venerdì 30 dicembre 2011

Ma vaffanculo Gillipixel, di tutto cuore!


 
«...If you never say your name out loud to anyone
They can never ever call you by it...».

“Better” – Regina Spektor - 2007

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Cari amici viandanti per pensieri, questa volta, in occasione del consueto discorso dell’ultimo dell’anno ai Gillipixiani, mi vedo costretto ad essere un filino sboccato.

Come sapete, nutro una venerazione particolare per la parola, e nell’ambito della grande famiglia delle parole, un posto speciale occupano per me le parolacce. Per questo, come scrissi già in altra occasione, propendo ad usarle di rado, le centellino come materiale raro, contrariamente a quanto si tende a fare nel parlato quotidiano ormai da circa 40 anni, grosso modo, a questa parte.

La parolaccia possiede una sua sacralità, deve essere legata a momenti rari ed il suo inflazionamento la svuota, la rende una larva verbale, una buccia rinsecchita priva di linfa. Come già dissi, la parolaccia può divenire persino, tanto per citare l’esempio più nobile, il territorio semantico più intimo condivisibile fra due amanti, il campo privilegiato delle verbali battaglie amorose più appassionate e torride di sensualità. Se questo vi pare poco…

Ma veniamo alla fattispecie odierna.

Il 2011, per quanto mi riguarda, è stato proprio un anno di guano, o per dirla in sintonia con la premessa, sono stati esattamente 365 giorni di merda. Va beh, non tutti…alcune cose carine le salvo, e pure certe proprio belle. Ma il trend generale, soprattutto nell’ultima coda di mesi, si è dimostrato decisamente escrementizio.

Ecco allora cadere qui a fagiolo la mia proposta di rivoluzione augurale. Quest’anno, cari amici viandanti per pensieri, se vi va di lasciarmi un commento per contraccambiare parole di buon auspicio e se un po’ mi volete bene, vi prego, scrivetemi frasi del seguente tenore: «…Ma vaffanculo Gillipixel!!!...», oppure: «Vaffanculo alla fine e vaffanculo all’inizio, Gillipixel!!!…», e ancora: «…Chi vaffanculo il primo dell’anno, ci va tutto l’anno, quindi vacci di filato, Gillipixel!!!...».

Non sto scherzando. Il motivo è presto detto: se nelle scorse occasioni, ricevendo auguri tradizionali, è andata così di merda, hai visto mai che essendo inviato ripetutamente e solertemente ad andare a fare in culo nel 2012, non mi capiti invece qualcosa di buono?

Davvero, amici: se mi volete bene, mandatemi ‘affanculo. Lo prenderò come il miglior augurio che mi possiate fare, parola di Giovane Birbotta. Io da par mio, se non esplicitamente indicato diversamente, vi risponderò nel modo tradizionale, ovvio. Ma per chi me lo richiederà a chiare lettere, risponderò nel medesimo modo apotropaico.

Per intanto, auguri di Buon Anno a tutti allora, ma spero di ritrovarvi in diversi, in sede di commento, disposti di buon grado a mandarci ‘affanculo a vicenda. Mi raccomando, se vi sentite di aderire al mio moto rivoluzionario augurale, non esitate e richiedermi il “vaffanculo” che ritenete vi spetti di diritto.

martedì 27 dicembre 2011

Scodinzoli di luce


Ve lo devo proprio dire? Non sono per niente gran belle giornate per me, queste. C'entra un po' il clima delle feste, ma c'entrano soprattutto certe cose mie, che non sto qui ad elencarvi per eludere almeno in questa sede il tedio generale.
Sono smodatamente stanco di mediocrità, minchia! Stanco di cose grevi, asfissianti. La si sente pure nell'aria questa stanchezza. Si arriva ad un punto in cui, pur rendendosi conto che non ha senso, che tanto i problemi ci sono e vanno affrontati, tuttavia viene da sbottare: «...Ma basta, per la strafava del sacro cipponico impero! Vaffanculo allo spread, al bund, al mib, a Studio Aperto e al cazzincul, che la puttana boia se li porti tutti!!!...».
Però ormai l'ho imparato, anche nei periodi più asfittici e mediocri, capitano lampi di luce che irradiano di purezza la nostra anima, lasciandoci lì nello stupore a non pensare a nulla, se non a quell'attimo di fulgore estatico.
Tornando a casa lemme lemme sulla mia inutilitaria targata 313GT (Gattopoli, la provincia di Gillipixiland), mi sono reso conto di essere ancora capace di stupirmi per una canzone. E poi, una volta acceso il computer, ho riprovato la gioia di ricevere un saluto, con tanto di suoi delicati buffetti, dalla cara amica Scodinzola, che non sentivo da un sacco di tempo.
Mi hai dato una gioia oggi, Scodi, sappilo. Per un attimo mi è parso di essere dentro un quadro di Salvador Dalì e c'era un signore con la pipa che fumava seduto vicino. Chissà come mai...

venerdì 23 dicembre 2011

A…gr… d… Bn… Ntl



Quest’anno più che mai faccio fatica a dirlo.

Non mi sono mai usciti dalla bocca con tanta facilità, gli auguri di Natale. Non posso fare a meno di assaporarci quel retrogusto di artificioso, che non se ne andrebbe nemmeno se accompagnato da dieci bicchierini di Fernet.

Già la gente ha cominciato oggi. Io rispondevo, per mia connaturata gentilezza, ovvio. Ma di malavoglia, con un sorriso sommesso che era un mezzo ringhio non dichiarato. Biascicando le parole, perché esse stesse si ribellavano in bocca. Come succedeva a Fonzie in quella puntata di “Happy Days”, quando doveva ammettere con Ricky di aver commesso un errore. Ho già citato in altre occasioni questo episodio fonziano. Non so come mai, mi è rimasto impresso parecchio.

«…Mi sono sbgl…Ricky, io mi sono sbhhhghhh…» erano le uniche sillabe che il beneamato eroe polliciuto della nostra adolescenza riusciva a mettere insieme. Era più forte di lui, «…Mi sono sbagliato…» proprio non ce la faceva a dirlo. Anche io, riesco a dire la fatidica frasetta natalizia a malapena, sottoforma di uno stropicciato codice fiscale: «…Augr di Bhhnnn Ntlhhh…».

Se proprio c’è da dire invece qualcosa alle persone care (e fra queste ci siete senz’altro anche voi, cari amici viandanti per pensieri…), mi sento di dire questo: tenete duro. Non c’è mica tanto da scialare, in fatto di auguri. Per niente. Se ci andrà un po’ bene, sarà tanta manna, altro che grandi auguroni di lusso ed auspici delle grandi occasioni.

Camminate rasenti ai muri, fate un passo alla volta, guardate bene dove posate i piedi, e tutto quello di buono che arriverà, sarà tanto di guadagnato. Ecco, questo sì che mi sento di dirvelo…altro che auguri di qua, auguri di là.

E chiudendo per oggi, ringrazio ancora una volta tutti quelli che passano di qui. Chi non ha mai commentato, chi commenta, chi ha letto solo una volta, chi è frequentatore abituale: a voi tutti il mio più sincero “tenete duro” di buon Natale.

