Ho letto “I Vicerè” (1894) di Federico De Roberto (edizione Feltrinelli - 11 €).
Come mio uso, non proprio una recensione, ma piuttosto alcune impressioni di lettura.
Prima vi dico come mai mi sono avvicinato a questo classico.
Ascoltando con distrazione uno stralcio d'intervista a Leo Gullotta in tele, mentre zigzagavo indolente fra i canali, mi ha incuriosito una sua frase colta al volo: “I Vicerè” è il corrispettivo dei “Promessi sposi” per il meridione d'Italia.
Dopo aver letto il libro, in questa precisa mini-recensione mi ci sono ritrovato, pur consapevole che per forza di cose sia da prendere con gran cautela, per la sua estrema sinteticità e generalità.
Anche se al tempo stesso l’opera di De Roberto è molto diversa dal capolavoro manzoniano, non di meno ne condivide l'intento ambizioso di esplorare la natura umana attraverso un articolato affresco di un particolare periodo storico, in questo caso il Risorgimento in Sicilia, visto attraverso le vicissitudini della nobile famiglia degli Uzeda di Francalanza.
L’immaginaria dinastia (ispirata però a famiglie aristocratiche veramente vissute) viene ritratta nel passaggio terminale del suo disfacimento, coincidente con una fase di mutamento epocale della società.
Come nel romanzo manzoniano, l'impressione che se ne trae è quella di una “ciclica difettosità” dell’uomo. Cambiano i momenti storici e le personalità individuali, ma la natura umana si ripropone nella propria fragile propensione a subire gli eventi.
Così, “I Vicerè” si ritrova in un certo senso “stretto” fra gli estremi della tragicità greca e quelli del “trasformismo non-mutante” gattopardiano, la cui natura viene ampiamente sondata in anticipo dal romanzo di De Roberto, rispetto all’opera di Tomasi di Lampedusa.
Non c'è personaggio dei Vicerè che non vi rimarrà impresso per la sua meschinità più o meno pronunciata. Ma proprio per questo, ogni personaggio dei Vicerè lo ricorderete per la sua umanità.
Con questa opera che distende con notevole ampiezza le proprie ali narrative in complessità di trama e ricchezza di storie (su circa 650 pagine), De Roberto tratteggia la propria disincantata visione dell'esistenza: vivere è un continuo altalenare periodico da un’epoca di ingenuità idealizzanti, verso la presa d’atto di grandi disillusioni rispetto ai fatti, alle cose e soprattutto alle persone. E tale fenomeno si realizza sia sul piano delle esperienze personali (il lasso di vita individuale), sia su quello delle vicende di un popolo (la storia di un tipo di civiltà). Per fare solo un esempio: un certo “stile” politico di oggi lo ritrovate già tutto delineato nella sua sostanza, nei Vicerè.
La prosa è elegante, a tratti ricercata, ma godibile nella sua preziosa costruzione tardo ottocentesca, però un’avvertenza è d'obbligo. Per il primo centinaio di pagine, sarete fortemente tentati di lanciare il corposo volumetto fuori dalla finestra.
De Roberto vi travolge infatti con una sequela abbastanza irritante di nomi di personaggi a raffica, molto difficili da tenere a mente e collocare in un primo momento. Per di più li chiama spesso in diversi modi, ora col nome vero e proprio, ora col titolo nobiliare, ora col grado di parentela, rendendo il quadro ancor più caotico.
Mi sono chiesto il perché di tutto ciò. Indubbiamente le capacità di dominare il materiale narrato sono molto cambiate nel lettore moderno. Ma mi ha carezzato anche la suggestione di un altro motivo. Ho pensato che questa iniziale “doccia fredda” di confusione fosse voluta dall’autore, per rendere il senso di come ogni tipo di conoscenza si dipani sempre a partire dal caos verso un qualche ordine.
Di fatto, se la pazienza di raggiungere un soddisfacente grado di orientamento nella storia vi sosterrà a sufficienza, sarete ripagati per il resto del libro da una lettura appassionante, ironica e gratificante, con punte di buon divertimento.
Concludo sottolineando ancora una precisazione: l’analogia coi promessi sposi va presa con tutte le molle, le pinze, i distinguo e la duttilità interpretativa del caso. Questo perché poi non capiti qui il primo “prenditor letterale di senso” che passa, e mi venga a far me pulci.
Per evitare, in altre parole, di incappare in quei tipi che al sentir parlare dei raggi dorati del sole, se ne vanno in giro a saccocce spalancate, sperando di intascare monete sonanti di aureo metallo.