martedì 5 luglio 2011

Teleselezione naturale


Credo che di fronte a certi strumenti della modernità, non smetterò mai di provare impressioni e sentori di fondo simili a quelli di un selvaggio primitivo, mezzo impaurito e mezzo affascinato, nella sua animata e fantastica percezione del mondo, da diavolerie inzeppate di spiriti ed entità misteriose.

In questo senso, il mio più grande tabù tecnologico è sempre stato il telefono.

Ripensavo un po’ a questo fatto nei giorni scorsi, dopo aver ricevuto una telefonata da uno di quei colleghi che non disdegnano il molesto vezzo di replicare al tuo “…pronto?...” di circostanza, con mozziconi e lacerti di un’altra conversazione nel frattempo già intrapresa, sul breve intervallo dei tre o quattro squilli intercorsi, con altri suoi vicini di scrivania, lasciandoti per alcuni secondi in mezzo al guado dell’incertezza comunicativa.

E’ stata proprio l’usuale amletica titubanza che mi coglie in questi casi, in bilico fra l’opzione del pazientare con educata disposizione d’animo e la drastica alternativa di avvalermi della legittima facoltà del “fanculare” in libertà, a farmi meditare sul mio atavico e controverso rapporto con la cornetta.

Saldamente innestati nella consuetudine “campagnolistica” più ancestrale, a casa mia, fino a che son stato bambino e poi anche un po’ oltre, non abbiamo mai avuto il telefono. “Villa Pixel” non è mai stata un crocevia di informazioni talmente trafficato da far nascere l’esigenza di avere a portata di mano quella bizzarra protuberanza “auricolo-vocale”. Le cose più importanti da dire erano per lo più riservate alle tre o quattro famiglie affacciate sul cortile comune, e per loro era sufficiente dare una voce più vigorosa del solito, che subito qualcuno si presentava alla porta per sapere se c’era bisogno.

Per eventuali contatti coi parenti di città, c’era la cabina telefonica pubblica, in uno dei bar del paese. Nella mia fantasia di bambino, la vedevo come una sorta di capsula spaziale a tenuta stagna, dentro la quale ci si isolava dal mondo, immersi in uno strano odore ovattato, un misto di afrori plastici, aromi metallici ed in parte anche profusioni umane di varia natura. Non che io ci abbia mai parlato veramente dentro a quella cornetta comunitaria, però alcune volte mi capitò di accompagnare qualche adulto della famiglia.

In quei casi, si verificava sempre questa piccola magia del passaggio dal frastuono ciarliero perennemente aleggiante intorno alla verde chiazza del panno da biliardo, all’attutito antro di contatto con le care persone che vivevano lontano. La pesante porta si chiudeva con un fruscio soffiato ed io mi ritrovavo sotto l’ala protettrice dell’adulto di turno, a contare i forellini sulle pareti di lamiera, cogliendo qua e là frammenti di quella conversazione nata lontano, che non sempre comprendevo fino in fondo.

Quando si presentava invece la necessità di dare adito al flusso comunicativo nella direzione opposta, ossia dal mondo verso “Villa Pixel”, ne potevano nascere anche episodi buffi. Un giorno eravamo tutti nel campetto vicino a casa, a ripulire con la zappa le neonate pianticelle di melica (leggi “mais”), nella mal riposta speranza di farle fruttare novemila lire in perdita, anziché le solite quindicimila, quand’ecco che sul limitare dell’orizzonte “granoturchese” si affaccia il figlio del barista. Nelle mie reminiscenze bambinesche, costui è sempre rimasto impresso come una classica “icona anni ‘70”, una via di mezzo fra un cugino di ottavo grado dei Bee Gees ed il protagonista dell’improbabile pellicola «Gillipixiland violenta: i bifolchi sparano letame, la polizia risponde picche».

Zazzera fluente e camicia quasi sempre spalancata sull’irsuto zerbino pettorale, lo potevi vedere indifferentemente assiepato dietro il bancone del locale, oppure mentre inforcava la sua rimbombante Ducati tutta cromature e pellami di guarnizione, sempre sfoderando il medesimo sguardo assente d’ordinanza, semi nascosto dietro il sipario dell’abbondante ciuffo.

C’era stata una chiamata per noi alla cabina pubblica e il figlio del barista veniva a riferirlo a mio babbo. La cosa fantastica però fu che nella sua “volpesca” sveltezza, non si era annotato né chi aveva chiamato, né da dove, né si era fatto riferire uno straccio di argomento attraverso cui poter avere una minchia d’indizio da riuscire, eventualmente, a richiamare. L’unica acutissima indicazione che riuscì a fornire, rifulgendo nel massimo candore del suo proto-moderno medievalismo post-sessantottino, fu riassunta tutta in questa sua frase: «…i’ parevan lé svéń…» («…sembravano lì vicini…»). Come se dal volume della voce nella cornetta, si fosse potuto desumere la distanza del luogo da cui proveniva la chiamata. Genialità “panevolpistica” pura!

Tempo dopo, ormai facevo già il liceo, si decise che anche casa nostra avrebbe avuto la sua bella coda telefonica attaccata al resto della civiltà. Un mio amico di scuola mi chiamò dalla città per “invenare” il flusso comunicativo, e fu allora che mi resi conto del mio disagevole rapporto con lo strumento. Già non sono mai stato un fulmine di loquela, ma con l’orecchio appeso a quella protuberanza “cornuta” risultavo smodatamente impacciato. Mi mancava l’appiglio dei gesti, delle espressioni del viso, cinture di sicurezza indispensabili per un timido preso in mezzo al turbine di un dialogo. La mia voce, spietatamente gettata dentro l’imbuto bucherellato del microfono telefonico, mi rimandava le stesse sensazioni rassicuranti che si possono provare sul ciglio di un dirupo a strapiombo su tre chilometri di vuoto.

