giovedì 30 agosto 2018

Consigli per gli artisti


La pubblicità è merda pura
La pubblicità è merda sicura
La pubblicità è di merda schietta
La pubblicità, merda fatta e rifatta
La pubblicità è merda infelice
La pubblicità fa di merda ogni quanto dice
La pubblicità trasuda guano
La pubblicità ti caga in mano
La pubblicità ti vuol villano
La pubblicità mira al tuo ano
La pubblicità è cacca scura
La pubblicità è cacca vera
La pubblicità è letame fradicio
La pubblicità, escremento sudicio
La pubblicità è un fottimento
La pubblicità ammassa stronzi a reggimento
La pubblicità, fiume di liquame
La pubblicità, la più merdosa del reame
La pubblicità ti mette a zero e novanta
La pubblicità ne sodomizza millanta
La pubblicità è una fogna matura
La pubblicità trasuda lordura
La pubblicità è un suppostone mentale
La pubblicità, “ahia” una volta, poi non fa più male
La pubblicità è testarda come un mulo
La pubblicità rende ognuno buco del culo
La pubblicità spara mille complimenti
La pubblicità vuole tutti tubi digerenti
La pubblicità, gran tornado di merda
La pubblicità...e ogni senso si disperda
E adesso...PUBBLICITÀ!!!

mercoledì 29 agosto 2018

Windows vista


Come il protagonista delle “Notti bianche” dostoevskiane, anche a me piace un sacco osservare le case, camminando. Che poi questo, per la proprietà transitiva, mi accomuni a lui anche in fatto di destini sentimentali, è un altro discorso (velato invito a leggere il bellissimo “Le notti bianche”, per capire cosa intendo).

Le case, gli edifici in generale, sono una più o meno consapevole metafora del corpo.

La porta di ingresso principale costituisce una sorta di bocca-sesso (e non serve scomodare Freud per ricordare quali potenti parentele simboliche sussistano fra queste due parti anatomiche). La casa ha un orifizio allegoricamente escretore, che è l’uscita di servizio, ha una struttura assimilabile all’apparato scheletrico, ha una pelle nei muri esterni, ha circolazioni interne di varia natura, elettrica, fluida, calorica.

Entrando in un edificio, possiamo sentirci di volta in volta come un cibo che verrà digerito e dopo espulso, un contro-sesso che feconderà l’ambiente interno, un pensiero, un emozione vivente all’interno di un organismo.

Ma il dettaglio che ultimamente mi sta appassionando di più si concentra nelle finestre.

Voglio dire, provate a camminare, e isolate da tutto il contesto paesaggistico-edilizio quel micro-mondo che si viene a formare nella vostra considerazione quando questa consente di esistere esclusivamente all’insieme di finestre tutte intorno. Ne deriverà una curiosa sensazione, che non mi faccio scrupolo a definire di benessere.

La finestra è un vuoto che mette in comunicazione due vuoti. Lascia entrare luce, cielo, nuvolo, aria, ossigeno, suoni, voci, richiami, canti d’uccellini, latrati, clacson, e fa uscire fiati, flati, sospiri, sguardi, parole, chiacchiere, odori, malinconie, gioie, entusiasmi e ristagni dell’animo. La finestra è un “sospeso” e come tale non può non eccitare l’immaginario dell’uomo, essere desiderante per antonomasia, creatura perennemente anelante all’altro da qui e da ora.

L’interno e l’esterno si baciano mettendo in comune una sola bocca: la finestra. Dalla finestra non si può uscire o entrare fisicamente, ma solo idealmente, con i sensi operanti sulle distanze: vista, odorato, udito. La finestra è allora un inno all’astrazione.

Le finestre sono giocose e strane, perché ce ne sono di mille forme: basse, alte, smilze, “bombute”, allineate, sfalsate, quadre, a rettangolo, tonde, a unghia di vamp, “tapparellute”, “impostate”, “gratificate”, coi vetri in altrettanti tagli, fogge e sfumature.