(…Ah…magari per Capodanno mi attrezzo per tempo chiedendo agli uffici competenti, e invece del codice fiscale, per farvi gli auguri uso la partita IVA…).

domenica 18 dicembre 2011

L’evidenza del non detto

Ci si rende conto di essere sulla buona strada per diventare una qualche specie di scrittore, quando si sente che dalle proprie parole la parte “non detta” trapela con molta maggior copiosità ed evidenza della parte “detta”.

Come faccio ad esserne così sicuro? Semplice, perché mi rendo conto di trovarmi ancora lontanissimo da quella condizione.

Normalmente quando ci si mette a scrivere, non si sa ancora bene di preciso cosa ne uscirà fuori. Da un’idea di fondo si deve pur partire, ovvio. Ma le cose migliori vengono durante la stesura. Ora, quello che accade a me, è che ad un certo punto le idee cominciano a piovere nella mente, fitte come goccioloni temporaleschi.

Vengo preso quasi da un panico creativo. L’ansia di raccogliere più pioggia possibile nel piccolo cappellino della mia capacità di ascolto, per farla depositare sul foglio sotto forma di parole, mi fa correre di qua e di là, ritrovandomi ben presto con l’incavo del berretto già bello e traboccante, tanto che nella foga, ne rovescio mezzo, mi inzuppo i piedi, m’infradicio le mani.

Il risultato sono frasi alluvionali, lunghi “sbrodolii” di parole baroccheggianti, architetture verbali stracolme di secondarie, incisi, periodi ausiliari, sotto-frasette di complemento, gragnuole di aggettivi, trenini di avverbi, tortuose stradine espressive che portano a zonzo il lettore, un po’ disorientandolo.

Chi sa scrivere è invece sicuro di riuscire a dire tutto con sintesi cristallina. Sa scegliere quelle poche espressioni sufficienti e necessarie a far intuire che sotto la linea di galleggiamento l’enormità intera di un iceberg di significati è presente, pulsante e viva. Chi sa scrivere è uno scultore provetto. Toglie, lima, sgrossa, ci dà dentro di mazzuolo, butta via tutto ciò che alla forma finale non serve per riuscire a dire in ogni modo le cose che egli vuole.

E’ così, insomma, cari amici viandanti per pensieri, e ricordate una cosa: tutte le volte che avete letto un libro veramente capace di parlare alla vostra anima, la parte più grande dei vostri soldi l’avevate sborsata per ciò che in esso non era fisicamente scritto.

Parola di scalpellino scribacchiante!

venerdì 16 dicembre 2011

Non avere che la Luna...


Stasera sono triste.

Un qualche domani, mi passerà. Ma quando sono triste, non mi importa che passi di botto. Ciascuna emozione ha i suoi tempi, vanno assorbiti con rispetto e pazienza. 

Di fondo, lo sono sempre un po'. Quando proprio va bene, è solo un lieve velo di malinconia. Questo mi è stato dato di essere e in questi frangenti, solo il poeta mi può stare appresso:

Non erano le ore che noi perdemmo,
nè il treno che non arrivò.
Fu solo la nave e il gesto dei remi
e la triste vita che già passò.

Tutto ci dava l'impressione di avere
fra traverse errato la via,
e di non trovare l'amore, e di non avere
per la tristezza che la Luna...

Tutto questo fu come se non fosse...
Magari fosse durato di meno...
Infine, che importa? Non c'è possesso...
e solo i cieli eterni sono sereni...

Fernando Pessoa - 1915

giovedì 15 dicembre 2011

Gnuràn'



Incubi vissuti

"...Guidando, dietro un camion,
    lentissimo,
    la strada stretta, non potevo sorpassare.
    Tanfo di diesel nell'abitacolo,
    fetentissimo,
    l'ultima canzone di Ligabue dalla radio,
    la frequenza non riuscivo a cambiare..."

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Questa è una confessione: mi sento sempre più scrittura pura.

La consapevolezza mi si intensifica dentro col passare del tempo. Le altre mie specificazioni esistenziali si stanno lentamente travasando nell’atto dello scrivere. La mia dimensione è lì, lo sento con forza sempre rinnovata ogni giorno che passa.

Non uno scrittore, badate bene. Ma uno che vive attraverso la parola da sé medesimo prodotta su supporto muto. Il mio buttar giù parole non ha pretese di essere particolarmente qualitativo. Ci metto tutta la cura di cui sono capace, quello sì.

Pervenire ad un qualche preciso esito non è tuttavia  lo scopo. Quasi potrei dire che uno scopo non c’è, nel senso che non inseguo un obiettivo finale, ma mi interessa molto di più il cammino da affrontare, l'attimo dopo attimo del percorrere spazi mentali peculiari. C’è solo un sentirsi vivi nell’atto del riversare me stesso in questa ventina di segnetti neri chiamati lettere, allineati ed accostati secondo una orchestrazione che segua una certa misura significante.

Avrete sentito parlare della sindrome dei «savant» (pronuncia: «savàn'»), persone che hanno specializzato in misura straordinaria un talento specifico, per lo più e purtroppo in correlazione con forme più o meno gravi di autismo. Ecco, la mia metamorfosi in un “uomo-scritto” ha vagamente qualcosa a che vedere con quel fenomeno. Ci sono solamente alcune “lievi” differenze. Io non sono autistico, ma giusto un filino esageratamente asociale. Mentre la mia privata translitterazione personale in forma di scrittura vivente non ha niente di portentoso, bensì ama bazzicare con maggior preferenza nel territorio del nonsenso paradossale, laddove la parola, rasentando i cieli altissimi della deriva semantica, si scrolla di dosso la logica per indossare le nubi della “follia autocompositiva”.

Ecco allora che nel mio caso, invece di «savant», sarebbe più preciso parlare di «gnurànt» (pronuncia: «gnuràn'»).

Una qualche mattina fa, per dire, sognavo nel dormiveglia tardo notturno una storia fatta di parole che si andavano forgiando da sole, a colpi di contorsioni sillabiche, ribaltamenti fonetici e strafalcianti intoppi verbosi.

In questa storia, una donna e un uomo vivevano di un'energia riverberante reciproca, si rimbombavano l'un l'altra, si rimbambivano l'altra l'un, attraverso intense eco emotive. Per dirla in breve, una vera e propria “risonanza magnetica” li attraversava. Non c'era attimo della giornata che i due vibranti esseri simbiotici non trascorressero in intensa intesa senza attese. Persino nei frangenti più grevi, le loro frequenze personali si rimbalzavano in piena armonia.

Metti che lui nella ritirata si ritirasse con una certa urgenza. I suoni provenienti da oltre la porta parlavano a lei come un libro aperto. Il rumore della tavoletta abbassata, in virtù di una magico chiasmo di significati e movenze circolari, quasi che il vile ammennicolo igenico riassumesse in sé la portata semantica di un imbanditura prandiale rotante, le rammentava di aver lasciato l'auto parcheggiata in zona “desco orario” [1]. Giusto il tempo di correre di sotto, per rinnovare il margine di stazionamento veicolare, che nel rientrare la profonda eco di una scoppiettante “petizione” [2] la accoglieva di nuovo nel bel mezzo della loro intesa perfetta, assolutamente priva di confini espressivi.

