sospeso, a rimandare ancora per qualche istante il piacere vero e proprio della lettura.
Poi finalmente possiamo “metterci in bocca” l’incipit, farlo nostro pronunciando mentalmente le parole che lo compongono. E, certo, ogni parte di un libro bello ci sarà cara, ma forse mai più, durante la lettura di tutto il resto delle frasi in esso contenute, riusciremo ad assaporare una “sensazione di possibilità” simile.
La consapevolezza così forte di uno stato in cui “tutto potrebbe ancora essere”.
In poche parole, la percezione di una dimensione di libertà d’animo così sconfinata.
Se nel momento di iniziare la sfida con una nuova lettura, tutte queste impressioni, pur nella confusione raffazzonata con cui ho tentato di riportarle, si presentano di tale vivida portata, non ho mai dimenticato quanto esse risultassero di molte volte amplificate ai tempi della scuola, allorché si trattava di affrontare “in duello” addirittura un’intera nuova materia.
Le prime pagine del libro di una materia nuova, lette nei primi giorni di un inizio anno scolastico: una delle sensazioni di libertà più forti mai provate in tutta la vita.
Se si trattava di matematica, potenzialmente e a pieno diritto tu potevi sentirti “ancora e già” un matematico con tutti i crismi. Lo stesso nel caso della fisica, o della geometria, o del latino, della storia. Le vere difficoltà sarebbero giunte successivamente e per il momento non ce ne fregava poi un granché. Per intanto, potevamo ancora darci del tu con l’autore, trattarlo alla pari, che la complessità da lui introdotta era ancora alla nostra portata, più che abbordabile.
Le maledizioni e gli accidenti erano ancora ben là da venire, sarebbero arrivati in seguito, andando sul difficile di ciascuna disciplina, ma quella sarebbe stata un’altra storia, da pensarci dopo…
In particolare, questo fascino da “iniziato culturale” l’ho sempre sentito in modo molto intenso affrontando una materia che sarebbe divenuta poi a me molto cara, la storia dell’arte (e, portate pazienza, ma quanto scritto finora era solamente una faloppa introduzione: da qui in avanti, passo a dire ciò che effettivamente volevo raccontare oggi…).
Praticamente tutti i manuali di storia dell’arte iniziavano (ed iniziano tuttora) con le pitture rupestri preistoriche. C'erano sempre le foto di quei tre o quattro “bisontini” stilizzati sulla parete di una grotta, quelle piccole mandrie di alci o cervi riassunti in alcuni “stecchini neri” tracciati a carbone, e il testo c’informava che nella mente dei nostri remoti antenati quelle raffigurazioni di animaletti avevano il valore di una sorta di magica appropriazione della realtà stessa: nel graffito, nostro nonno del pleistocene credeva che ci fosse dentro la bestiola vera e propria, in ciccia e pelliccia .
Noi leggevamo e prendevamo la faccenda per buona, anche senza capirci dentro più di tanto. Cosa importava, infatti? Era ancora l’epoca in cui all’Argan potevamo dare del tu come ad un vecchio zio, godendoci per il momento la nostra beata incoscienza di saputelli confinati fra quelle prime pagine e fra quei primi giorni di scuola. E chiudendo di fretta il testo, correvamo di filata al campetto per dare due calci al pallone o fare qualche tiro a canestro: ci avremmo pensato più tardi a preoccuparci, una volta giunti più o meno all’altezza dei bizantini o del periodo gotico.
Solo in seguito però mi sono reso conto, o perlomeno, così mi pare di aver capito (e in particolare mi è venuto da rifletterci proprio stamattina…sempre per via del fatto di non avere una strabeata fava di meglio a cui pensare…), che iniziare una storia dell’arte dai graffiti rupestri significa in qualche modo “prendere su” il discorso nel punto in cui è già iniziato da un bel po’ di tempo.
