«...The hours to the sunrise creep, but I don't care
There is no hope for any sleep if you're not here
In another city, in another bed you're sleeping
So won't you come and visit me when I'm dreaming...»
“Bedroom eyes” – Dum dum girls - 2011
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Come a tante altre persone nel mondo, anche a me piace un sacco il cinema. Non mi reputo un esperto e nemmeno potrei pretendere di esserlo. Semplicemente, trovo bello annoverare anche questo interesse fra le mie passioni, perché ritengo che possa offrire, non solo uno stupendo modo di trascorrere il tempo (e fosse tutto qui, si ridurrebbe a poca cosa), ma soprattutto importanti opportunità di crescita culturale, di ampliamento degli orizzonti mentali, di raffinamento della proprio saggezza affettiva e spirituale.
Detto questo, se per caso mi domandaste quale genere di film preferisco, risponderei che non lo so. La classificazione entro un qualche genere, certo, ha la sua importanza. Ma la reputo questione del tutto accessoria ad un altro tipo di catalogazione, ben più decisiva. L’unica suddivisione che mi sta a cuore veramente è infatti quella che stabilisce se si tratti di un film bello o di un film brutto. So che detta così, potrà apparire una di quelle solite frasette sibilline e un po’ stupide, sparate lì tanto per il gusto di lasciare il lettore stupefatto dal quel sotterraneo sentore all’aroma di “dico tutto e niente”.
Un minimo di motivazione ve la devo, dunque. A mio parere, ci troviamo di fronte ad un film bello, quando, nell’intenzionalità e negli esiti dell’operato dei suoi artefici (dall’ultimo umile battitore di ciak, su su, sino al regista o alla stella di turno), sussistono questi tre requisiti: passione nel racconto, onestà intellettuale nel raccontare e relative competenze narrative e tecniche proporzionate alla complessità di quanto s’intende raccontare. Se queste tre componenti, o anche solo una o due di esse, non sono riscontrabili nella pellicola, oppure sono presenti in misura scarsa o con notevoli lacune, ecco che si può cominciare a parlare di film brutto, nelle più svariate gradazioni del termine.
Ecco allora com’è possibile spiegare la superabilità del discorso dei generi. Ed ecco introdotta anche una significativa postilla al medesimo discorso: possiamo trovare film belli in tutti i generi, ma soprattutto a tutti i livelli qualitativi considerati. Ovviamente, va sempre salvaguardata la valutazione del “grado assoluto di artisticità”. Una commediola spensierata e intrisa di disimpegno totale, non può essere paragonata, in quanto a grado di bellezza, ad un capolavoro di qualche maestro della cinematografia. Ciò non toglie tuttavia, che possiamo giudicare entrambe le pellicole, ciascuna secondo le “proporzioni estetiche” che le competono, a proprio modo “bella”.
In questo senso, non trovo nulla di scandaloso nel dire, ad esempio, che “Trappola in alto mare” (con quel gran caciottaro di Steven Seagal) e “Film bianco” di Krzysztof Kieslowski, sono entrambi film belli. Ferma restando, e lo ripeto senza mai stancarmi, l’imprescindibile distinzione che ci ricorda come il primo sia di fatto un filmetto ed invece il secondo un capolavoro. Tutto sta nel non perdere mai di vista il bilancio fra “pretese” ed “esiti”. “Film bianco” si propone di dar vita ad un’indagine esistenziale e poetica di particolare spessore, e riesce perfettamente nell’intento. La pellicola con Seagal vuole invece molto semplicemente far passare allo spettatore due ore di divertimento, infarcite di onesti colpi di scena e suspence, il tutto intessuto intorno alla nobilissima arte del raccontare grosse palle, ma con intelligenza e non senza una discreta dose di ironia. Anche questo film sa tener fede al proprio “capitolato d’appalto”, ed è proprio in questa ottica (e solo in questa ottica), che possiamo definire entrambi i film belli e capaci di arrecare, pur nei diversi gradi di complessità cui si è fatto cenno, una forma di “godimento estetico” per lo spettatore.
Badate bene, non ho usato l’espressione “arte del raccontare grosse palle” in senso dispregiativo o snobistico. Tutt’altro. Parlavo invece molto seriamente. Su questa capacità si gioca infatti tutta la potenziale portata di bellezza derivabile dalla visione di quell’infinita serie di film d’azione, che in estrema sintesi potremmo classificare sotto la voce “americanate”. Raccontare grosse palle, soprattutto in quell’ambito, è davvero un’arte. Quando il regista di una di queste pellicole viene a raccontarmi che gli asini volano, non me la prendo pregiudizialmente, proprio per nulla. Anzi: se riesce a farlo in modo elegante, intelligente, arguto, se sa architettare una storia affascinante al punto da farmi arrivare vicino all’illusione di poter credere anche enormità simili, non posso che esserne contento e felicitarmi con lui, ringraziarlo addirittura per il regalo che mi ha confezionato con la sua sapienza artigiana di narratore.
Le note dolenti si cominciano invece ad orecchiare quando il film pretende sì di raccontarmi che gli asini volano, ma lo fa affidandosi a mezzi così strampalati, così beffardamente maldestri, così scopertamente stupidi, da sortire alla fine in un racconto raffazzonato, privo della benché minima dignità, sfilacciato, fiacco, goffamente incoerente, bolso come l’ultimo e più scarso ronzino della scuderia. Ecco, è esattamente in questi casi che, non solo riconosco, ovviamente, la lampante bruttezza del film, non solo provo irritazione, fastidio e repulsione per l’opera in questione, ma addirittura (se mi si passa un termine tecnico correntemente in uso nel vocabolario dei più autorevoli critici cinematografici) mi sento preso bellamente per il culo.