Del resto lui non aveva più badato a spese da quando si era messo a pulirsi con la “carta di credito”, folgorato sulla strada di Fregene, fraintendendo rudemente il senso della parola igiene come novella categoria economica, rimestando fra profilassi e parallasse.

E riemergendo dalla titanica seduta, lui si metteva ad annusarla per ogni dove del corpo e le sussurrava trasognato: «...ti adoro...», per poi proseguire in quel suo rito intimo con magniloquenti prostrazioni al cospetto di lei, inchini ai suoi piedi, inginocchiamenti di affetto plateale, aggiungendo: «...ti odoro...».

«...I suoi soliti “vocalizzi” [3]...» non poteva fare a meno di concludere lei, accogliendo di buon grado quella sarabanda o scorribanda, a banda larga.

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Glossario idiotale:

[1] = Il gioco di parole “ruota” attorno ai termini “tavoletta” del wc  (col relativo movimento rotatorio), “tavola” come tavola da pranzo → desco → disco → disco orario, il tutto suggellato insieme per similitudine rotatoria.

[2] = Il gioco di parole ruota qui attorno ad una sola fulminazione neuronale, in virtù della quale una gragnuola di peti si muta in petizione.

[3] = Il gioco di parole ruota qui attorno al fatto che il protagonista scambia le definizioni dei due gesti, odorare e adorare, con il solo fallo di una vocale per volta.

martedì 13 dicembre 2011

Gillipixel, niente sesso e le tatone


Alcuni anni fa uscì un film tedesco, anche se, detta in questo modo, so che si rischia di spaventare fin da subito il lettore. S’intitolava «Der philosoph», «Il filosofo». Nemmeno il titolo sarebbe stato di quelli da entusiasmare troppo. Quelle volpi dei distributori italiani, pensarono bene allora di scempiarlo in questa infelicissima libera trasposizione: «Tre donne, il sesso e Platone».

Già qui ci sarebbe da dissertare mezz’ora sulla scelleratezza di certe scelte di traduzione delle opere creative, di qualsiasi natura esse siano, cinema, letteratura, poesia, ecc. Soprattutto in quel caso, a volerla dire tutta, non si trattava di un capolavoro. Ma era pur sempre una pellicola onesta, non priva di una sua delicatezza e non lontana da implicazioni emotive degne di nota. Per come venne spacciata in italiano invece, poteva essere equivocata per una commediola alla Alvaro Vitali. Con tutto rispetto parlando per il sommo interprete di mille Pierini, che perlomeno aveva la limpidezza di preannunciarti sin da subito la giocosa grossolanità e la svagatezza dei suoi film. Nel caso di «Tre donne, il sesso e Platone», l’aspetto più triste stava in questa malcelata intenzione tittillatoria basso voyeuristica, rispetto ad un contenuto che si rivelava alla visione ben altra cosa.

Ad essere onesti sino in fondo, ammetto che forse nemmeno io lo avrei mai visto se non avesse avuto quel titolo in italiano. Ma questo è un altro discorso, di stretta pertinenza del contraddittorio mondo gillipixiano, che si nutre di controsensi, ingollando incoerenze come digestivo.

Ricordo vagamente la trama, avendolo appunto visto ormai parecchio tempo fa. Le atmosfere non le ho tuttavia dimenticate. C’era questo studioso di filosofia, che non so più per quale disegno del destino, si ritrovava a vivere per un certo periodo con un terzetto di leggiadre donzelle, nella loro casetta immersa in un bosco. Detto così sembra una fiaba, ma il bello della storia consisteva proprio in questa sorta di piacevole inganno: gli avvenimenti erano narrati come se fossero successi con la naturalezza e l’evidenza della quotidianità, però sempre immersi in una sfumatura fiabesca.

Cosa combinavano i quattro, in siffatto idillico contorno? Il giovane intellettuale, un po’ timido e frescone nei modi di fare, leggeva alle signore passi dei suoi eruditissimi testi, oppure si avventurava in garbate dissertazioni, mentre le donne, di rimando, lo sommergevano di senso di protezione, lo intabarravano di maternità, gli tessevano addosso camice e pullover di femminilità pura. Pian piano si veniva trascinati dentro a questo ovattato mondo “prenatale”, provando quasi la sensazione, insieme al protagonista, di essere stati riaccolti nel ventre materno, gustando emozioni di rinnovata immersione in una completezza fisica e spirituale riconquistata. Era come ritrovarsi con il goffo filosofo a suggere di nuovo al seno della poesia, nel cortocircuito paradossale del continuo ricordo generato vivendo il presente.

Va detto che non si tratta certo di un “luogo narrativo” assolutamente originale. Pur mutando infinitamente registro e pretese culturali, l’esempio affine più eclatante che mi sovviene in questo momento (ma ce ne sarebbero tanti atri, un’infinità) è il monologo di Molly Bloom, nell'«Ulysses» di Joyce. Personalmente, forse non ho mai letto niente di più “sconvolgentemente” femminile (ma ci metterei anche certe pagine di Erica Jong...).

L’assorbimento nella “super mamma assoluta”, l’immedesimarsi nel senso del femminile più totalizzante, nella dimensione della donna globale, che è ad un tempo nutrice, amante, amica, complice, consolatrice, fonte d’eccitazione, di rassicurazione, di fascino, di esaltazione della bellezza all’ennesima potenza. Un po’ tutte queste piacevoli emozioni regalava quel film tedesco, pur nella modestia dei suoi mezzi e dei suoi esiti, forse, ma lo faceva con garbo e nel mio ricordo rimane senz’altro positivo.

Se vi ho citato «Der philosoph», è tuttavia per parlarvi di una piccola esperienza personale. No, niente di simile alle vicende del film. Anzi, proprio una cosa ben più soffusa e vaga, ma a mio parere ugualmente carina da riferire.

Innanzitutto, nel mio caso il sesso non c'entra proprio. C'entra invece il luogo dove lavoro. Non è che sia quel gran posto paradisiaco o ideale, ma vi dirò che un vago accenno ad una sorta di avvolgente “pan-femminilismo”, lì dentro lo si respira. Il merito è ovviamente delle tante donne sempre ivi impiegate. La cosa curiosa è che, un po' per loro carattere, un po' perché derivano in gran parte da una certa formazione professionale, queste colleghe risultano essere molto sul genere “donna-mamma-globale”.

Non è sicuramente la regola per tutte, vanno fatti tanti distinguo personali, ovvio. Ci sono anche magagne e tipi dal carattere poco confortante, ma in generale una certa atmosfera omni-donnesca diffusa, pervade le scrivanie, si struscia contro gli armadi, fa capolino nei corridoi. Ci sono giornate poi che la cosa si nota di più, ed è veramente bello quando accade. Non è poi tanto una questione estetica. Alcune sono più carine, alcune meno, fisicamente parlando. Ma tutte, quelle che posseggono in modo spiccato questo non so che da “regine Mida” della femminilizzazione, sono sotto questo profilo bellissime. Quando sono particolarmente in forma, tutto ciò che toccano s'ingentilisce, si vela di leggiadria e tut'attorno si crea un'aura delicata, capace di trasmettere vibrazioni positive all'ambiente intero.

