Uno spettro si aggira nei
meandri dell’ambiente pubblicitario: lo spettro del pacchianismo!
Sarà che sono un
ingenuo e mi figuro sempre un mondo ipotetico mio, così come
presumibilmente e a rigor di logica dovrebbe grosso modo funzionare.
Di fatto, immaginando di essere io un pubblicitario, il messaggio
verso cui mi indirizzerei cercherebbe di privilegiare l’eleganza,
la classe, l’evocazione di un senso di fiducia, di affidabilità,
di prestigio, di bellezza, di sicurezza, di solidità, la messa
in risalto di prerogative giocose, mirate al benessere di chi
acquista, al suo divertimento, al comfort, e così via. Di
tutto questo, un po’. Oppure di volta in volta, ciascuno di questi
aspetti messo più in risalto di altri, a seconda del prodotto
da reclamizzare.
Invece no.
Pare che in molti casi,
affidarsi ancora allo “sboronismo”, al “ciòca-piattesimo”
(dalla nota espressione dialettale nordica “ciòca-piatti”,
ossia “sbatti-piatti”, detto di tizio che, facendo una gran
confusione caciaronesca, conclude pochissimo e con molta poca
sostanza), oppure consegnarsi anima e corpo al più bieco
“mostra-culismo macachese” (tendenza esistenziale di chi
preferisce la chiassosa apparenza ad una dignitosa sostanza,
nell’immagine metaforicamente mutuata dal comportamento
esibizionistico dei macachi), pare insomma che tutte queste strambe
propensioni continuino ad essere reputate strategie comunicative
vincenti.
In particolare, un
sottoambito del pacchianismo esageratamente eclatante che non sono
mai riuscito a capire e che continua ad essere mangiato come il pane
dai creativi spottaroli, è il “rintronamento
translinguistico”. Questo fenomeno si fonda sulla pretesa secondo
la quale una certa frase di una certa lingua (nella fattispecie, lo
slogan dello spot), se pronunciata con la distorsione tipica di chi
non è parlante nativo di quell’idioma, oppure addirittura
non ne è parlante affatto, suonerebbe estremamente trendy,
cool, fashion, e tutti questi altri aggettivi di ‘sta minchia.
Eppure la lezione di
Alberto Sordi è ormai antica, ma evidentemente non ancora
assorbita a sufficienza, nella sua pienezza di risvolti ed
ammonimenti culturali. Non siamo qui a sindacare sulla maggiore o
minore venustà di una lingua rispetto ad un’altra. Assumiamo come
postulato che ogni lingua sia bella di per sé, in virtù
delle sue caratteristiche intrinseche, inimitabili ed inconfondibili.
Affascinante è l’italiano nel suo modo specifico, così
come lo sono l’inglese, il francese, lo spagnolo, l’inuit, il
dialetto della Bassa Busonia, e tutte le altre lingue insomma, più
o meno diffuse o note, vive o morte che siano.
Il punto non sta dunque
nel confronto tra lingue, ma nel passaggio improprio da una lingua
all’altra, nella commistione sgangherata di pronunce.
Il mai sufficientemente
lodato Nando Mericoni (l’«americano a Roma» di Alberto
Sordi, per l’appunto) ce lo insegnò già decenni fa:
un italiano che cerca di parlare americano senza averne le competenze
e l’orecchio necessari, finisce per suonare come un giulivo
coglionazzo. Tutt’al più potrà risultare un
simpaticone un po’ sbalestrato, un vecchio zio rimbambito, ma mai
in ogni caso una persona dalla quale compreresti qualcosa. Lo stesso
succede ovviamente anche in senso contrario, nel caso di un anglofono
che si cimenti con la parola di Dante e di Manzoni: stesso effetto,
ben che vada, da caro vecchio etilista della porta accanto, stesso
buffonesco boomerang espressivo rimandato nei denti.