Era la prima telefonata della mia vita, alla bellezza di 16 o 17 anni più che suonati. Il giorno dopo non mi presentai a scuola: avevo la febbre. Fu senz’altro una coincidenza, ma il dubbio che anche l’emozione del mio debutto telefonico avesse giocato un ruolo nel far salire la temperatura, mi è sempre rimasto.

Col tempo, sono leggermente migliorato, come oratore telefonico. Ma i difetti di base mi sono rimasti tutti, belli intatti: quasi regolarmente sbaglio i tempi della conversazione, parto a parlare quando non devo, sto troppo zitto quando non servirebbe, mi sovrappongo all’interlocutore oppure lascio troppi vuoti. La mia specialità poi è l’imperizia conclusiva: sono sempre in estrema difficoltà con le frasi di commiato, tanto che i miei congedi telefonici si concretano per lo più con titubanti ed insipide smorzate colloquiali, delle piccole Caporetto discorsive, quando non vere e proprie Waterloo dell’interurbana.

Ma come si dice, al mondo c’è di peggio…e insomma: imbranato nel parlare, pigro affetto da buonismo molesto, campagnolo difettoso, timido con un tono di voce impercettibile, passatista, asociale e adesso, si scopre, anche allergico alla dinamica telefonica…sono o non sono sempre più un uomo da sposare?



8 commenti:

Vanessa Valentine ha detto...

Io direi proprio di sì...:))))))))
con tanti mononeurati che girano, ben venga un Gilli che parla quando serve, e si capisce benissimo che dentro ha un ribollente mondo interiore...;)))))))

Gillipixel ha detto...

@->Vale: :-) grazie Vale, la tua gentilezza cade come rugiada vivificante su questo mio momento narrativamente un po' arido :-)

Sono anche indietro di due commenti da te, e questo non mi piace...ma sto proprio in una fase di recrudescenza post-adolescenziale che mi leva le parole :-)

Conto di ovviare alla mia mancanza quanto prima e nel frattempo spero ti piaccia accettare un piccolo sacchetto di:

Bacini muti :-)

Vanessa Valentine ha detto...

Tranquillo, Gilli, pure per me è un periodo "secchetto" riguardo all'ispirazione...sarà il caldone, ma il cervellino si rifiuta di produrre qualcosa di decente...aspettiamo, dai!:))))))))
Comunque riguardo al telefono io ho il problema opposto, forse, al tuo: niente pause da parte mia, ma un serrato e sfiancante narrare che si intreccia con quello dell'interlocutore che ormai, conoscendomi, va avanti imperterrito anche quando faccio le digressioni "alla Moretti", ovvero quelle che non c'entrano una mazza.(Sono reduce dalla visione di "Ecce Bombo", scusami).;)))))))
Bellissima la parte con i vicini a tiro di voce...e chi ha bisogno di 500 amici su facebook, perlopiù sconosciuti, quando hai amici e vicini VICINI?:)))))))))
Baciotti afosi:))))))))

Vanessa Valentine ha detto...

Chiboloo, dice spotty.
Che parola meravigliosa, sembra un invito a godersi la vita!

Gillipixel ha detto...

@->Vale: eheheheh :-) grande film "Ecce bombo", Vale :-) ne ho rivisto alcuni spezzoni di recente...è ricchissimo di scene memorabili, come quella della teoria dell'etiope, che, se non ricordo male, sosteneva l'esistenza di un complotto fra produttori di mezzi armati e costruttori di autostrade, con le gallerie troppo basse, per impedire la rivoluzione :-)

Oppure quando sono lì col gruppetto dei soliti amici, uno annuncia il suo imminente suicidio e gli atri si mettono a battere le mani, partendo inizialmente da mono-applausi da presa in giro finto-esistenzalistica :-)

Chiboloo a te, Vale :-)
Grazie per la tua simpatia inesauribile :-)

Bacini estivi con sperato refrigerio :-)

Vanessa Valentine ha detto...

:))))))) è vero, la scena con l'attore (quello che sarà il mitico Fabris di "Compagni di scuola" di Verdone) che annuncia il suicidio e viene accolto dagli applausi è notevolissima... anche quella con gli amici nel locale sfigato col giornalista televisivo che intervista i gggiovani e Moretti gli fa, chieda a lui (indicando l'amico col barbone), lui è bravissimo a fare il giovane...ahahahahahahah:)))
Chiboloo!

farlocca farlocchissima ha detto...

erto che sei da sposare! zitto come stai che fastidio puoi dare? certo potresti avvalerti di piccioni viaggiatori e bigliettini per comunicare con la tua metà, anche i post it in giro per casa sarebbero utili :-)

vedi io a 16 anni già ero una bugiarda telefonica di prim'ordine, avevo il compito di tenere a distanza da mia madre scocciatori assortiti. se le bugie mandano all'inferno (lo diceva la nonna) magari quelle al telefono mandano solo in purgatorio, certo che se contano quelle io non ne esco più ...

bacini da cellulare

Gillipixel ha detto...

@->Farly: ehehehehe :-) sì, credo anche io, cara Farly, che una bugia telefonica sia meno grave :-) in fondo il telefono è un mezzo falso di per sè...con una discreta voce, anche uno sgorbio di uomo può passare per gran playboy :-)
Forse sono solo io a fare eccezione: riesco ad arrossire anche al telefono, e la cosa straordinaria è che dall'altra parte "si vede" :-)

Bacini duplex :-)