D'accordo, non succede ogni giorno, ma le volte che loro sono in quello stato di grazia, si sente, ed è un piacere essere lì, e lasciarsi irradiare da quel caldo vento muliebre felicemente contagioso.

sabato 10 dicembre 2011

Neon on my naked skin



«...Neon on my naked skin, passing silhouettes
Of strange illuminated mannequins...»

Big in Japan”, Alphaville – 1984

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Perché uno non deve poter andare in piazza nudo? O anche una, per dire. Nuda però, lei. E nudi tutti: per le strade, al lavoro, nei luoghi di divertimento, e così via.

Vi sembra questo un quesito troppo pazzo da poter essere preso in considerazione? A dire il vero, ci ho riflettuto abbastanza, prima di decidermi a scrivere qualche nota su questo bizzarro tema. Non vi nascondo che mi sono chiesto più volte: «...non è che andrò a compromettere la mia reputazione?...». Però poi, ad un certo punto, ecco calare fra i miei pensieri il decisivo folgorante passaggio in grado di spazzare via ogni remora: «...Ma quale reputazione?...».

E così, procediamo pure…

A pensarci bene, tutto l’apparato culturale a supporto dell’occultamento del mistero della nudità risulta essere esso stesso una sorta di mistero. In fondo nascondiamo un qualcosa le cui fattezze conosciamo già benissimo. Se non nei dettagli formali, perlomeno per grandi linee sostanziali.  Per dire, non è che nel bel mezzo di una spiaggia, se una signora decide di mettersi in topless, qualche attimo prima del fatidico disvelamento, gli astanti stanno tutti lì ad interrogarsi con fremebonda curiosità, in preda ad un devastante rovello interiore:  «...Minchia…chissà adesso cosa sbucherà fuori da quella maglietta. Ci sarà mica sotto la famiglia dei Barbapapà?...».

Invece no. Nessuno si aspetterà altro che la fuoriuscita di un normale seno, dalle fattezze dimensionali peraltro già ampiamente intuite anche sotto la cortina del vestiario. Lo stesso fenomeno si verificherà con quelle altre parti del corpo, sia maschili che femminili, che la nostra tradizione culturale ha decretato di dover rilegare nel capitolo di pertinenza della nudità. Si sa che tutti, celati da alcuni strati di tessuto più o meno spessi a seconda anche della stagione, hanno sotto quelle robe lì, quegli organi sagomati per grandi linee in un modo già ben noto.

Molto stranamente però, in virtù di un qualche incantesimo “culturale”, quando abbiamo a che fare con una persona “da vestiti”, magari stando uno di fronte all’altro, o all’altra, in una normale conversazione, non c’è niente di più remoto ad entrambi delle rispettive nudità. E’ come se quel sottile sipario di cotone o di lana che li separa dalla vista, annullasse automaticamente l’esistenza stessa dei componenti concreti di quella segretezza fisica.

Questo meccanismo è talmente potente da negare in certi casi persino l’evidenza. Riprendendo sempre l’esempio della spiaggia: che differenza oggettiva passa fra una donna in bikini e la stessa nuda? Dal punto di vista della “rivelazione corporale”, la differenza è praticamente nulla. Cosa sono pochi centimetri quadrati di costume in più o in meno? Sotto un risvolto “culturale” invece, c’è un abisso di significati.

Da tutte queste considerazioni, si arguisce insomma che il nodo della questione è soprattutto di natura simbolica, e dunque, in fin dei conti, mentale. E qui la portata paradossale del discorso s’impone già in modo notevole: i principali elementi esistenziali della nostra fisicità sono essi medesimi anche i principali portatori di un carico “mentale” così vasto. Very very bizarre indeed.

Non a caso, la questione della nudità si è sviluppata, approfondita e complicata soprattutto nell’ambito delle culture più elaborate, quelle che più marcatamente hanno segnato un decisivo scarto dallo “stato di natura” (con tutto rispetto parlando delle tradizioni cosiddette primitive, non meno portatrici di architetture culturali altrettanto complesse, ma di una complessità dal DNA profondamente diverso e peculiare). Questo è uno dei più naturali sentieri che potrebbe imboccare il discorso, ma mi sembra fin troppo scontato.

Mi interessano di più le stranezze, le stonature e volendone trovare, parlando di nudità, ne sbucano fuori a iosa. Non mi venite a dire, per esempio, che non vi siete mai sognati almeno una volta di aggirarvi per i luoghi quotidiani a voi consueti, se non completamente nudi, perlomeno con una porzione del corpo di quelle preposte a sancire la nudità, completamente scoperta. Se anche vi presentaste per negarlo, con una dichiarazione scritta e controfirmata dal notaio, non ci crederei.

Un tempo era un sogno che facevo spesso. Frequentavo i posti e le persone più familiari, con indosso magari una camicia o la maglietta, le calze, le scarpe, ma nel mezzo niente di niente: solo pendolarismo palese allo stato puro, oppure, a seconda delle versioni, alpinismo svettante con grado di inerpicata più o meno ripido. Quando un questione passa sotto il vaglio dei sogni, vuol dire che ci sta sotto qualcosa di molto complicato.

Pur lasciando sempre aperta la possibilità di mille altre spiegazioni, nel mio caso, quel sognarmi nudo fra la gente lo interpreto in un modo abbastanza preciso. Anche se può suonare contraddittorio, credo che abbia a che fare in qualche maniera con la timidezza e con la difficoltà di relazione con gli altri. Non nel senso più immediato evocabile da questa interpretazione: non è che la mia nudità rappresentasse in quei frangenti onirici il mezzo drastico per sbaragliare le mie titubanze sociali. No, perché le sensazioni abbinate al sogno erano piuttosto di sottile disagio, non di liberazione.

Dietro al mio “smutandevole” disagio si celava una forma di pietà, di compassione. Che è poi ciò che io ritengo essere di fatto il nucleo stesso del senso più intimo e riposto nell’atto del sentirsi nudi in presenza di un altro essere umano. Nel sogno, compativo gli altri, mi fondevo con il loro patire, con la loro “incompletezza espressiva forzata”. Non erano nudi come me e pertanto risultavano praticamente soggiogati da una costrizione a “mentire”, ad essere forzatamente qualcosa d’altro rispetto al “sé” più vero, alla propria individualità più genuina e primigenia.

Il mio disagio attingeva però nel medesimo tempo anche alla fonte di una parallela mini-disperazione. La consapevolezza riguardo alla stortura di quella situazione, non trovava infatti una possibile soluzione nell’eventualità che si denudassero tutti seguendo il mio esempio, liberandosi da ogni ostacolo alla completa intesa spirituale e fisica fra gli umani. La verità incontrovertibile risiedeva invece nella inevitabilità dell’essere vestiti, condizione insormontabile durante la vita “da svegli”. Essere vestiti è una forma di autodifesa necessaria dinnanzi alla possibilità di essere travolti da un eccesso di interiorità umana.

