Incubi vissuti
"...Guidando, dietro un camion,
lentissimo,
la strada stretta, non potevo sorpassare.
Tanfo di diesel nell'abitacolo,
fetentissimo,
l'ultima canzone di Ligabue dalla radio,
la frequenza non riuscivo a cambiare..."
fetentissimo,
l'ultima canzone di Ligabue dalla radio,
la frequenza non riuscivo a cambiare..."
*******
Questa è una confessione: mi sento sempre più scrittura pura.
La consapevolezza mi si intensifica dentro col passare del tempo. Le altre mie specificazioni esistenziali si stanno lentamente travasando nell’atto dello scrivere. La mia dimensione è lì, lo sento con forza sempre rinnovata ogni giorno che passa.
Non uno scrittore, badate bene. Ma uno che vive attraverso la parola da sé medesimo prodotta su supporto muto. Il mio buttar giù parole non ha pretese di essere particolarmente qualitativo. Ci metto tutta la cura di cui sono capace, quello sì.
Pervenire ad un qualche preciso esito non è tuttavia lo scopo. Quasi potrei dire che uno scopo non c’è, nel senso che non inseguo un obiettivo finale, ma mi interessa molto di più il cammino da affrontare, l'attimo dopo attimo del percorrere spazi mentali peculiari. C’è solo un sentirsi vivi nell’atto del riversare me stesso in questa ventina di segnetti neri chiamati lettere, allineati ed accostati secondo una orchestrazione che segua una certa misura significante.
Avrete sentito parlare della sindrome dei «savant» (pronuncia: «savàn'»), persone che hanno specializzato in misura straordinaria un talento specifico, per lo più e purtroppo in correlazione con forme più o meno gravi di autismo. Ecco, la mia metamorfosi in un “uomo-scritto” ha vagamente qualcosa a che vedere con quel fenomeno. Ci sono solamente alcune “lievi” differenze. Io non sono autistico, ma giusto un filino esageratamente asociale. Mentre la mia privata translitterazione personale in forma di scrittura vivente non ha niente di portentoso, bensì ama bazzicare con maggior preferenza nel territorio del nonsenso paradossale, laddove la parola, rasentando i cieli altissimi della deriva semantica, si scrolla di dosso la logica per indossare le nubi della “follia autocompositiva”.
Ecco allora che nel mio caso, invece di «savant», sarebbe più preciso parlare di «gnurànt» (pronuncia: «gnuràn'»).
Una qualche mattina fa, per dire, sognavo nel dormiveglia tardo notturno una storia fatta di parole che si andavano forgiando da sole, a colpi di contorsioni sillabiche, ribaltamenti fonetici e strafalcianti intoppi verbosi.
In questa storia, una donna e un uomo vivevano di un'energia riverberante reciproca, si rimbombavano l'un l'altra, si rimbambivano l'altra l'un, attraverso intense eco emotive. Per dirla in breve, una vera e propria “risonanza magnetica” li attraversava. Non c'era attimo della giornata che i due vibranti esseri simbiotici non trascorressero in intensa intesa senza attese. Persino nei frangenti più grevi, le loro frequenze personali si rimbalzavano in piena armonia.
Metti che lui nella ritirata si ritirasse con una certa urgenza. I suoni provenienti da oltre la porta parlavano a lei come un libro aperto. Il rumore della tavoletta abbassata, in virtù di una magico chiasmo di significati e movenze circolari, quasi che il vile ammennicolo igenico riassumesse in sé la portata semantica di un imbanditura prandiale rotante, le rammentava di aver lasciato l'auto parcheggiata in zona “desco orario” [1]. Giusto il tempo di correre di sotto, per rinnovare il margine di stazionamento veicolare, che nel rientrare la profonda eco di una scoppiettante “petizione” [2] la accoglieva di nuovo nel bel mezzo della loro intesa perfetta, assolutamente priva di confini espressivi.
Del resto lui non aveva più badato a spese da quando si era messo a pulirsi con la “carta di credito”, folgorato sulla strada di Fregene, fraintendendo rudemente il senso della parola igiene come novella categoria economica, rimestando fra profilassi e parallasse.
E riemergendo dalla titanica seduta, lui si metteva ad annusarla per ogni dove del corpo e le sussurrava trasognato: «...ti adoro...», per poi proseguire in quel suo rito intimo con magniloquenti prostrazioni al cospetto di lei, inchini ai suoi piedi, inginocchiamenti di affetto plateale, aggiungendo: «...ti odoro...».
«...I suoi soliti “vocalizzi” [3]...» non poteva fare a meno di concludere lei, accogliendo di buon grado quella sarabanda o scorribanda, a banda larga.
La consapevolezza mi si intensifica dentro col passare del tempo. Le altre mie specificazioni esistenziali si stanno lentamente travasando nell’atto dello scrivere. La mia dimensione è lì, lo sento con forza sempre rinnovata ogni giorno che passa.
Non uno scrittore, badate bene. Ma uno che vive attraverso la parola da sé medesimo prodotta su supporto muto. Il mio buttar giù parole non ha pretese di essere particolarmente qualitativo. Ci metto tutta la cura di cui sono capace, quello sì.