Non fosse bastato il
supremo ammaestramento del grande Albertone Sordi, più
recentemente, sempre dall’ambito comico, ci è giunto un
altro notevole monito riguardo alla ridicolaggine sempre in agguato
nell’incauto “travaso idiomatico” e ai rischi ad esso connessi
di scivolamento nel pieno di un’esterofilia fra le più
boccalone. Mi riferisco all’esilarante quanto amara saga dei
“Perego’s”, nella quale il sempre geniale Antonio Albanese
interpreta il ruolo di un piccolo-medio imprenditore genericamente
“para-lombardo”, uno di quelli duri e puri che “…mio nonno
c’aveva l’officina, mio babbo ha fatto il capannone, io un
capannone più grande, e mio figlio si droga…”.
Proprio quello stesso
figlio (interpretato da Nicola Rignanese), non si sa se meglio
definibile “degenere” oppure “fatto degenerare” sotto quella
valanga di amore imprenditoriale, che sfoggia la più pacchiana
distorsione esterofila, quando ad esempio, entrando in casa, saluta i
genitori con la sua classica frase fashion «…Hi mamy, hi
daddy…by Clavin Klein…», ricevendo come automatica
risposta, ogni volta, l’immutato ritornello: «…Ma va a dà
via’l cül, drugà!…».
Tra l’altro, questo
altro sommo insegnamento comico, tirando in ballo il mondo della
moda, si aggancia perfettamente al “dunque” a cui volevo arrivare
oggi. Dopo aver sentito alcune stagioni fa Dustin Hoffman
pubblicizzare un panettone magnificandone le bontà col suo
perfetto italiano da ubriacone molesto, pensavo si fosse raggiunta
l'apoteosi del “rintronamento translinguistico”. E invece sempre
nuove chicche s'annidano dietro l'angolo.
Sono costretto a fare il
nome dell'articolo in questione, altrimenti non si capirebbe cosa
voglio dire, ma preciso che non ho nulla contro di esso. Le mie
considerazioni sono rivolte esclusivamente alla bislaccheria
pubblicitaria che lo accompagna. Si tratta di un profumo di Roberto
Cavalli. Amo il mondo degli odori e dei profumi, e anche se non ne
faccio uso personalmente, quando ho l'occasione di averne sottomano
alcune boccette svariate, mi diverto un mondo a sniffare
all'impazzata il piccolo imbocco degli spruzzatori, beandomi le nari
coi vari effluvi. Il mestiere del profumiere deve essere uno dei più
affascinanti immaginabili, lo vedo come una missione capace di
portare gioia alla gente, allietandola con mille fragranze che sanno
parlare direttamente ad una delle dimensioni recettive più
sensibili dell'individuo.
In particolare, questo
profumo non l'ho annusato, ma sono certo che sarà buonissimo.
Per di più, ha il pregio ulteriore di portare un bel nome
“italicissimo”, così sonoramente elegante, un giusto
equilibrio fra lunghezza sillabica e dosata distribuzione di
consonanti e vocali: “Roberto Cavalli – profumo”. Quale
migliore modo di suggellare una reclame, che pronunciando queste tre
semplici, italiche, pure parole, di per sé stesse già
un perfetto slogan bello e pronto?
Nossignore invece, niente
di tutto ciò che sembrerebbe più naturale. Questi
pubblicitari, con a disposizione l'occasione di una siffatta purezza
linguistica originaria, non l'hanno sfruttata. Si sono invece
ostinati, hanno insistito nel loro balordo intento di “rintronatori
translinguistici”, si sono incaponiti ciecamente, chiudendo lo
spot con la solita voce cavernosa e virioloide, stile “tris di
testicoli”, che ruvidamente sussurra: “...Robbbéudddo
Kkkhhhvvvàli...”. E poi dopo non si lamentino se al povero spettatore, in circostanze simili, gli scappa di chiosare fra sé e sé, a labbra socchiuse: «...Ma va a dà via’l cül, drugà!…».
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