Ecco allora che, forte di queste ulteriori meditazioni, mi viene da riprendere l’assunto iniziale e riformulare il quesito in misura ancora più folle. Perché non mi è dato di poter correre in piazza, mischiarmi ad un capannello di amici e amiche, calarmi di colpo braghe e mutande e declamare: «…Ti compiango, o mesta umanità! Segui il mio esempio: abbandona la maschera mutandale e rivelati per quella che sei, nella cristallina onestà senza cortine frammiste, nella limpidezza dei tuoi ciondolanti nasi dalle gote villose e dei tuoi sorrisi verticali!...».

E molto modestamente, in marzullesca guisa, al mio stesso interrogativo porgo risposta: perché sarebbe tutto inutile. Una “liberazione” simile ci caricherebbe di un onere spirituale eccessivamente gravoso da poter essere sopportato. L’esperienza della nudità condivisa risulta in fin dei conti essere questione troppo potente. Giusto nell’estremismo narrativo del sogno la possiamo tollerare. Oppure nella condivisione ristretta con la persona (per i più vivaci: le persone) dalla cui carica emotiva e spirituale abbiamo deciso di lasciarci travolgere.

Perché in quel “compatirsi” nudi e vicini si nasconde in fondo anche la malcelata brama di fondere le rispettive imperfezioni e limitatezze nell’illusione di una conquistata completezza ideale comune. La nudità condivisa è eroica rivelazione reciproca della parte più profonda delle rispettive vulnerabilità, laddove esse si presentano più fragili, più precariamente in equilibrio. E questa è un’operazione esistenziale che richiede di mettere in gioco un carico di energie spirituali troppo grandi, da poter essere esperita e sopportata al di fuori di una relazione duale o poco più.

venerdì 9 dicembre 2011

Piccole grandezze

Nel diventare grandi, si corrono due rischi principali. Uno sta nell’eventualità di tramutarsi in tutt’altra persona rispetto a quella che eravamo da piccoli. Il rischio complementare consiste invece nel rimanere esattamente la medesima persona di allora.

Nel primo caso, ci si ritrova ad essere degli adulti aridi, piuttosto privi di entusiasmi, eccessivamente calati in quella che potremmo definire la “nostra missione mondana”. Nella seconda ipotesi, si “sfocia” in individui immaturi, che pur ostentando in superficie una scorza di apparente personalità “cresciuta”, celano ancora nel proprio intimo meccanismi emotivi e di comportamento esclusivamente incentrati su logiche infantili.

Personalmente, non saprei proprio dire in quale dei due modi sono sortito, crescendo. Forse un po’ in tutti e due, che è poi quanto succede alla maggior parte delle persone. Quello che so di certo è che da piccolo travolgevo tutto con l’immaginazione. Mi bastava prendere un oggetto, il più insignificante e banale, e riuscivo a vederci dentro tutto un mondo. Stando alle cose che scrivo, non si direbbe che sono cambiato un granché, si può aggiungere. Ma credetemi se vi dico che all’epoca ero un vero piccolo portento immaginifico. Quando poi mi capitava di aver contribuito in qualche modo a realizzare l’oggetto da investire di fantasia, allora mi sentivo un demiurgo in miniatura.

Avevo fatto un cilindretto con il das, del diametro di pochi centimetri e di altezza ancora più corta. Di fatto era una rotella un po’ grassoccia, alla fine. Mentre la pasta era ancora fresca, con uno stuzzicadenti incisi la superficie laterale di piccoli taglietti, piuttosto regolari tutto intorno. Quando la formina si era seccata, l’avevo colorata di una tonalità tra l’ocra ed il rosso scuro. Le piccole incisioni laterali le avevo poi rifinite col nero, sottili righe leggermente incavate. Sotto due di quelle feritoie, ci aggiunsi una piccola porta, anch’essa un po’ in bassorilievo. Per distinguere tetto da base, feci una crocetta nera in basso, senza rilievi, e lì doveva posare; poi, alcuni altri piccoli taglietti sopra, con un foro per infilarvi lo stuzzicadenti, che avrebbe avuto il ruolo di pennone o di antenna, o di cosa diavolo altro sarebbe parso a me.

Se riesco a descrivere quel buffo oggetto ancora oggi con questa cura nei dettagli, un po’ è perché mi ci affezionai veramente. Un po’ è perché ricercandolo stamattina senza confidare troppo fra le vecchie cianfrusaglie, l’ho molto piacevolmente ritrovato.

Voi non potete neanche immaginare i viaggi mentali che mi sono fatto all’epoca, reggendo in mano quell’insulso malloppetto di pasta rinsecchita. Sì, perché nella mia fantasia smisurata e un po’ bacata, esso pretendeva di essere una riproduzione di Castel Sant’Angelo. Non ricordo come mai proprio quell’edificio. Lo avevo visto riprodotto forse sul mio album di figurine delle località d’Italia. A Roma ci sarei andato di persona soltanto diversi anni dopo, scoprendo che mi avrebbe riservato bellezze architettoniche ed urbanistiche molto più affascinanti. Ma la sagoma di Castel Sant’Angelo, e ancora adesso non saprei bene dirvi come mai, l’ho sempre percepita come una forma familiare, capace di trasmettermi sensazioni di intimità e di raccoglimento domestico del tutto speciali.

E non finiva lì: di volta in volta la mia sagometta poteva trasformarsi in un ruotone accidentalmente staccatosi da un trattore; oppure in una super villa lussuosa con piscina interna e attico con vista spiaggia; oppure, guardandola dalla parte della porticina, simile a una bocca, con le due finestrelle sottili ai lati a fare da occhi, diveniva la faccia di un totem misterioso; oppure ancora diventava mille e un’altra avventura mentale scaturita da chissà quale angolo della mia immaginazione strampalata.

C’è gente che per farsi dei viaggi mentali simili ha speso patrimoni in droga. Col senno di poi, è stata una vera fortuna che io sia riuscito nel medesimo intento spendendo soltanto due lire per pochi grammi di das.

Ma se sono venuto a raccontarvi oggi tutta questa tiritera, non è stato soltanto per riempire una paginetta con fatterelli ameni. La cosa più importante che volevo dire è invece un’altra. Quella potenza immaginifica ovviamente l’abbiamo posseduta un po’ tutti, da bambini. Mica mi volevo spacciare per il super-child caduto sulla terra dal pianeta Fantasy.

La cosa davvero fondamentale da sottolineare è come quella forza dell’immaginazione rappresenti per ciascuno il nucleo originario di ciò che da adulti prenderà il nome di cultura, intendendo la parola nella sua accezione più completa ed estesa possibile.

In questo senso, diventare grandi continuando a mantenere dentro il calco del bimbo che siamo stati, è fondamentale. Quella forza di saper intravedere il “possibile” in ogni angolo dell’esistenza, può rivelarsi il conforto e l’appoggio più saldo a disposizione per affrontare al meglio le insidie e le difficoltà che ci si parano innanzi a spron battuto nel corso del cammino dei nostri giorni (…a volte non riesco a resistere, devo piazzare lì un bel paio di frasi fatte, mi vien proprio voglia di espressioni ritrite e stantie, come una donna incinta che di colpo desidera gelato o fragole mature).

