«…Pigliamo l'autostrada, faremo prima.
Usciamo a Nottingam sud,
e andiamo a casa di mia nonna.
Lei ti capirà. Ha dei parenti in città.
Ad Ankara, Ankara uno Lazio zero.
Scusa Ameri, per me è molto duro.
Altri tempi, altre situazioni, altro modo di vedere.
Comunque, per me è molto duro…»
“Nottingam” – Squallor - 1977
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Il calcio e la democrazia, in Italia oggi, si riflettono a vicenda nella relativa struttura essenziale. Sul piano teorico, ciascuno per il proprio ambito di pertinenza, sono due grandi costruzioni ideali di civiltà. Calati invece al loro livello applicato, immersi nel flusso effettivo del vivere, calcio e democrazia si sono tramutati in due sgorbi deformi.
Nei confronti della democrazia, mi pare pressoché doveroso riferirsi ad un atteggiamento di realismo applicato. Serve a poco rifugiarsi sotto una presunta campana di cristallino sdegno, immaginandosi tutelati da un ambiente esistenzialmente asettico, entro il quale si pretenda di godere di un distacco assoluto dalle brutture del mondo. Il mondo è imperfetto e pieno di magagne per sua natura: inquadrarlo entro disegni ideali, qual è appunto quello della democrazia, può servire ad indicare modelli virtuosi verso i quali tendenzialmente mirare, senza lasciare venire mai meno la consapevolezza dell’irraggiungibilità di fondo di quel traguardo supremo.
Detta in parole povere: la democrazia, così come la conosciamo oggi nella sua concretezza applicata (soprattutto nella forma italiana attuale) farà anche parecchio schifo, ma finora, in tutto il corso della storia, l’uomo non è mai riuscito ad escogitare forme di governo “sistematicamente” migliori. Nel tempo, saranno emerse anche rare oasi felici di buon governo non necessariamente improntato a criteri strettamente democratici. Ma ogni volta si è trattato più di fatali congiunture, venutesi ad innescare fra accadimenti particolarmente favorevoli e personalità particolarmente autorevoli ed illuminate, anziché di realtà rinnovabili attraverso una cammino progettuale reiterabile e corredato dal margine di una certa sicurezza anticipatrice.
Insomma, di fatto, la cara e vecchia democrazia, nelle sue forme concretate odierne, è proprio una gran ciofeca, ma l’atteggiamento più saggio è tenersela ben stretta, anche così com’è (con la speranza e l’impegno di miglioramenti futuri sempre maggiori, ovvio).
Nel caso del calcio, e sempre con puntuale riferimento alla sua espressione italiana dei giorni nostri, i fattori in gioco sono i medesimi: un modello ideale inarrivabile da una parte (l’ideale di un gioco, di uno sport), ed una sua applicazione sempre più indegna in termini di realtà spicciola, dall’altra parte (le ultime vicende del calcio scommesse sono state soltanto la ciliegina stronzesca, posta a coronamento di una ormai annosa ed inveterata grossa torta di merda).
Per quanto riguarda il calcio però, rispetto alla democrazia, ritengo che la ricetta da adottare sia esattamente di segno opposto. Del calcio va rigettato, il più possibile, quanto di applicato e di reale esso presenta oggigiorno, per rifugiarsi momentaneamente fra i suoi anfratti ideali, in attesa di giorni migliori, che possano farlo tornare a rifiorire anche sul suo fronte concreto. Va messo in sospeso, posto fra parentesi, il senso di affetto, di appartenenza e di identificazione coi colori della propria “squadra del cuore”, se intesa nella sua specificazione attuale (eccezion fatta forse solo per la maglia Azzurra, per motivi di causa maggiore da tutti comprensibili).
Nella pratica della “tifoseria” sportiva ci ho sempre trovato poco senso, preferendo di gran lunga l’interesse per la bellezza del gioco, per l’eleganza gestuale degli atleti, per la nobiltà insita nel rispetto dell’avversario. Oppure, ho sempre concesso la mia predilezione ad altri risvolti “pedagogici” dello sport, in primis la sua capacità di far meglio capire come saper vincere e come saper perdere.
Ma questi sono solo miei punti di vista. L’essere tifosi, anche nel senso più corrente del termine, ha una sua dignità ed implica questioni di pancia, è una propensione pilotata da leggi analoghe a quelle che reggono, per esempio, la passione erotica o l’infatuazione artistica. Sindacare riguardo alla sensatezza della tifoseria, non è insomma nemmeno essa stessa una delle pratiche più sensate.
Ma che soddisfazione c’è nel tifare, ossia nel riporre una grandissima parte del proprio cuore e delle proprie speranze più ingenue in individui che mezz’ora prima si sono accordati per inscenare una finta sfida e farmi passare bellamente per un idiota? Allo stesso modo, che soddisfazione c’è nel dare in pasto il candore delle proprie gratuite aspettative di tifoso, ad un Moloch divenuto ormai solamente il rutilante pretesto per far girare sempre più soldi, attraverso canali leciti ed illeciti?
I colori della “squadra del cuore” vanno dunque riposti momentaneamente nell’empireo sportivo fatto di ricordi sublimati e di auspici futuri per il ritorno ad una qualche forma di accettabilità calcistica, almeno lievemente più dignitosa di quella attuale. Il campionato ideale, fatto di giocatori perfetti ed impeccabilmente votati all’espressione dell’incorruttibile purezza dei valori sportivi, non è mai esistito e nemmeno esisterà mai, neanche nella mente del più sbiellato dei sognatori.
Ma rifiutare lo stato di degenerazione attuale rimane un diritto sacrosanto di ciascuno.
Proprio nell’ambito del godimento di questo mio diritto, complici anche le rigide temperature dell’inverno che ci stiamo apprestando a sfangare pure stavolta, ho sfoderato nei mesi scorsi una vecchia sciarpa nerazzurra, ideale testimonianza del mio sempre più idealizzato affetto nei confronti dei colori dell’Inter.
E’ una sciarpa semplicissima, non presenta nessuna scritta, solo i puri colori e niente più: strisce nere, alternate ordinatamente a strisce azzurre, tutte del medesimo identico spessore. Suo pregio ulteriore: non ha reso nessun tributo al vortice “trangugia-e-divorante” del merchandising ufficiale, ma venne realizzata anni fa dalla sapiente arte sartoriale di una magliaia di Gillipixiland.
Inghippi combinati, piccole truffette, velate disonestà, meschinità da mezze tacche, ci sono sempre state e sempre ci saranno nel mondo del calcio, ma nondimeno questa sciarpa mi racconta dei due rigori sbagliati da Beccalossi in una sola partita col suo capriccioso e geniale piede sinistro; mi racconta delle guasconate di Benito Lorenzi, delle invenzioni di Stefano Nyers, delle movenze eleganti di Giacinto Facchetti.
Mi sussurra l’ideale di un calcio che mai è esistito, se non nell’animo degli appassionati più semplici ed innocentemente trasognati.
E nel frattempo, canticchio:
«…mio fratello e' tifoso unico sfruttato
represso calpestato odiato
e ti amo Mariù
mio fratello e' tifoso unico deriso
frustrato picchiato derubato
e ti amo Mariù
mio fratello e' tifoso unico dimagrito
declassato sottomesso disgregato
e ti amo Mariù
mio fratello e' tifoso unico frustato
frustrato derubato sottomesso
e ti amo Mariù
mio fratello e' tifoso unico deriso
declassato frustrato dimagrito
e ti amo Mariù
mio fratello e' tifoso unico malpagato
derubato deriso disgregato
e ti amo Mariù…».
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