Detto questo, se per caso mi domandaste quale genere di film preferisco, risponderei che non lo so. La classificazione entro un qualche genere, certo, ha la sua importanza. Ma la reputo questione del tutto accessoria ad un altro tipo di catalogazione, ben più decisiva. L’unica suddivisione che mi sta a cuore veramente è infatti quella che stabilisce se si tratti di un film bello o di un film brutto. So che detta così, potrà apparire una di quelle solite frasette sibilline e un po’ stupide, sparate lì tanto per il gusto di lasciare il lettore stupefatto dal quel sotterraneo sentore all’aroma di “dico tutto e niente”.
Un minimo di motivazione ve la devo, dunque. A mio parere, ci troviamo di fronte ad un film bello, quando, nell’intenzionalità e negli esiti dell’operato dei suoi artefici (dall’ultimo umile battitore di ciak, su su, sino al regista o alla stella di turno), sussistono questi tre requisiti: passione nel racconto, onestà intellettuale nel raccontare e relative competenze narrative e tecniche proporzionate alla complessità di quanto s’intende raccontare. Se queste tre componenti, o anche solo una o due di esse, non sono riscontrabili nella pellicola, oppure sono presenti in misura scarsa o con notevoli lacune, ecco che si può cominciare a parlare di film brutto, nelle più svariate gradazioni del termine.
Ecco allora com’è possibile spiegare la superabilità del discorso dei generi. Ed ecco introdotta anche una significativa postilla al medesimo discorso: possiamo trovare film belli in tutti i generi, ma soprattutto a tutti i livelli qualitativi considerati. Ovviamente, va sempre salvaguardata la valutazione del “grado assoluto di artisticità”. Una commediola spensierata e intrisa di disimpegno totale, non può essere paragonata, in quanto a grado di bellezza, ad un capolavoro di qualche maestro della cinematografia. Ciò non toglie tuttavia, che possiamo giudicare entrambe le pellicole, ciascuna secondo le “proporzioni estetiche” che le competono, a proprio modo “bella”.
In questo senso, non trovo nulla di scandaloso nel dire, ad esempio, che “Trappola in alto mare” (con quel gran caciottaro di Steven Seagal) e “Film bianco” di Krzysztof Kieslowski, sono entrambi film belli. Ferma restando, e lo ripeto senza mai stancarmi, l’imprescindibile distinzione che ci ricorda come il primo sia di fatto un filmetto ed invece il secondo un capolavoro. Tutto sta nel non perdere mai di vista il bilancio fra “pretese” ed “esiti”. “Film bianco” si propone di dar vita ad un’indagine esistenziale e poetica di particolare spessore, e riesce perfettamente nell’intento. La pellicola con Seagal vuole invece molto semplicemente far passare allo spettatore due ore di divertimento, infarcite di onesti colpi di scena e suspence, il tutto intessuto intorno alla nobilissima arte del raccontare grosse palle, ma con intelligenza e non senza una discreta dose di ironia. Anche questo film sa tener fede al proprio “capitolato d’appalto”, ed è proprio in questa ottica (e solo in questa ottica), che possiamo definire entrambi i film belli e capaci di arrecare, pur nei diversi gradi di complessità cui si è fatto cenno, una forma di “godimento estetico” per lo spettatore.
Badate bene, non ho usato l’espressione “arte del raccontare grosse palle” in senso dispregiativo o snobistico. Tutt’altro. Parlavo invece molto seriamente. Su questa capacità si gioca infatti tutta la potenziale portata di bellezza derivabile dalla visione di quell’infinita serie di film d’azione, che in estrema sintesi potremmo classificare sotto la voce “americanate”. Raccontare grosse palle, soprattutto in quell’ambito, è davvero un’arte. Quando il regista di una di queste pellicole viene a raccontarmi che gli asini volano, non me la prendo pregiudizialmente, proprio per nulla. Anzi: se riesce a farlo in modo elegante, intelligente, arguto, se sa architettare una storia affascinante al punto da farmi arrivare vicino all’illusione di poter credere anche enormità simili, non posso che esserne contento e felicitarmi con lui, ringraziarlo addirittura per il regalo che mi ha confezionato con la sua sapienza artigiana di narratore.
Le note dolenti si cominciano invece ad orecchiare quando il film pretende sì di raccontarmi che gli asini volano, ma lo fa affidandosi a mezzi così strampalati, così beffardamente maldestri, così scopertamente stupidi, da sortire alla fine in un racconto raffazzonato, privo della benché minima dignità, sfilacciato, fiacco, goffamente incoerente, bolso come l’ultimo e più scarso ronzino della scuderia. Ecco, è esattamente in questi casi che, non solo riconosco, ovviamente, la lampante bruttezza del film, non solo provo irritazione, fastidio e repulsione per l’opera in questione, ma addirittura (se mi si passa un termine tecnico correntemente in uso nel vocabolario dei più autorevoli critici cinematografici) mi sento preso bellamente per il culo.
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(…constatando che il presente articoletto mi si sta allungando oltremodo, ho deciso di chiudere qui l’intervento di oggi e di rimandarvi ad una seconda puntata. Grazie per l’attenzione and…see you later Alligator…)
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