Aggiornando appropriatamente quell’energia infantile sui rinnovati registri adulti in cui ci ritroviamo a bazzicare, e riuscendo a convogliarla con le giuste proporzioni, ad esempio, sui rapporti con gli altri, o sull’amore, sugli affetti, sulle amicizie, sulla progettualità lavorativa o di altro possibile ambito, sulla capacità di provare gioie, sulla propensione a riflettere, e così via, avremo molte più probabilità di riuscire a tirare fuori l’«invisibile» dalle cose.

Badate bene, non sto parlando di sogni visionari o di mentali salti nel vuoto da pazzoidi. E’ invece di una cosa molto seria che sto parlando, semplice e complicata nel medesimo tempo. E’ del riuscire ad essere adulti con creatività, che sto parlando. Della capacità di fare in modo che il mondo diventi specchio del nostro desiderio di trasmettere ad esso bellezza.
Non è necessario venire chiamati artisti per poter essere creativi. Ciò che conta è saper lasciare sulle cose che facciamo l’impronta della nostra fantasia, conciliando il desiderio di libertà che alberga in noi fin da quando eravamo piccoli, con la disponibilità delle cose e degli eventi di lasciarsene investire.

E adesso, per la gioia di grandi e piccini, il mio piccolo antico malloppetto di das…è quiiiiiiiii:


 


martedì 6 dicembre 2011

Mi dispiace, ma ad occhi sbarrati (…e con un po’ di lingua) ti chiedo scusa


Oggi torno brevemente ad indignarmi (si fa per dire) di alcune inezie, dato che i grandi temi non mi si attagliano più di tanto. Se c’è una cosa che non sopporto sono quelle massime di saggezza affettiva che vengono propinate spesso con certe catene di Sant’Antonio via mail, oppure infarciscono taluni sedicenti vademecum del perfetto seduttore, o equipollenti manualetti delle regole d’amore e dei precetti sentimentali, oppure ancora provengono da altre fonti con pretese più o meno autorevoli ed artistiche.

Il fatto è che se te le bevi così senza pensarci su troppo, sulle prime queste ricette sbrigative ti impressionano pure. Pensate un po’ quanto sono stato idiota io, che per anni ho preso quasi sul serio una di queste massime, e solo ora la riconosco come una delle più superbe «...stron…”verso di zanzara”…ate…» mai pronunciate da bocca umana.

E’ quella che mi pare sia stata resa celebre dal film “Love story” e suona più o meno così: «...amare significa non dover mai dire mi dispiace…».

Ma perché?!?! Ma chi lo ha detto?!?!?

D’accordo, dal basso del mio asocialismo e dall’infimo gradino della mia inettitudine amoros-affettiva, non dovrei far altro che tacere. Ma per stavolta me ne sbatto e dico: con una persona alla quale tengo, se mi capita di fare un atto sconveniente, non riesco poi a dire altro se non “mi dispiace”. E’ proprio la prima frase che mi viene da dire, senza pensarci su nemmeno un secondo. Anzi, potendo, chiedo anche ampiamente scusa, o perdono. E alla grande, anche.

“…Perdono…”, “…scusami…”, “…ti chiedo scusa…”: sono parole bellissime. Sentite poi come suonano altrettanto vibranti queste espressioni in inglese: “…I’m sorry…” oppure “…forgive me…”, “...scuse me...”. Roba che ad uno (ad essere capaci…) gli viene una voglia matta di farsi subito un’amante inglese, solo per il gusto di combinarle una cazzata e poterle poi sussurrare: “...forgive me..”.

Per quale motivo parole così belle, poetiche, armoniosamente sonore, sarebbero state coniate su secoli di esperienza dai nostri saggi e sensibili avi, altrimenti? Solo perché ad un certo punto arrivasse un qualsiasi poetastro melassaro moderno con pretese “cancellatorie”, accampate non si sa bene su quali basi della logica affettiva? Ma vai a dar via le terga a nolo, vai…Io chiedo ampiamente scusa e perdono fin quando mi pare, e mi dispaccio a rotta di collo, perfino. Tiè!

Che poi, quelle fervide menti che s‘ingegnano a creare codeste perle di saggezza, ma si rendono conto di quali danni possono causare? Metti una copia normale, che si attenga scrupolosamente alla regola per anni. Si sa, nel tempo gli screzi e gli scazzi capitano. Ma loro no, ligi all’insegnamento da cartina del cioccolatino, tengono duro, non mollano. Piuttosto di cedere un piccolo “…scusa…” o un micragnoso “…mi dispiace…”, si gonfiano come degli scaldabagni di acredine mai sgasata fuori, di astio surriscaldato per mancanza di sfiato della valvola emotiva. Fino a quando, arriva la fatidica volta in cui “amore” non solo non significa più non dover dire mi dispiace, ma tutto d’un botto passa a significare direttamente “…vaffanculo…”.

Ma ce n’è un altro, di simili comandamenti affettivi, che negli ultimi tempi ho sentito ripetere anche fin troppo spesso e la cui insulsaggine altrettanto pretenziosa ho potuto soppesare ben bene, convincendomi ancor di più della vacuità mentale celata dietro a siffatto sentenzioso modo di aggirarsi per i sentieri del sentimento.

A rifletterci bene, non mi pare di aver mai udito una vaccata più sesquipedale di quella che recita nella seguente guisa: «...non fidarti di chi ti bacia senza chiudere gli occhi…». Basta un niente per accorgersi che questa formuletta non solo risulta banale e peregrina per il suo contenuto, interamente fondato sul modus operandi già catalogato dai latini con l'espressione “...ad mentula canis...”, ma contiene in sé anche il proprio antidoto.

A chi ce la propina infatti, è anche fin troppo agevole rispondere: «...e allora perché, lui (o lei...) dovrebbe fidarsi di te che, sempre durante il bacio, tieni gli occhi aperti per controllare se i suoi sono chiusi?…».



lunedì 5 dicembre 2011

No, we can't


Dopo che l’annuncio dei punti della manovra Monti ha fatto impennare alle stelle le quotazioni in borsa della ditta Svasànòl, multinazionale della vaselina, mi sono balzate alla mente un paio di riflessioni che virano facilmente in invito da rivolgere ai prossimi politici venturi che si appresteranno a stilare un programma elettorale per le nuove votazioni.

Personalmente non mi fiderò più di nessuno che osi andare oltre le pretese riposte in questo modesto motto: «…No, we can’t…». Ormai lo si è capito alla grande: il margine residuo rimasto alla politica per incidere davvero con cognizione di causa su qualcosa che riguardi la vita vera delle persone, è più risicato dei segmenti dell’Alfa Romeo di Nuvolari alla fine di una Mille Miglia.