Nel tentativo di ristabilire in qualche modo le proporzioni storio-socio-cultural-etno-grafiche, credo che si debba andare a scavare molto più a fondo per trovare il primo mattone dell’edificio della conoscenza e di un primo abbozzo di consapevolezza estetica, riportandolo al momento dell’acquisizione da parte dell’uomo dell’atto del “significare”. Ora, l’uso di termini precisi, quando ci si addentra nella complessità di questi temi è sempre problematico. Parlo di “momento dell’acquisizione” per capirci velocemente, ma è normale che si sarà trattato di secoli se non di millenni di tempo.
Quale fu il “quid differenziale” che consentì all’uomo di distaccarsi dalla dimensione animale esclusiva in cui aveva sguazzato fino a pochi minuti prima? Come avvenne che il nostro lontanissimo bisnonno si cavò fuori dallo stato di natura, cominciando ad essere anche individuo di cultura?
Quando fu insomma che l’uomo divenne tale, mettendo nell’armadio la pelliccia animalesca per indossare i panni di una completa coscienza di sé e del suo “essere nel mondo”, portandosi a casa (con una sorta di “paghi uno prendi due” preistorico) anche il senso della irrimediabile finitezza insita nella propria condizione?
Per cercare di rispondere a queste domande “facili facili”, è utile a mio parere introdurre a questo punto una similitudine (tanto per fare ancora un po’ più di casino, che non ce n’era già abbastanza…).
L’uomo iniziò a poter essere chiamato veramente “uomo” dal momento in cui (e si parla sempre di momenti lunghi millenni, intendiamoci…) si addentrò sempre più nella paradossale illusione di riuscire ad essere un “possessore posseduto”. E questo momento ha coinciso con l’acquisizione della facoltà, della capacità, della consapevolezza, di saper “significare” le cose.
Quando l’uomo capisce che un “segno” è in grado di fare le veci della “cosa” significata, egli sente di poter in qualche maniera possedere il mondo. Ma si tratta pur sempre di un possesso paradossale, perché elevandosi al di sopra della natura attraverso i segni, l’uomo non può evitare di continuare ad essere parte di quella stessa natura.
Il “segno” non potrà mai essere un’etichetta appiccicata alla sua “cosa” di pertinenza, bensì “segno” e “cosa” nominata rimangono per sempre un unicum inscindibile. Il primordiale atto del significare umano (che ci portiamo ancora appresso tale e quale ancora oggi, come millenaria eredità fondativa del nostro essere “animali culturali”) può essere visto come un sostanziale atto sospeso a metà fra l’eroico ed il disperato, compiuto da un essere nel tentativo di innalzarsi, di cavarsi fuori, da un senso di realtà nella quale è invece irrimediabilmente ed inevitabilmente sempre immerso.
Sintetizzando proprio alla “bruto boia”: la cultura è illusione di possesso del mondo, che a sua volta continua sotto sotto a possedere noi.
Nella speranza di essere più chiaro (ma nella quasi certezza di non riuscirci), introduco ora la similitudine cui facevo cenno poco fa.
Vi rallegri almeno il fatto che questo mio metaforizzare si servirà di immagini tratte dall’ambito dell’amore fisico, del “fare all’ammòòre”. Quando si parla di pratiche erotiche o di accoppiamenti carnali che dir sì voglia, mi ha sempre incuriosito, causandomi anche qualche sorriso, lo strano vezzo di dire secondo il quale in quei dilettevoli frangenti sarebbe l’uomo a “possedere” la donna.
Adesso, non è certo questa la sede adatta per agevolare certi ripassi circa il funzionamento della “meccanica erotica”, ma se fate un attimo mente locale, concentrandovi proprio sul dettaglio anatomico più direttamente interessato, non potrete far altro che arrendervi ad una certa evidenza geometrica dei fatti.
Quando una sagoma cilindrica viene inghiottita da una cavità modellata più o meno nelle misure opportune ad accoglierla (d’accordo, c’è sempre anche chi lamenta fastidiose incompatibilità dimensionali, ma questo è un altro ragionamento…), l’ultima cosa che mi sembra di poter dire è che quel cilindro sta “possedendo” il proprio ricettacolo.
