martedì 10 luglio 2018

Il pensare


Vi siete mai soffermati a pensare che forma abbia il pensare? Io sì.

Il pensare me lo raffiguro come una sorta di nastro trasportatore. È lunghissimo, ma ne percepiamo vividamente solo alcuni metri davanti, e altrettanti dietro di noi. Il resto sappiamo che esiste, ma per il momento non ne disponiamo in maniera diretta.

Il “tappeto rullante” del pensiero è fatto di parole esplicitate. La parte tangibile del pensare si manifesta come parola detta mentalmente. Tale dinamica è così intensa, che se ci fate caso, i pensieri vivi di ciascun momento sono quasi accompagnati da una muta sequela di abbozzi potenziali di movimenti della lingua.

Mentre pensiamo, la lingua “si immagina” le mosse che farebbe nel pronunciare effettivamente le varie sillabe, e “nella  sua mente” (quella della lingua), quei movimenti si realizzano per davvero.

Questo, tra le altre cose, instaura un fecondo contaminarsi di tante prerogative psico-fisico-affettive umane, tutte incentrate sul fascinoso muscolo umido che ciascuno si ritrova in bocca.

La lingua parla, gusta, bacia, lecca, nei primi tempi del nostro stare al mondo, da infanti, è un’importante bussola di consapevolezza spaziale, in seguito è strumento fondamentale di espressione e conoscenza erotica, sensuale, e oltre a questo, come detto ora, la lingua pensa anche.

Il pensiero affonda allora le radici nel pieno della fisicità, perché è principalmente eco muta di suoni riprodotti nell’intimo, su una base fortemente corporea.

Eppure, ovviamente, il pensare non è solo quel nastro di parole, libere anche di scorrere in un flusso spontaneo e pre-formato, rispetto a un ordine che verrà poi assegnato quando le frasi usciranno effettivamente dalla bocca.

Il pensiero è fatto in gran parte anche di una miriade di correnti carsiche sotterranee, che trasportano riverberi di immagini, rapporti di forza visivi, barlumi di ricordi, fantasmi di sentimento, mozziconi di stato d’animo, architetture e griglie mentali familiari e già frequentate.

E il tutto non viene esplicitato, ma lavora, rimugina, rimacina in sottofondo, come fondamento magmatico e sempre mobile della parte consapevole di superficie del “pensare parlato”.

Il pensare, nella più ampia prospettiva filosofica, è dunque una attività che in gran parte sfugge al nostro dominio consapevole. È un lavorio “numinoso” interiore che cala in noi, durante il quale molte volte anziché come soggetti attivi, ci ritroviamo impegnati come maggiordomi di un rituale nobile, vasto, complesso, labirintico e per certi versi mai completamente afferrabile, o circoscrivibile in pieno.

Fanno allora un po' sorridere certe espressioni del tipo “…a cosa stai pensando?...” (tra l'altro assunta anche come Facebookkiano tormentone) oppure “…io dico sempre ciò che penso…”, che pure hanno una loro coerenza nel discorso secondo il senso comune quotidiano.

In un orizzonte filosofico invece queste frasi non hanno senso: nessuno sa mai veramente fino in fondo quel che pensa, e tantomeno lo saprebbe riferire con fedeltà.

Perché gli stessi Picasso, Jackson Pollock, Leopardi o Beethoven, hanno speso una vita intera nel tentativo di dirci cosa pensavano, e anche se ci sono andati magistralmente vicini in molti casi, pure loro lo hanno sempre fatto soltanto in parte.

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