Ogni opera frutto della creatività umana che sia indirizzata alla diffusione di particolari contenuti e significati, attraverso l’utilizzo dei canali espressivi più diversi, può essere vista anche come un “dispositivo” atto ad innescare emozioni. La propensione è di volta in volta variamente graduata, a seconda della maggiore o minore “intenzionalità artistica” insita nell’opera. Di fatto tuttavia una ricerca dell’emozione suscitata è sempre presente.
L'ho presa su un po' alla larga e concettuosa, ma nella sostanza ho detto una roba abbastanza scontata. Quando l'uomo si mette in comunicazione coi propri simili servendosi di un linguaggio, qualunque esso sia, non può fare a meno di metterci dentro un pizzico di emotività, pur anche minimo, ma sempre imprescindibile. Anche nel congegnare il più asettico dei saggi scientifici, tanto per fare un esempio estremo, l'autore si premura di escogitare un'architettura espositiva che possa giungere al lettore in maniera piana e lineare, che non s'incagli contro il limite della sua disponibilità a comprendere, ecc.
Non sono di certo il più indicato a discettare di temi simili, ma anche solo ripensando alla mia modesta esperienza scolastica, mi sento di dire che addirittura la matematica può rivelarsi fonte di emozioni molto intense. E non mi riferisco solo alla fifa di beccarsi un 4 in pagella. La bellezza nella costruzione logica di certi teoremi di geometria, me la ricordo ancora oggi molto favorevolmente, con entusiasmo analogo serbato all'epoca alle migliori poesie.
Lo stesso “Tractatus logico-philosophicus” di Wittgenstein, il capolavoro dei capolavori per quel che concerne la ricerca di un'oggettività assoluta nell'ambito delle potenzialità del linguaggio stesso, rimane pur sempre uno scritto capace di trasmettere un rimarchevole coinvolgimento estetico, in forza della propria eleganza compositiva e strutturale.
Figuriamoci cosa succede poi quando abbiamo a che fare con opere nate direttamente con l'intento di stuzzicare, in misura pressoché pura, le riserve emotive del destinatario. Come nel caso di tanti film, per esempio.
Fin qui insomma non vi ho detto granché di nuovo. Una cosa curiosa però, da me appurata qualche sera fa in modo più lampante di quanto mi fossi mai reso conto prima, è che può anche succedere di essere presi dentro una “scia emotiva a strascico”, per così dire. Capita magari di vedere un film in grado di emozionare in modo notevole e subito a seguire di immergersi fra i flutti evocativi di un'altra pellicola, per poi passare ancora appena dopo alle suggestioni di un libro, tanto che alla fine ci si ritrova scombussolati in un piacevole smarrimento entro il quale si stenta ad assegnare a ciascun territorio emotivo esplorato la paternità effettiva.
La serata l'avevo iniziata con un film di “pancia pura”, intitolato «Nella rete del serial killer». Stando ai criteri da me medesimo definiti alcune puntate fa, si è trattato di un film “onesto”, se si eccettuano alcune sbavature di gusto e qualche pecca nella risoluzione finale della trama. Il suo obiettivo principale era suscitare tensione nello spettatore, inquietudine, paura ed amenità simili. Non sarà certo un capolavoro del genere (solo pensando ad Hitchcock o a Kubrick, ogni paragone crolla miseramente), ma di fatto un buon prodotto di artigianato filmico sì, lo possiamo considerare tale. In ogni caso, quel che importa nell'economia del presente discorso è che di adrenalina se ne manda giù durante la visione, indubbiamente.
Il serial killer in questione è un pazzoide che impianta tutto un marchingegno online, in modo da trasmettere al mondo intero l'agonia delle sue vittime via web. Non solo. Fa anche in modo che i metodi di uccisione di volta in volta messi in atto, tutti basati sul criterio di un incremento graduale del supplizio inflitto, risultino accelerati in proporzione al numero di persone connesse al suo perverso sito. Già di per sé l'idea è sufficientemente malvagia e degna di una mente diabolica fortemente malata. Se poi ci si aggiunge il fatto che narrativamente è giostrata abbastanza bene (pur con alcune magagne qua e là, come detto), è del tutto giustificato dire che alla fine ci si ritrova ad osservare i titoli di coda con una buona dose di farcitura emotiva in corpo.