Prendete dunque in esame la totalità delle finestre abbracciabili con lo sguardo da una determinate posizione, fate finta che non esista altro, e vi troverete calati in una sorprendente arlecchinata del mondo.

Non dico che in questo modo risolverete i vostri problemi. Ma almeno per un attimo li avrete messi fra una ideale parentesi fatta di tanti stipiti, davanzali e architravi dell’immaginazione.

lunedì 27 agosto 2018

Grottesco (1989) Patrick McGrath


Ho letto “Grottesco” (1989) di Patrick McGrath.

Una storia caustica, corrosiva, cinica, sardonica, elegante, beffarda, sulfurea, architettonicamente raffinata, dai ritmi incalzanti, giusti per mantenere il lettore nel costante desiderio di sapere cosa si nasconderà dietro il prossimo angolo narrativo.

Una trama che puzza di maiale e sanguinaccio, umida di brughiera inglese e aliti alcolici, strana e sorprendente al palato come una pietanza della più tradizionale cucina british.

Un racconto che mette vivamente e bizzarramente in guardia rispetto a tutto quanto in teoria dovrebbe rassicurare, in virtù delle sue fondamenta tradizionali.

Il lettore viene introdotto fin da subito in quel sorprendente labirinto che è la mente della voce narrante, il baricentrico protagonista dell'azione narrata, Sir Hugo Coal, paleontologo per passione.

Sino all'ultimo pagina, non riusciremo mai a stabilire se ci si debba fidare fino in fondo di quanto ci racconta. E anche una volta letta l’ultima frase, non riusciremo ancora a renderci conto se siamo usciti dal labirinto del suo rimuginare, o se ci siamo rimasti irrimediabilmente impigliati.

“Grottesco” ci conduce attraverso una rassegna di memorabili caratteri sontuosamente tratteggiati: ciascuno a suo modo iperbolico nella propria, di volta in volta, meschinità, imperscrutabilità, diabolicità, sensibilità, ottusità preterintenzionalmente nobile, lealtà inspiegabilmente tetragona.

“Grottesco” è una sorta di “giallo-beffa”, che pur sfociando in un suo “naturale” termine, non si può dire si risolva fino in fondo. La storia alla fine si compie quasi con la precisione di un teorema, ma di cose da dimostrare ne rimangono parecchie. E anche questo è un forte elemento di fascino, fra i tanti contenuti in questo romanzo.


sabato 25 agosto 2018

Di come ascoltando Fix you dei Coldplay ho afferrato l'essenza del Giuoco delle perle di vetro


Il titolo di Lina-Wertmulleriana misura già la direbbe lunga, anche se non spiega tutto.

Il giuoco delle perle di vetro è il tema attorno a cui s’impernia la narrazione dell’omonimo romanzo di Hermann Hesse. Ma di cosa stiamo parlando nella sostanza? A volerla dire in breve si tratta di un atteggiamento culturale, di una predisposizione conoscitiva, di un'attitudine all'ascolto trasversale ad ogni forma del pensare e del sentire, di un auto-plasmarsi psicologico sulle affinità profonde comuni a tante dimensioni del reale.

Possono una sinfonia di Mozart o un bacio appassionato raccontarci la medesima sensazione? Un teorema di geometria sa evocare stati interiori simili a quelli che conseguono a certi “entusiasmi filosofici”? È possibile riconoscere in una persona cara la stessa “struttura affettiva" sperimentata in un film o in un grande romanzo?

Tutte le espressioni della realtà sono imparentate con ogni tentativo di tradurle in termini umanamente condivisibili. Vi sono architetture dell’animo che fanno da paradigma comune a tante dimensioni del conoscere. È un miracolo mirabile quando ci succede di coglierle, anche solo per una fuggevole intuizione.

Questo può portarci magari a scoprire che tener ordine in cucina, lavare i piatti, sono azioni assimilabili per armonia organizzativa a quanto richiesto al grande manager.