Sarebbe un po’ come scavare nel suolo un bel buco delle dimensioni giuste per accogliere il mio braccio, infilarcelo poi dentro fino all’ascella, e sostenere che sto “possedendo” la Terra.
Sarebbe come immaginare di essere presi nel pungo di un gigante dalle mani enormi il giusto per agguantarci alla perfezione, e sostenere di stare “possedendo” quel gigante stesso.
Sarebbe come essere uno dei tanti animali preistorici, mettersi un bel giorno a nominare la “cose” del mondo abbinandole a dei “segni” corrispondenti, e con quel primigenio atto culturale, pretendere di stare “possedendo” il mondo stesso, esigendo per di più, da quel momento in poi, di venir chiamato “uomo”.
Forse questa mia metafora introduce un’operazione ermeneutica troppo stiracchiata lungo i millenni, un funambolismo filologico-esistenziale troppo esagerato, per poter essere attendibile, coprendo un lasso di tempo che va dalla preistoria fino a noi. Un po’ come succede quando si pela “a spirale” una mela col coltello e difficilmente si riesce a cavarsela, nel percorso dal picciolo al fondo, con una sola striscia di buccia intatta.
Nonostante tutto però non ci costa nulla seguire la suggestione in virtù della quale in simili ragionamenti risieda il nucleo del “mistero di senso” celato nelle bestiole raffigurate attraverso le pitture rupestri: l’uomo era ormai divenuto uomo, ossia un illuso “possessore posseduto”, del mondo e dal mondo.
Per confondere ulteriormente le acque, mi sai concessa una citazione:
«…Immaginiamo di ritagliare dal giornale di oggi la fotografia della nostra diva o del nostro giocatore preferiti. Ci farebbe piacere prendere un ago e trapassar loro gli occhi? Sarebbe per noi altrettanto indifferente che bucare un qualunque altro punto del giornale? Credo di no.
Benché a mente lucida mi renda benissimo conto che un simile gesto contro il ritratto non può fare il minimo male al mio amico o al mio eroe, tuttavia, all'idea di compierlo, avverto una vaga ripugnanza. Sopravvive, chissà dove, l'assurda sensazione che ciò che viene fatto al ritratto viene fatto alla persona che esso rappresenta...».
"La storia dell'arte" - E.H. Gombrich - 1950
Ma come ho già accennato sopra, sono convinto che tutto ebbe inizio molto prima delle pitture rupestri. A quel punto l’uomo era già un esperto “significatore”, era un creatore di segni già bello e che scafato.
Tutto deve essere invece cominciato un bel giorno (anche questo durato dei secoli, suppongo sempre io…) di un bel po’ di tempo addietro. L’uomo non si poteva ancora definire tale, essendo uno dei tanti animali esistenti all’epoca: per il momento era ancora “tutto grugniti ed istintivo” (minchia, questa è terribile: che Brian De Palma abbia misericordia di me!...).
Doveva essersi satollato copiosamente di frutti succosi e dolcissime acque di ruscello quel giorno, il nostro bis-miliardis-nonno, tanto che nel giro di non tanti minuti lo aveva colto un’urgenza di alleggerirsi dei liquidi eccedenti. Dietro le fresche frasche si era così accomodato a fare due generosi zampilli, quando si avvide di come la bizzarria del caso, complice l’irrequietezza particolarmente possente del proprio sciabordio inguinale, aveva disegnato sulla rena una curiosa sagoma.
Gli ricordava vagamente un qualcosa visto da qualche parte, un albero, una collinetta, un fiore, una foglia, un insetto o un’altra bestia, e la mente gli corse allora ad una simile esperienza avuta osservando le nubi assumere sotto la forza plasmante della brezza mille forme cangianti, anch’esse riecheggianti cose diverse, viste nel mondo.
Saranno passati poi molti altri giorni (sempre di quei giorni millenari là…), e un bel pomeriggio, sempre lui, l’uomo, dopo aver trascorso diversi quarti d’ora in lieta compagnia della propria femmina, dilettandosi in faccende di cilindri e corrispettive cavità, si era magari ritrovato a cincischiare distratto col dito sul polveroso suolo, all’imboccatura della sua caverna.