Ora, sono certo che nessuno di voi ne avrà mai sentito parlare, perché mi sto inventando la cosa esattamente in questo momento, ma dovete sapere che esiste un'unità di misura della “farcitura emotiva”. Si tratta del “dreammone”, quantificabile nella ragione di un lascito emotivo depositato nell'animo equivalente all'esito postumo di un sogno di media intensità. Se ci fate caso, al di là della “idiotezza” del mio metaforizzare, dopo aver goduto della lettura di un libro o di un film particolarmente coinvolgenti, ci si sente come reduci da un sogno. Ed è vera anche la controprova: se un sogno non ci ha regalato emozioni degne di nota, svanisce al risveglio, così come la storia di un libro o di un film, quando si richiudono le pagine, si esce dalla sala o si spegne la tele.
Questo film, «Nella rete del serial killer», di “dreammoni”me ne aveva lasciati dentro parecchi. Me ne sono reso conto quando, non pago della scorpacciata emotiva, ho voluto nicchiare ancora un po' prima di recarmi a letto, ed ho fatto partire il dvd di uno stupendo cartone animato del maestro giapponese Hayao Miyazaki: «La città incantata». Le opere di Miyazaki mi lasciano sempre leggermente perplesso, stranito, ma assolutamente mai indifferente. Di lui avevo già visto «Il castello errante di Howl». Innanzitutto, la ricercatezza surreale delle storie è la prima cosa che colpisce, e poi s'impone la bellezza delle immagini. Nel film in questione, «La città incantata», la storia è più bizzarra ed evocativa che mai e addentrandosi nelle vicende, ci si accorge che il tema conduttore s'impernia fondamentalmente attorno alle paure infantili. Non che sia palesemente dichiarato, ma lo si subodora, te lo senti filtrare per la pelle.
Qui viene il punto curioso del mio scrivere di oggi. Mentre mi calavo nelle nuove atmosfere di Miyazaki, sentivo che il substrato di “dreammoni” depositato fra le pieghe della mia sensibilità dalla visione di «Nella rete del serial killer», continuava a lavorare sotterraneo, macinava ancora “quanti” emotivi. Le sensazioni risultanti erano parecchio originali: una sommatoria non meglio definita di spunti emotivi, uno smarrimento fra contraddittorie sensazioni, che tuttavia, non so in virtù di quali insolite alchimie, sembravano compensarsi a vicenda, amalgamarsi con profitto, distribuirsi con ordine fra i ranghi della mia capacità ricettiva delle gradazioni dell'animo. Le paure infantili erano rinfocolate dal soffio potente delle terrorizzanti situazioni adulte visionate nel primo film. L'irrazionale, il tremendo, il terrificante, il terrorizzante, si saldavano armonicamente all'ignoto, all'inesplorato ed al senso calamitante che con regolarità accompagna queste due ultime dimensioni. La poetica della seconda opera, insomma, si nutriva del sottofondo sensazionale depositato dalla prima, innalzando in me questo strano edificio di reazioni interiori.
E non era mica finita lì. Quando ho sentito risuonare internamente il tipico richiamo biologico all'odor di legno norvegese, «...it's time for bed...» (questa la capiranno solo i beatlesiani più incalliti...), è proprio lì che mi sono recato: a letto, appunto. Ma non c'è sonno che si possa chiamare tale, per me, se non è preceduto dalla lettura di alcune pagine. Ho allora inforcato il tometto che va per la maggiore in questo periodo sul mio comodino, «Tutti i racconti western» di Elmore Leonard, per arrivare ad accorgermi che il lavorio di sensazioni in me continuava imperterrito, con code ancora ben evidenti.
Non c'è nulla di meno trasognato, di più realistico, di queste asciutte vicende della gloriosa frontiera americana. Eppure, contagiate dalla scia di significati lasciata dalle altre due opere, le atmosfere che dalle righe mi giungevano alle pupille riverberavano echi di terrori atavici, rifrangenze di rimbombi surreali, indefinitezze identitarie disorientanti. Cos'era successo? Gli input emotivi di tre diverse suggestioni più o meno “artistiche” erano entrati in risonanza fra di loro nel mio animo, dando vita ad un reciproco incrementarsi a vicenda.