«…Yes, we can…» proclamava il buon Obama una spicciolata di anni fa. Con tutto il rispetto per l’impegno profuso e la simpatia per l’uomo, che tuttora nutro, non si può fare a meno di constatare che nemmeno lui non ha “can” proprio ‘na bèla sega. Recentemente mi sono visto un documentario molto istruttivo in merito, intitolato «Inside job». Sapete che fine hanno fatto i super-manager delle grandi potenze finanziare USA (mega-banche, iper-agenzie, e così via), principali responsabili di tutti i casini economici che ci stanno rimbalzando tutt’ora in casa nostra? Dopo aver dato la stura a quella bella marea di liquame che tutti sappiamo, si sono beccati una lauta buonuscita e sono stati addirittura integrati negli apparati statali, in posti di responsabilità, sempre a smanettare su tematiche economiche e finanziarie.

Aho! Ah Obama…e meno male che proprio te eri quello che “cannava” così bene. Ecco, per l’appunto. La prossima volta, siamo più onesti dai, dì una cosa tipo: «…Yes, maybe we can do what is possibile…and the very very minimum…».

Perché adesso cosa gli andiamo a raccontare a quei nostri connazionali tardo cinquantenni che erano in procinto di andare in pensione fra qualche mese e si sono invece ritrovati nel giro di una nottata con 5 o 6 anni di lavoro in più sul groppone? Quale slogan si potrà sfoderare per l’occasione? Forse non rimane altro che: «…alèghèr, alèghèr, che ‘l spread del bund l’è sèmpèr nèghèr...».

domenica 4 dicembre 2011

Deo Dorante



Parlare male del consumismo, dopo averci sguazzato praticamente per una vita, non è mai segno di eccessiva onestà intellettuale. La considerazione mi pare di averla fatta già in altre occasioni. Però esercitare al meglio il proprio spirito critico, quello sì, è atto legittimo e anzi, non fa altro che bene alle idee circolanti e ad un loro eventuale miglioramento o risanamento.

Il discorso è un po’ sempre il solito. Quando le organizzazioni umane assumono dimensioni e livelli di complessità molto vasti, si corre il rischio che i loro meccanismi comincino a girare intorno a logiche che autoalimentano la loro propria propagazione, mentre nel frattempo si finisce per perdere di vista il vero scopo originario per cui esse sono state istituite, ossia il benessere e la prosperità umana.

Fatta la doverosa premessa, va aggiunto che è innegabilmente una goduria quando si riesce ad escogitare dei piccoli stratagemmi atti alla “fottitura” (per dirla con un raffinato lemma sociologico) delle distorsioni consumistiche più insulse.

Io non sono un fanatico dei profumi. Li preferisco “indossati” da una donna, se proprio lo volete sapere. Ma non mi piace neanche passare per il puzzone di turno. Per cui un minimo di odore artificioso me lo sbarbo pure io. Nella fattispecie, uso un modesto deodorante stick. Non faccio nomi di marche, ma ai fini del mio discorso, devo descrivere per sommi capi com’è fatta la confezione, anch’essa tra l’altro molto comune.

Si tratta di un cilindretto di plastica, con un cappuccio che si toglie, lasciando scoperta la capoccetta odorante, quella da applicare sulla parte interessata per ottenere le preventive finalità “depuzzatorie”. Per fare scorrere il materiale odorante, c’è una sorta di semplice marchingegno a vite: quando il livello dell’impasto profumifero si abbassa troppo, si dà un piccolo “turn of the screw” (ehehehhe…alla faccia della raffinatezza: cito Henry James in un ragionamento di deodoranti…) e la parte si rimbocca, pronta per nuove battaglie odorose.

Prima grande magagna: come dichiarato sul tubetto, ogni confezione contiene circa 40 ml di materia profumatoria. Tenendo conto che questo deodorante te lo porti a casa con 3 euro e 50 a botta, cent più cent meno, e facendo due calcoli, si capisce sin da subito quanto sia forte la tentazione di lasciarlo al negoziante e comperare invece un bel prosciutto intero come sostitutivo, rassegnandosi a puzzare un po’, ma almeno risparmiando denaro e deliziando il palato, un altro fra i cinque sensi non meno importante da curare.

E questo non è tutto. Facendo un po’ più attenzione al modo in cui è architettato il sistema di “estrusione” a vite, mi sono accorto che a tubetto finito, una discreta quantità di prodotto sei pressoché obbligato a sbatterlo via. Ora, non è per fare i taccagni pidocchiosi. Ma io dico, non facciamo altro che lamentarci tutto il santo giorno per ‘sta minchia di crisi e poi gettiamo al cesso i soldi in questo modo. Possibile che non si possa metterci un po’ più di cura, pazienza e logica nel progettare questi oggetti, che altrimenti, sommando piccolo spreco a piccolo spreco, producono alla fine grossi non sensi consumistici?

Per farvi capire meglio: il cilindretto interno scorrevole di pasta odorante è per buona parte agganciato alla sua base girevole. In pratica, una discreta quantità di prodotto ha solo una funzione di ancoraggio: è sempre profumo, ma viene usato per tenere attaccato tutto il resto. Quando alla fine il deodorante disponibile è completamente “livellato” ed ormai inutilizzabile, tutta quella parte in più rimane inaccessibile, perché celata sotto questa perversa soluzione d’aggancio. Per fare un buffo paragone, sarebbe come se in un’automobile, escludendo ovviamente i risvolti della pericolosità, la benzina venisse in parte usata per detergere i parabrezza.

Cosa ho escogitato allora a questo punto io, che sono una volpe della brughiera consumistica? Notando che la parte ancora buona, ma maldestramente incastrata, era tenuta ferma da una sorta di croce di plastica, non ho fatto altro che tagliare i braccini di questa croce, liberando quella notevole quantità di prodotto che avevo pagato (e nemmeno tanto a buon mercato, come abbiamo visto…), ma che il produttore mi voleva far sbattere nel cesso senza troppe remore.

Ripetendo l’operazione su diverse confezioni ormai pseudo-esaurite (almeno stando a quello che voleva darmi a bere quel frescone del produttore…), ne ho tirato fuori una quantità di deodorante ancora buono che equivale a 5 o 6 tubetti nuovi. Ho riposto il tutto in una ciotolina metallica ed è un mese e passa che non compero una confezione nuova, con il solo minimo inconveniente di dover spalmare il deodorante a mano.

Lo so, sarà un esempio stupido, ma può far riflettere. Molto spesso, soltanto per pigrizia, per inerzia, accettiamo soluzioni consumistiche demenziali, sprecando denaro e in fin dei conti, anche dignità personale, perché ogni volta che si agisce da idioti, anche se indotti subdolamente da altri, non c’è mai da andarne fieri.

Poniamo allora più attenzione ai dettagli su queste cose e quando ci accorgiamo che un qualche ammennicolo teoricamente pensato per agevolare la nostra vita quotidiana, in realtà la rende più stupida, non esitiamo ad appellarci all’imperativo morale riassumibile col nobile motto: «…Fotti il produttore!!!...».

sabato 3 dicembre 2011

L’educazione gillipixiale


Il cacciatore di “epifanie” non si spaventa nemmeno di fronte ad ore di lettura faticosa. Quando si affronta un libro universalmente riconosciuto come un classicone della letteratura di tutti i tempi, bisogna avere fiducia, prima o poi la stilla preziosa di saggezza esistenziale gocciola fuori.