Non sempre è facile entrare in sintonia con tale vibrazione globale. Occorre rimanere sempre curiosi e aperti al suo flusso. La chiave di lettura si appalesa spesso all’improvviso, come una piccola folgorazione, anche se non la sapremmo dire.

È a quel punto che “…le luci ci guidano a casa e ci accendono le ossa, e qualcuno o qualcosa proverà a rimetterci in sesto…”.

[“...Lights will guide you home
And ignite your bones
And I’ll try to fix you…”
“Fix you” (2005) – Coldplay]

mercoledì 22 agosto 2018

E io cosa ti avevo detto?


Sul sempre più interessante “Eros e civiltà” di Herbert Marcuse, leggo:

“…[…] poiché la conoscenza dell’intera verità porta difficilmente alla felicità, questa anestesia generale rende l’individuo felice…”.

Un breve sobbalzo e penso: “Ma come? Eppure io questa cosa l'ho già sentita da qualche parte…”.

Aaahhh, ecco…è una cosa che hanno sempre detto i vecchi del mio paese, e in dialetto suona così: “…Al sta beñ al mónd parché al capésa’n cáss!…” (N.d.r. : “…Sta bene al mondo perché non capisce un cazzo!...”).

Ma pensa te! Ero circondato da svariati Marcuse e nemmeno lo sapevo...

lunedì 20 agosto 2018

Ai confini del non


Nella piccola jungla del grande godimento, ci abboffavamo senza ritegno dei più succosi frutti.

Li spiccavamo dai rami ormai flessi all’estremo, maturi da scoppiare, li frangevamo con mani febbrili, per cospargerci a vicenda i corpi di succhi e polpe scivolose.

Ce li mangiavamo addosso, senza interposizioni di pudore, ci nutrivamo del completo conoscerci, lasciandoci sfuggire, esterno a noi, soltanto il non più nulla da sapere.

Ma sul limitare della piccola jungla del godimento, incappammo nell’impervia cortina nera, liscia e fuggevole, eppur così duramente infissa nel terreno della realtà.

Era il muro della non risposta, che ci colse infreddoliti e separati, ciascuno adesso irrimediabilmente smarrito sul versante opposto.

Alle spalle, ogni frutto aveva perduto il suo sapore, perché maturava solamente per venir divorato sulla pelle dell’essere agognato.

Solo la parete di un marmo duro e nero ormai, davanti, anche gradevole da accarezzare, ma senza succo alcuno di bellezza.

sabato 18 agosto 2018



venerdì 17 agosto 2018

Demian (1919) - Hermann Hesse


Ho letto “Demian” (1919) di Hermann Hesse (Mondadori – 12 €).

Dopo la folgorazione adolescenziale per “Narciso e Boccadoro”, ma soprattutto per “Siddharta” (libro che ha definitivamente suggellato il mio innamoramento per la lettura, i libri e il loro mondo), avevo dato per perso il contatto con questo scrittore.

A sorpresa è invece tornato di recente a farmi vibrare su notevoli frequenze, con la lettura del “Giuoco delle perle di vetro”, e adesso di “Demian”, appunto.

Forte di questo ridotto, ma non insignificante, campione statistico, mi sento di dire che l’opera di Hesse non ha smesso di stupirmi per la relazione felicemente contrastata, sempre rinvenibile fra la forma del suo scrivere e i contenuti.

La prosa di Hesse è levigata, pulita, precisa, classica e definita per confini noti. Le sue tematiche sono invece magna e ribollio, un rovello, un anelare incessante a dimensioni ulteriori.

Gli scritti di Hesse sono come un David michelangiolesco che cela sottopelle gli attriti esistenziali di Hieronymus Bosch.

In “Demian”, narrando le inquietudini intime di un giovane alla ricerca di se stesso, Hesse ripercorre il tema fondamentale a lui caro, controcanto continuo di tutta la sua produzione letteraria: il fatto che nel mondo e nel vivere, si incontra il male, e il fatto che con esso si debbano fare i conti, indagandone il senso, al di là di moralistici atteggiamenti esorcizzanti.