Poi finalmente, con vostro estremo sollievo, ho spento la luce, mi son girato sul fianco prediletto e ho imboccato la strada della “ronfa”, già bello e che pronto per il mondo dei sogni, farcito com'ero di “dreammoni”, tal quale un panzerotto ripieno di mozzarella thriller, pomodoro favolistico e origano western.
L'ho presa su un po' alla larga e concettuosa, ma nella sostanza ho detto una roba abbastanza scontata. Quando l'uomo si mette in comunicazione coi propri simili servendosi di un linguaggio, qualunque esso sia, non può fare a meno di metterci dentro un pizzico di emotività, pur anche minimo, ma sempre imprescindibile. Anche nel congegnare il più asettico dei saggi scientifici, tanto per fare un esempio estremo, l'autore si premura di escogitare un'architettura espositiva che possa giungere al lettore in maniera piana e lineare, che non s'incagli contro il limite della sua disponibilità a comprendere, ecc.
Non sono di certo il più indicato a discettare di temi simili, ma anche solo ripensando alla mia modesta esperienza scolastica, mi sento di dire che addirittura la matematica può rivelarsi fonte di emozioni molto intense. E non mi riferisco solo alla fifa di beccarsi un 4 in pagella. La bellezza nella costruzione logica di certi teoremi di geometria, me la ricordo ancora oggi molto favorevolmente, con entusiasmo analogo serbato all'epoca alle migliori poesie.
Lo stesso “Tractatus logico-philosophicus” di Wittgenstein, il capolavoro dei capolavori per quel che concerne la ricerca di un'oggettività assoluta nell'ambito delle potenzialità del linguaggio stesso, rimane pur sempre uno scritto capace di trasmettere un rimarchevole coinvolgimento estetico, in forza della propria eleganza compositiva e strutturale.
Figuriamoci cosa succede poi quando abbiamo a che fare con opere nate direttamente con l'intento di stuzzicare, in misura pressoché pura, le riserve emotive del destinatario. Come nel caso di tanti film, per esempio.
Fin qui insomma non vi ho detto granché di nuovo. Una cosa curiosa però, da me appurata qualche sera fa in modo più lampante di quanto mi fossi mai reso conto prima, è che può anche succedere di essere presi dentro una “scia emotiva a strascico”, per così dire. Capita magari di vedere un film in grado di emozionare in modo notevole e subito a seguire di immergersi fra i flutti evocativi di un'altra pellicola, per poi passare ancora appena dopo alle suggestioni di un libro, tanto che alla fine ci si ritrova scombussolati in un piacevole smarrimento entro il quale si stenta ad assegnare a ciascun territorio emotivo esplorato la paternità effettiva.
La serata l'avevo iniziata con un film di “pancia pura”, intitolato «Nella rete del serial killer». Stando ai criteri da me medesimo definiti alcune puntate fa, si è trattato di un film “onesto”, se si eccettuano alcune sbavature di gusto e qualche pecca nella risoluzione finale della trama. Il suo obiettivo principale era suscitare tensione nello spettatore, inquietudine, paura ed amenità simili. Non sarà certo un capolavoro del genere (solo pensando ad Hitchcock o a Kubrick, ogni paragone crolla miseramente), ma di fatto un buon prodotto di artigianato filmico sì, lo possiamo considerare tale. In ogni caso, quel che importa nell'economia del presente discorso è che di adrenalina se ne manda giù durante la visione, indubbiamente.
Il serial killer in questione è un pazzoide che impianta tutto un marchingegno online, in modo da trasmettere al mondo intero l'agonia delle sue vittime via web. Non solo. Fa anche in modo che i metodi di uccisione di volta in volta messi in atto, tutti basati sul criterio di un incremento graduale del supplizio inflitto, risultino accelerati in proporzione al numero di persone connesse al suo perverso sito. Già di per sé l'idea è sufficientemente malvagia e degna di una mente diabolica fortemente malata. Se poi ci si aggiunge il fatto che narrativamente è giostrata abbastanza bene (pur con alcune magagne qua e là, come detto), è del tutto giustificato dire che alla fine ci si ritrova ad osservare i titoli di coda con una buona dose di farcitura emotiva in corpo.
