lunedì 24 ottobre 2011

SchopenEinsteinasso


AVVERTENZA: quanto segue è uno dei più potenti pipponi filosofardi che mi siano mai scappati fuori dalla penna. Fate un po' vostri conti, ma poi non dite che non vi avevo avvisato…

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Cari amici viandanti per pensieri, aprite bene gli occhi e spalancate a tutta valvola la vostra permeabilità neuronale, che oggi vi proprino una roba assai ostica anziché no.

Tiè:

«…Ciò che la legge di causalità determina non è dunque la semplice successione degli stati nel tempo puro, ma nel tempo relativo ad uno spazio dato; e parimenti tale legge determina non l’esistenza dei fenomeni in uno spazio puro, ma in uno spazio relativo ad un determinato istante. Il cambiamento, cioè la trasformazione che sopravviene secondo la legge causale, esige dunque in ogni caso che una data parte dello spazio sia in corrispondenza simultanea con una data parte del tempo. La causalità collega quindi lo spazio con il tempo. Ora noi abbiamo trovato che tutta l’essenza della materia consiste nell’azione, quindi nella causalità; pertanto spazio e tempo devono essere riuniti nella materia, la quale deve cioè simultaneamente conciliare in sé, nonostante il loro antagonismo, le proprietà del tempo e dello spazio, e riunire, cosa che è impossibile in ciascuna delle due forme isolata dall’altra, l’inconsistente fuga del tempo insieme con la rigida e immutabile persistenza dello spazio…»

Il mondo come volontà e rappresentazione
Arthur Schopenhauer – 1819

Il passo cruciale è questo: «… Ora noi abbiamo trovato che tutta l’essenza della materia consiste nell’azione, quindi nella causalità; pertanto spazio e tempo devono essere riuniti nella materia…».

In che senso la materia è causalità? Sostituiamo la parola “causalità” con il verbo sostantivato “divenire” e probabilmente tutto diventa più chiaro. La materia è continuo divenire, è incessantemente causa ed effetto di se stessa. Questo lo possiamo cogliere molto più direttamente, anche sul piano intuitivo. Ciò che una data porzione di materia è ora, rappresenta l’effetto di ciò che essa è stata in momenti di tempo anteriori e la causa di ciò che essa sarà in momenti di tempo posteriori.

Ora fate bene attenzione, amici. Se a questo punto vi scrivo appena qui di seguito queste tre fatidiche letterine iper-famose, con tanto di coda adorna del suo inseparabile leggiadro numerello, non vi cappottate sulla sedia dalla meraviglia epifanica?

Attenti…ecco:

E=MC²

Con l’equazione più famosa di sempre, praticamente un secolo dopo, un altro grande genio del pensiero, Albert Einstein, dice dunque una cosa analoga a Schopenhauer. Qui si sfiorano temi superbamente inaccessibili alle modeste possibilità scientifiche di un povero campagnolo cimiciaio, ma pure io, nel mio piccolo, arrivo a capire dalla brevissima, ma assai complessa equazione, come la materia non sia altro che un impasto di tempo e spazio.

A garantircelo ci sta lì apposta quella “C” attraverso la quale si indica la velocità della luce. Una velocità è commistione di spazio e di tempo per eccellenza (Velocità = Spazio / tempo – chilometri all’ora, metri al secondo, miglia al minuto, pollici alla mezza clessidra, e così via…). Inserita da Einstein nella sua “affermazione” matematica, questa particolare velocità dona il nuovo senso di dinamismo alla materia, anzi, all’energia (“E”), che altro non è se non l’antica materia vestita coi calzoni della festa della modernità e della nuova consapevolezza del suo impasto spazio-temporale.

Ma le sorprese non finisco qui. Non perdiamo di vista il fatto che uno dei due temi fondamentali del tomo di Schopenhauer afferma che il mondo è “rappresentazione”, ossia che la realtà esiste soltanto in quanto filtrata soggettivamente, e leggiamo ancora:

«…In primo luogo noi vediamo quindi il prodursi nella materia della simultaneità, che non poteva sussistere nel tempo puro, il quale non ammette giustapposizioni, né nel puro spazio, che non conosce alcun innanzi, dopo e ora. Ma la vera essenza della realtà è precisamente la simultaneità di parecchi stati, che sola rende possibile la durata: questa infatti non è concepibile che nel contrasto fra il cangiante e il permanente […] Entro lo spazio puro il mondo sarebbe rigido ed immobile; nessuna successione, nessun cambiamento, nessuna attività […] Parimenti, nel tempo puro tutto sarebbe transeunte; non più permanenza, non più giustapposizione, non più simultaneità, quindi non più durata: e, anche in questo caso, non più materia. Soltanto la combinazione dello spazio e del tempo dà vita alla materia, ossia alla possibilità dell’esistenza simultanea; sorge così la durata, che a sua volta rende possibile la permanenza della sostanza nel cambiamento degli stati…»

Il mondo come volontà e rappresentazione
Arthur Schopenhauer – 1819

Facciamo adesso un balzo interdisciplinare e adagiamoci in comoda planata sulla pista d’atterraggio del mondo artistico:

«…Ora, un piatto posato su una tavola si vede come una forma ellittica, ma si sa che invece è rotonda: poiché nell’ordine mentale, tra ciò che si vede e ciò che si sa non v’è differenza di valore, si sviluppa nel quadro anche la rotondità del piatto, cioè si dà a ciò che sta nella terza dimensione la stessa certezza che hanno i valori misurabili sulle coordinate verticali e orizzontali. Con la nozione dell’oggetto (che si ha da prima) entra in gioco il fattore tempo: è come se prima si vedesse il piatto come forma ellittica e poi, mutando la sua posizione nello spazio, come forma tonda, o come se muovendosi intorno all’oggetto e mutando il punto di vista, prima lo si vedesse ellittico e poi tondo. Se ne deduce che, se nella veduta empirica lo stesso oggetto non può trovarsi nel medesimo tempo in luoghi diversi, in quella realtà tutta mentale che è lo spazio (come realtà ordinata e configurata nella coscienza), lo stesso oggetto può esistere con più forme diverse…».

Quest’ultimo brano è tratto dal quarto volume della storia dell’arte di Giulio Carlo Argan. Precisamente il professor Argan sta qui illustrando i significati espressivi e la poetica del movimento pittorico del Cubismo, “inaugurato” da George Braque e da Pablo Picasso, ma soprattutto sviluppato da quest’ultimo alle sue massime potenzialità culturali.

Les demoiselles d'Avignon - Pablo Picasso, 1907

Ancora una volta dunque, più o meno un secolo dopo, grosso modo in contemporanea col caro Albertino, anche il buon Pablito giunge a dire cose analoghe a quanto già anticipato dal vecchio Arturo (nei due ultimi brani citati, ho evidenziato in rosso i passaggi che presentano una certa armonia concettuale).

La realtà di cui possiamo parlare è imprescindibile dalla rappresentazione soggettiva. La coscienza che abbiamo del mondo è l’unica verità di cui possiamo disputare, l’unica base di confronto. L’esistenza di una “oggettività esterna” indipendente dalla coscienza non è questione che si possa porre sotto l’egida della conoscibilità, perché tutto il reale, ma proprio tutto, passa attraverso il filtro percettivo e cognitivo del soggetto. Quello di cui siamo consapevoli, quello che ci consta, è tutto ciò “che è”, e nulla si può “filosoficamente” dire riguardo a ciò che sta al di fuori della consapevolezza del soggetto (e va sottolineato tre volte: “filosoficamente”).

Dal che si deduce anche, come corollario, che da un punto di vista picassiano e cubista, la nuova presa di coscienza non poteva far altro che spazzare via secoli e secoli di rappresentazione pittorica della realtà parzialmente ripresa da punti di vista fissamente e staticamente bidimensionali, che a quel punto apparivano alla nuova consapevolezza artistica come sommamente impotenti nel compito di cimentarsi col racconto del mondo.

Se il mondo è rappresentazione (ossia, è innanzittutto ciò che di esso "si sa"), per renderne conto in misura fedele non potremo prescindere dalla simultaneità (che è amplificazione dei mille punti di vista dei quali abbiamo coscienza, al di là di quello singolo derivato dalla visione statica nello spazio e nel tempo).

Ma la questione ultima, cari amici viandanti per pensieri, quella più controversa, sempre ammesso che il rivestimento in titanio dei vostri zebedei abbia retto fino a qui all’impatto tremendo con la pallosità del presente articoletto, la questione ultima, dicevo, credo vi sarà balzata a questo punto alla mente con somma impellenza.

E la questione è questa: perché rovinarsi la vita con questi intorcinamenti mentali, quando al mondo non c’è che l’imbarazzo della scelta fra mille e un’altra attività piacevole da fare?

Bella domanda, questa. Proprio una bella domanda…

2 commenti:

farlocca farlocchissima ha detto...

"pollici alla mezza clessidra" la mia unità di misura preferita! quoto ancora:
"e nulla si può “filosoficamente” dire riguardo a ciò che sta al di fuori della consapevolezza del soggetto" come a dire che se sei cimice mica ti accorgi di esserti posato sul telaio della finestra proprio proprio dove poi qualche umano infame la va a chiudere... e ancora, cosa di meglio puoi fare? be' dato che la realtà è inconoscibile tramite la pittura o altra forma d'arte visiva, puoi sempre andare a cena in un buon ristorante che l'arte gastronomica è cosa certa....

bacetti al titanio culturale
ps vorrei far notare la sintonia con blogspot, esso afferma: clessed ovvero 4 pollici alla mezza clessidra

Gillipixel ha detto...

@->Farly: ahahahahah :-) questi sì che sono commenti, Farly :-) la tua sintonia commentatoria è superba :-) grazie, completi sempre i miei scritti alla velocità di 300mila pollici alla mezza clessidra :-)

E poi, chissà com'è il mondo secondo la volontà e la rappresentazione delle cimici :-) magari quella che per noi è la loro puzza, nel loro mondo percettivo è un invece apprezzatissimo profumo usato nel corteggiamento :-)

E chissà se fra loro c'è stato un Arthur Cimichauer che le ha edotte sul modo di vedere il mondo cimicéo :-)

E per finire, concordo in pieno con te: la verità gastronomica è la sola incontrovertibile e inconfutabile, soprattutto se corroborata da sapienti integrazione gnoseo-enologiche :-)

Bacini a clessidra lenta :-)