Non a caso, proprio in virtù di questa indagine (di cui il romanzo è pregno) intorno a una “nuova ontologia” dell'amalgama inestricabile fra bene e male, in “Demian” aleggia con gran evidenza l’ombra di Freud, mentre Nietzsche fa capolino molto di frequente.

In questo senso è notevole la suggestione emanata dalla scelta dell’autore di incentrare la narrazione sul fulcro della figura biblica di Caino.

Avventurandosi lungo impervi crinali filosofici, Hesse ipotizza una versione di Caino come profeta di una certa dimensione di saggezza, effettivamente posta “al di là del bene e del male”.

“Demian” contiene poi vari altri luoghi dell’anima fondamentali per Hesse: l’importanza dell’amicizia; la necessità (quasi inevitabilità) di affidarsi a uno spirito guida, unita all’altrettanto inderogabile esigenza di superarne l'autorità, con la scoperta di propri personali sentieri di vita; il confronto-scontro con l'essenza erotica della vita.

Se infine si può rilevare un appunto a questo romanzo, esso andrebbe rivolto a un certo “automatismo simbolico” nel quale talvolta Hesse indulge. Taluni significati e spiegazioni attribuite a sogni, premonizioni, intuizioni intime, suonano a tratti un po' stereotipate.

Ma si tratta solo di un vago e indefinito sentore. La generale atmosfera di dubbio fecondo, di cui tutta la storia è intrisa, garantisce al lettore un viaggio di pregio nei territori dell'interiorità.

giovedì 16 agosto 2018

mercoledì 15 agosto 2018

Sotto una capriata di idee


“…Fa tanto bene pensare che dentro di noi c'è uno che sa tutto, vuole tutto, fa tutto meglio di noi…”

Demian (1919) - Hermann Hesse

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Germaglio realizzò ad un certo punto del proprio srotolarsi nel vivere, che qualcosa di meglio del pensare, al mondo, non gli era mai riuscito.

Naturalmente, come tutti, anche lui nel tempo si era arrabattato di continuo ad incidere con più o meno evidenza l’hard disk della quotidianità.

Aveva lanciato ponti verso gli altri, aveva frequentato tutti i sentieri espressivi così cari agli uomini.

Aveva ingravidato le menti altrui con semi di amicizia, quando gli era stato possibile. Si era auto-vampirizzato fino al profondo del proprio capirsi, nello sforzo spasmodico di risucchiare tutto il senso di sé per trasfonderlo nell’interiore vastità sensuale e affettiva di donne amate.

Aveva vissuto, seppur in tono minore, facendosi segno applicato sopra gli avvenimenti.

Ma il meglio di Germaglio, era lui stesso a saperlo per primo, sarebbe rimasto per sempre nel suo intimo, inestricabile, non estraibile, conservato perfetto e da nessun altro mai visto, come un diamante inarrivabile, sotto le profondità della Terra.

Germaglio rimaneva tuttavia convinto che quel nucleo caldo di “pensato”, in qualche modo poteva traspirare fuori e andarsi a confondere col Vero.

Un pensiero pensato, nel momento stesso in cui nasce, entra a far parte della realtà. Da allora in poi non è più un nulla, ma un qualcosa. E la sommatoria di tutti questi pensieri pensati, ma mai tradotti in segni comunicabili, doveva pur rimanere, in un qualche luogo, forse non fisico, ma pur sempre inspiegabilmente esistente.

La realtà, allora, non può che essere tutta satura di pensieri fluttuanti, di un’inconsistenza di fatto inafferrabile, ma non meno veri, al pari della materia oscura, o antimateria, ipotizzate dalla fisica…pensava Germaglio...