Ora, sono certo che nessuno di voi ne avrà mai sentito parlare, perché mi sto inventando la cosa esattamente in questo momento, ma dovete sapere che esiste un'unità di misura della “farcitura emotiva”. Si tratta del “dreammone”, quantificabile nella ragione di un lascito emotivo depositato nell'animo equivalente all'esito postumo di un sogno di media intensità. Se ci fate caso, al di là della “idiotezza” del mio metaforizzare, dopo aver goduto della lettura di un libro o di un film particolarmente coinvolgenti, ci si sente come reduci da un sogno. Ed è vera anche la controprova: se un sogno non ci ha regalato emozioni degne di nota, svanisce al risveglio, così come la storia di un libro o di un film, quando si richiudono le pagine, si esce dalla sala o si spegne la tele.
Questo film, «Nella rete del serial killer», di “dreammoni”me ne aveva lasciati dentro parecchi. Me ne sono reso conto quando, non pago della scorpacciata emotiva, ho voluto nicchiare ancora un po' prima di recarmi a letto, ed ho fatto partire il dvd di uno stupendo cartone animato del maestro giapponese Hayao Miyazaki: «La città incantata». Le opere di Miyazaki mi lasciano sempre leggermente perplesso, stranito, ma assolutamente mai indifferente. Di lui avevo già visto «Il castello errante di Howl». Innanzitutto, la ricercatezza surreale delle storie è la prima cosa che colpisce, e poi s'impone la bellezza delle immagini. Nel film in questione, «La città incantata», la storia è più bizzarra ed evocativa che mai e addentrandosi nelle vicende, ci si accorge che il tema conduttore s'impernia fondamentalmente attorno alle paure infantili. Non che sia palesemente dichiarato, ma lo si subodora, te lo senti filtrare per la pelle.
Qui viene il punto curioso del mio scrivere di oggi. Mentre mi calavo nelle nuove atmosfere di Miyazaki, sentivo che il substrato di “dreammoni” depositato fra le pieghe della mia sensibilità dalla visione di «Nella rete del serial killer», continuava a lavorare sotterraneo, macinava ancora “quanti” emotivi. Le sensazioni risultanti erano parecchio originali: una sommatoria non meglio definita di spunti emotivi, uno smarrimento fra contraddittorie sensazioni, che tuttavia, non so in virtù di quali insolite alchimie, sembravano compensarsi a vicenda, amalgamarsi con profitto, distribuirsi con ordine fra i ranghi della mia capacità ricettiva delle gradazioni dell'animo. Le paure infantili erano rinfocolate dal soffio potente delle terrorizzanti situazioni adulte visionate nel primo film. L'irrazionale, il tremendo, il terrificante, il terrorizzante, si saldavano armonicamente all'ignoto, all'inesplorato ed al senso calamitante che con regolarità accompagna queste due ultime dimensioni. La poetica della seconda opera, insomma, si nutriva del sottofondo sensazionale depositato dalla prima, innalzando in me questo strano edificio di reazioni interiori.
E non era mica finita lì. Quando ho sentito risuonare internamente il tipico richiamo biologico all'odor di legno norvegese, «...it's time for bed...» (questa la capiranno solo i beatlesiani più incalliti...), è proprio lì che mi sono recato: a letto, appunto. Ma non c'è sonno che si possa chiamare tale, per me, se non è preceduto dalla lettura di alcune pagine. Ho allora inforcato il tometto che va per la maggiore in questo periodo sul mio comodino, «Tutti i racconti western» di Elmore Leonard, per arrivare ad accorgermi che il lavorio di sensazioni in me continuava imperterrito, con code ancora ben evidenti.
Non c'è nulla di meno trasognato, di più realistico, di queste asciutte vicende della gloriosa frontiera americana. Eppure, contagiate dalla scia di significati lasciata dalle altre due opere, le atmosfere che dalle righe mi giungevano alle pupille riverberavano echi di terrori atavici, rifrangenze di rimbombi surreali, indefinitezze identitarie disorientanti. Cos'era successo? Gli input emotivi di tre diverse suggestioni più o meno “artistiche” erano entrati in risonanza fra di loro nel mio animo, dando vita ad un reciproco incrementarsi a vicenda.
Poi finalmente, con vostro estremo sollievo, ho spento la luce, mi son girato sul fianco prediletto e ho imboccato la strada della “ronfa”, già bello e che pronto per il mondo dei sogni, farcito com'ero di “dreammoni”, tal quale un panzerotto ripieno di mozzarella thriller, pomodoro favolistico e origano western.
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