A volte vale tutta la fatica, a volte forse no, ma un’epifania del lettore è pur sempre essa stessa, nelle sue modalità di concretizzazione e di comparizione, metafora dei momenti di gioia che possono capitare lungo lo scorrere dei giorni di una persona. Una gioia genuina compare fulminea, dona spesso un senso di pienezza d’animo quasi spasmodica, è totalizzante, s’impadronisce di quel momento attraversando tutte le nostre fibre, da un punto di vista sia fisico che spirituale.

Qualcosa di simile avviene con le “epifanie del lettore”. Sono dardi di verità scagliati all’impazzata contro la barriera della nostra inconsapevolezza riguardo al senso ultimo del vivere. Sono squarci di luce vividissima, che sbaragliano per una frazione di tempo le barriere del senso comune, traducendo in parole lineari, conoscenze che già risiedevano nel profondo di noi stessi, ma che mai erano riuscite a salire a galla per respirare a fondo la vivificante aria della meraviglia pura.

Ma al di là di tutte queste suggestioni, cosa è successo in pratica? Avevo già accennato che mi sto cimentando con la difficoltosa lettura di un capolavoro senza tempo, «L’educazione sentimentale» di Gustave Falubert. Si è trattato di una prova veramente ardua, e ancora non ho terminato. Il testo a tratti è abbastanza pesante, si perde in meandri descrittivi stucchevoli, si addentra in dettagli storici noiosi (almeno, per come la vedo e la sento io…). Di certo, letture di simile complessità andrebbero affrontate con una preparazione critica e storica accurate e non muovendosi allo sbaraglio, come ho fatto io.

Nonostante queste mie limitazioni di approccio, sono ad ogni modo riuscito a cogliere quanto il valore letterario sia innegabile in questa opera. Si sente, e non sta certo a me dirlo: la costruzione viene giostrata con grande maestria, lo stile lascia ammirati, tanto lo si scopre impeccabile e congeniale ai contenuti. Insomma: una lettura che sono contento di aver affrontato. Però ancor più contento mi sono sentito incappando in due particolari passi, che mi hanno parlato di me, mi hanno detto cose che nella loro universalità sento molto anche mie. E questi passi, dicendo di queste cose, me ne hanno evocate altre, per associazione concettuale, per senso di affinità esistenziale.

I due brani sono piuttosto distanti fra loro, nel corso del testo, ma a mio avviso si abbinano mirabilmente per attinenza argomentativa. Parlano del rivelarsi agli altri, soprattutto con i due mezzi privilegiati di cui disponiamo per aprire il nostro animo: la parola scritta e quella parlata. Parlano di come la necessità di trovare una vera fusione con gli altri, la genuina comprensione reciproca, si riveli regolarmente ed inevitabilmente un compito pressoché impossibile, ma al quale nessun essere umano vorrà mai rinunciare. Parlano addirittura delle frustrazioni di un blogger, ebbene sì, anche di questo.

Parlano di come tutto questo venga amplificato dalla constatazione di quanto sia altrettanto difficile spiegare a se stessi il proprio medesimo animo. Parlano del continuo, involontario, eppure inevitabile, “inganno” che la nostra natura di uomini ci impone di condurre quotidianamente nello scambio sociale. Anche quando (per fortuna la maggioranza dei casi…) non è per malafede, non per malvagità, non per secondi fini. Ma per l’inevitabilità che accompagna l’«inconoscibile», celato nelle più remote profondità dell’essenza degli umani.

Ecco il primo, epifanico passaggio:

«…A furia di scrivere tutti i giorni su ogni genere di argomenti, di leggere una quantità di giornali, di ascoltare continuamente discussioni e di emettere continuamente paradossi per far colpo su qualcuno, aveva finito col perdere l’esatta nozione delle cose, accecandosi da solo con i suoi poveri petardi…».

Ed ecco il secondo:

«…Voleva lasciar intendere, con queste parole, parecchi successi, per dare di se stesso un’opinione migliore, così come Rosannette non gli confessava tutti i suoi amanti perché lui la stimasse di più. Ci sono sempre, anche nel mezzo delle confidenze più intime, di queste restrizioni; per falso pudore, delicatezza, pietà. Nell’altro, o in se stessi, si scoprono vuoti vertiginosi, tratti di fango che impediscono di andare avanti; ci si rende conto che non si sarebbe capiti; esprimere qualcosa con esattezza è sempre così difficile. Per questo le unioni complete sono tanto rare…».

“L’educazione sentimentale”
Gustave Flaubert - 1869

venerdì 2 dicembre 2011

Sfffoghi



Chiedo perdono in anticipo, stasera sarò telegrafico, volgare, gretto e qualunquista.

Avevo sentito parlare con soddisfazione nei giorni scorsi della decisione del sindaco di Milano Pisapia di istituire una multa per quei negozianti che si ostinano a tenere aperte le porte dei loro esercizi commerciali, sprecando notevoli quantità di calore in inverno e di aria refrigerata in estate . Lo so, come al solito ci sono mille problemi più gravi al mondo, ma questa cosa mi fa incazzare in modo inverosimile. Ne parlai già in passato.

Ora spero che il sindaco non torni sui suoi passi e, anzi, auspico che il suo esempio venga seguito anche in altre città. Perchè ho sentito in un servizio alla tele che i commercianti hanno pure protestato: la porta chiusa creerebbe una barriera psicologica per il consumatore!!!

Minchia speziata!!! Non le posso sentire queste cagate!!!

Altro che multa...bisognerebbe mandare in giro pattuglie di botti di liquame con bocchettone ad alzo zero, e giù bordate di merda come piovesse, se non ti degni di chiudere quella minchia di porta!!!

Niente, per oggi questo è quanto, cari amici viandanti per pensieri. Tornerò presto a parlarvi di faccende culturali e di bellezza, ma stasera mi scappava questo bieco sfogo, portate pazienza...
 

giovedì 1 dicembre 2011

It never rains in Gillipixiland, but girls don’t they warn ya


Ma cosa ci posso fare se fra le prerogative in me più radicate c’è anche quella di riuscire a cogliere spesso in contemporanea lo schifo ed il sublime della vita?
E dire che in generale, questo mio ultimo periodo lo si potrebbe sottotitolare con la seguente perla di ottimismo: «…Se Noè avesse avuto il dono di leggere il futuro sicuramente avrebbe affondato la sua barca...».

Parola di Emil Cioran.
Minchia!

Eppure oggi mi è capitato di conoscere una bella persona. Una donna. No, no…cosa andate a pensare…non ci sono in ballo implicazioni di nessun tipo. E’ stato solo un bell’incontro, accaduto giusto per il gusto di vedermi con una persona interessante. E tornando a casa in macchina, l’autoradio me lo ha confermato: «…non piove mai a Gillipixiland, ma il fatto è che le ragazze non ti avvisano…».