In queste riflessioni si smarriva, si impauriva. E lo preoccupava il suo impaurirsi, perché ipotizzava che ogni sfumatura non buona del sentire interiore inesprimibile, poteva andare ad aggiungere peso negativo alla materia oscura pensata vagante per il mondo.

Ma poi si rasserenava subito, se solo gli capitava di ammirare la miriade di cappelle sistine e di Partenoni della mente, dimoranti nel proprio sé.
Non trasmissibili, certo, non condivisibili con chicchessia.

Ma pur sempre incredibilmente nutrienti da contemplare e da sentire coincidere con l’Io, con l’Es, e col proprio vero.

martedì 14 agosto 2018

Il cacciatore


Di questo capolavoro di Michael Cimino, “Il cacciatore”, riesco a dire poco, forse solo banalità, perché è talmente immenso e noto che spiazzerebbe qualsiasi commentatore.

Lo vidi, mi pare, più volte, a suo tempo, ma difficilmente lo riguarderei, o perlomeno non senza una certa preparazione, per mettermi nell’ordine di idee. Infatti sa andare a scavare sentimenti talmente conturbanti, toccanti, e dall’impatto così duro da reggere, che il timore reverenziale scatta immediato.

L’orrore della guerra in Vietnam è il grande tema, come un immenso fiume che travolge le vite dei protagonisti, i quali si immettono in esso come precari affluenti.

Ma più di ogni altro aspetto, la cosa eccezionale di questo film è che sa travolgerti per la bellezza di certi passi recitativi. Ci sono degli scambi di battute fra Robert De Niro e Meryl Streep in cui si innesca una complicità intima che va oltre ogni bravura di attore.

Sono veri e proprio inveramenti del reale. Ci si commuove, si sorride e si sentono le viscere che vorrebbero essere là, con loro, sulla scena, a farsi travolgere da quella cappella Sistina dell'espressività.

“Il cacciatore” non passa a chi lo guarda solamente attraverso vista e udito. Ciò che lo rende così eccezionale e al tempo stesso temibilmente terribile, sta nel fatto che si immette dentro prendendo la via delle vene, ha l’irruenza di una trasfusione emotiva.

Certi momenti più drammatici della storia possono essere assorbiti solo come in una sorta di stato febbrile dello spettatore. E altri lasciano invece dentro lo smarrimento svagato degli stati di convalescenza, con le forze dei sentimenti completamente sfiancate, ma in qualche modo messe in salvo.

Non è un film guardabile a cuor leggero, perché va a cambiare per sempre qualcosa di molto delicato e scoperto, dentro di noi.

lunedì 13 agosto 2018

Il posto


Un’opera d’arte sa arrivare con una certa “ubiquità emotiva” alla sensibilità di tutti, indipendentemente dalle esperienze singole di chi ha modo di entrare in contatto con essa.

Eppure, per cogliere meglio una sintonia con “Il posto”, preziosissimo film di Ermanno Olmi, aiuta aver conosciuto quella impalpabile sensazione provata certe domeniche mattine autunnali, da bambini, quando ci si svegliava coi vapori atavici del bollito di carne ad alleggiare in ogni stanza, facendo a gara in uggiosità con le brumose atmosfere esterne, fissate nell’attimo da una sospensione brinata del tempo.

I pochi film che ho visto con attori non-professionisti, mi hanno sempre fatto nascere un automatico e interiore “ma perché?”, visto che di professionisti ce ne sono parecchi e anche molto bravi.

“Il posto” in questo senso sa farci ricredere: qui l'essenza “a-recitativa” dei protagonisti diventa amplificazione di umanità assolutamente delicata, capace di cogliere le sfumature di certi pudori intimi, inarrivabili se non nelle esperienze quotidiane dirette.

Gli imbarazzi, le malinconie, i timori, i piccoli sprazzi di gioia fuggevolissima, le speranze esplosive quasi subito appesantite dal greve mantello del disincanto pratico…tutte queste e una miriade di altre emozioni, vengono passate in rassegna dalla delicatezza espressiva del film.