Pervenire ad un qualche preciso esito non è tuttavia lo scopo. Quasi potrei dire che uno scopo non c’è, nel senso che non inseguo un obiettivo finale, ma mi interessa molto di più il cammino da affrontare, l'attimo dopo attimo del percorrere spazi mentali peculiari. C’è solo un sentirsi vivi nell’atto del riversare me stesso in questa ventina di segnetti neri chiamati lettere, allineati ed accostati secondo una orchestrazione che segua una certa misura significante.
Avrete sentito parlare della sindrome dei «savant» (pronuncia: «savàn'»), persone che hanno specializzato in misura straordinaria un talento specifico, per lo più e purtroppo in correlazione con forme più o meno gravi di autismo. Ecco, la mia metamorfosi in un “uomo-scritto” ha vagamente qualcosa a che vedere con quel fenomeno. Ci sono solamente alcune “lievi” differenze. Io non sono autistico, ma giusto un filino esageratamente asociale. Mentre la mia privata translitterazione personale in forma di scrittura vivente non ha niente di portentoso, bensì ama bazzicare con maggior preferenza nel territorio del nonsenso paradossale, laddove la parola, rasentando i cieli altissimi della deriva semantica, si scrolla di dosso la logica per indossare le nubi della “follia autocompositiva”.
Ecco allora che nel mio caso, invece di «savant», sarebbe più preciso parlare di «gnurànt» (pronuncia: «gnuràn'»).
Una qualche mattina fa, per dire, sognavo nel dormiveglia tardo notturno una storia fatta di parole che si andavano forgiando da sole, a colpi di contorsioni sillabiche, ribaltamenti fonetici e strafalcianti intoppi verbosi.
In questa storia, una donna e un uomo vivevano di un'energia riverberante reciproca, si rimbombavano l'un l'altra, si rimbambivano l'altra l'un, attraverso intense eco emotive. Per dirla in breve, una vera e propria “risonanza magnetica” li attraversava. Non c'era attimo della giornata che i due vibranti esseri simbiotici non trascorressero in intensa intesa senza attese. Persino nei frangenti più grevi, le loro frequenze personali si rimbalzavano in piena armonia.
Metti che lui nella ritirata si ritirasse con una certa urgenza. I suoni provenienti da oltre la porta parlavano a lei come un libro aperto. Il rumore della tavoletta abbassata, in virtù di una magico chiasmo di significati e movenze circolari, quasi che il vile ammennicolo igenico riassumesse in sé la portata semantica di un imbanditura prandiale rotante, le rammentava di aver lasciato l'auto parcheggiata in zona “desco orario” [1]. Giusto il tempo di correre di sotto, per rinnovare il margine di stazionamento veicolare, che nel rientrare la profonda eco di una scoppiettante “petizione” [2] la accoglieva di nuovo nel bel mezzo della loro intesa perfetta, assolutamente priva di confini espressivi.
Del resto lui non aveva più badato a spese da quando si era messo a pulirsi con la “carta di credito”, folgorato sulla strada di Fregene, fraintendendo rudemente il senso della parola igiene come novella categoria economica, rimestando fra profilassi e parallasse.
E riemergendo dalla titanica seduta, lui si metteva ad annusarla per ogni dove del corpo e le sussurrava trasognato: «...ti adoro...», per poi proseguire in quel suo rito intimo con magniloquenti prostrazioni al cospetto di lei, inchini ai suoi piedi, inginocchiamenti di affetto plateale, aggiungendo: «...ti odoro...».
«...I suoi soliti “vocalizzi” [3]...» non poteva fare a meno di concludere lei, accogliendo di buon grado quella sarabanda o scorribanda, a banda larga.
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Glossario idiotale:
[1] = Il gioco di parole “ruota” attorno ai termini “tavoletta” del wc (col relativo movimento rotatorio), “tavola” come tavola da pranzo → desco → disco → disco orario, il tutto suggellato insieme per similitudine rotatoria.
[2] = Il gioco di parole ruota qui attorno ad una sola fulminazione neuronale, in virtù della quale una gragnuola di peti si muta in petizione.
[3] = Il gioco di parole ruota qui attorno al fatto che il protagonista scambia le definizioni dei due gesti, odorare e adorare, con il solo fallo di una vocale per volta.
2 commenti:
splendida coppia, contesto solo la spiegazione finale: i tuoi lettori/lettrici c'erano giaà arrivat da soli!
comunque sostengo da tempo la necessità che tu faccia leggere "in giro" ciò che scrivi, proprio perché rappresenta il tuo profumo migliore.
bacini odorosi
@->Farly: grazie, Farly :-) più in giro che su internet, non saprei dove metterle :-) forse sono cose troppo strambe, chi lo sa...riguardo alla spiegazione, beh, lo so, hai anche ragione, ma non dimenticare la tua essenza di mezza chimera che ti fa sintonizzare in maniera speciale sulle mie frequenza folli :-) magari non per tutti erano così chiare le mie boiatine :-)
Bacini al profumo di sempre :-)
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