Gli erano bastati allora pochi attimi (anche questi durati non meno di qualche lustro, in ogni caso…), giusto il tempo necessario a riaversi dalla sbornia sensuale, per accorgersi di come le tracce della punta del dito, strisciata sull’abbondante pulviscolo sul quale adagiava il preistorico deretano, continuamente cancellabili e ricreabili, non facevano altro che comportarsi alla stregua delle nubi nel cielo o delle proprie imprevedibilità corporali.
Con una differenza fondamentale, però: in questo caso non erano più l’aleatorietà degli esiti grafici di una pisciata o il capriccio del vento a reggere le redini del gioco. Questa volta era il suo dito a dettare le regole, guidato da ciò che, nel contempo, l'uomo andava in quel modo gradualmente conoscendo come “il proprio pensiero”.
Se ne sarà accorto a quei tempi, il nostro beneamato bis-miliardis-nonno che si stava avventurando in una faccenda parecchio intricata, un guazzabuglio dove ci si addentrava per possedere, ma se ne usciva in qualche modo anche posseduti?
Sinceramente non credo che gliene fregasse poi tanto, perché era ancora alle prime pagine nella lettura del grande libro dell'uomo, ed a quei tempi era troppo preso dall'assaporarne l'incipit.
5 commenti:
Bellissimo post, Gilli, condivido tutto quello che hai scritto (e al solito, mi ripeto...:))) )
Le pitture rupestri sono così moderne da sembrare già futuro - come i moai dell'Isola di Pasqua, se ci pensi, mi sembra sempre che vengano dallo spazio.
Il piacere di iniziare un libro nuovo, poi, è il piacere perfetto: talmente delizioso che inizierei libri continuamente (il problema è finirli...):))))
E poi ti abbraccerei per quello che hai detto sul possedere e sull'essere posseduti...le donne lo sanno dalla notte dei tempi e solo alcuni uomini lo sussurrano, ma noi siamo sempre state la terra che vi accoglie, nutre e sostiene...anche se possiamo ben poco senza i vostri fili d'erba che crescono su di noi...:)))))com'è bella la natura che ci fa capire quanto sia leggera, in realtà, la nostra essenza.
Grazie, grazie, Vale :-) sei troppo carina, come da tua bella consuetudine...mi prendo con grande lusinga il tuo abbraccio virtuale :-)
E' buffa in effetti (e fa un po' anche incazzare...) la confusione verbale che ancora regna intorno ad una faccenda che fra uomini e donne intercorre ormai da un discreto numero di anni :-)
Secondo me, quando si fanno bene le cose, nessuno possiede mai nessuno, ma ciascuno si dà all'altro, nella gioia di ricevere e di essere ricevuto :-)
Questa poi te la devo proprio raccontare: non ci crederai, ma spotty stavolta mi dice ploust...sì, Ploust!!! Proprio lui!!! :-) Il celeberrimo autore cinese di quel capolavoro della letteratura mondiale intitolato "Alla licelca del tempo pelduto" :-)
Bacini naturali ed essenziali :-)
:))))))Il melaviglioso Ploust!
Spotty è una fonte d'ispirazione, sempre...:))))
comincio dal fondo: hai scelto una delle mie canzonette preferite da sempre, poi mi hai evocato sogni rupestri da dito ne naso e nel colore fino ad arrivare all'idea molto cabalistica del nominare... e per finire, blogspot dice prousyn, mentre io brindo a uno dei tuoi migliori sproloqui da sempre :-)
bacini rupestri
@->Farly: eheheheheh, prousyn a te, cara Farly :-) ehm, in effetti stavolta ci ho dato dentro davvero in fatto di bizzarria mentale...a volte mi domando se esagero...ma poi mi rispondo: certo che esagero, è lì il suo bello :-D
Grazie, sono proprio contento di aver sfiorato le tue personali suggestioni :-)
Bacini con un gggiùbòx che suonava :-)
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