La storia è semplicissima, quasi inconsistente: un ragazzo, fresco diplomato di scuola, parte al mattino presto dalla sua casa di periferia milanese, verso la città, per essere esaminato, scopo eventuale assunzione come impiegato nell’austera “mega-ditta”, solenne regno dell'anonimato produttivistico.

Da qui nasce una sequela di attimi recitativi dai quali Olmi sa estrarre il succo espressivo, proprio come il tepore del fuoco lento fa col brodo della domenica.

Alla fine della visione ci si ritrova a nostra volta inspiegabilmente un po' bolliti nell’essenza di tutte le sensazioni “da lunedì” mai provate.

È un inno al mistero di ogni “prima volta”, questo film, alla perdita dell’innocenza, all’idea che ognuno nella vita si dovrà confrontare con una propria Milano dell’animo.

domenica 12 agosto 2018

La ragazza con la valigia


Definirei questo film un diamante fragile. Chi lo guarda si aspetti di sentirsi infrangere qualcosa nel proprio intimo. Se ne esce con non pochi cocci rotti, con vari sentimenti acciaccati, ma con un strana impressione di “convalescenza dell’animo”.

Ne esce male soprattutto la figura maschile, fatta passare attraverso il tritatutto di varie meschinità.
Fulcro di tutta la storia è la perturbabilità potenziale dell’energia erotica e affettiva, concentrata nella fattispecie nelle fattezze di una Claudia Cardinale in stato di grazia.

La narrazione è a tratti delicata, diventa cinica, a volte spietata, poi assume sfumature trasognate e ingenue, però si rimane immersi per tutto il film in un’aura poetica indefinita, determinata soprattutto dalla tensione recitativa che si innesca fra gli attori, più che dall’intreccio della trama.

Il contorno è l'Italia anni sessanta di un boom già alquanto scoppiato e disilluso, anche se piccoli barlumi di candore, di cui sono capaci alcuni personaggi, aiutano a non lasciar morire del tutto una certa fiducia in un qualche tipo di riscatto.

La sensazione che rimane dopo l'ultimo fotogramma, è di aver fatto un viaggio lontanissimo. Di essersi addentrati nell’animo umano, tanto profondamente quanto non mai. Di aver lì osservato aspetti della vita che ci hanno turbato e inquietato. Che le cose belle si pagano care. Ma anche una indefinibile contentezza per aver visitato quei luoghi dello spirito così ineffabilmente complessi.

sabato 11 agosto 2018

Fuori orario


Oggi volevo dire due cose su questo film, “Fuori orario” di Martin Scorsese, ma c'è un piccolo dettaglio: non me ne ricordo un fotogramma che sia uno e, a parte il fatto di sapere perfettamente che mi piacque tanto, ma tanto, altro non saprei.

Se ci pensate, è l’ideale nel rapporto recensore-lettore: rischio di rovinar sorprese azzerato, ma effetto curiosità a mille.

Mi succede coi film: dimentico la trama quasi del tutto, eppure mi rimane indelebile una certa impressione, una marchiatura interiore, un certo posto dell’animo dove il film medesimo mi ha trasportato.

“Fuori orario” è una storia a incastri perfetta. C'è questo tizio assolutamente ordinario e a incastrarsi senza una sbavatura sono vari eventi fortuiti che gli capitano nel giro di poche ore, una notte in cui era uscito per svagarsi un po'.

Se siete dei segreti ammiratori della scuola di pensiero per cui “…le cose accadono e noi non possiamo farci nulla…”, il Wile-coyotesco gioco a puzzle di pesi e contrappesi del succedere, sciorinato in “Fuori orario”, fa proprio per voi.

È il risarcimento perfetto a ogni cacca di cane pestata nella vita, a ogni ombrello che vi si è frantumato in mano nella foga di sbandierarlo per la rapidità di un acquazzone che vi aveva sorpreso, lavandovi poi regolarmente da testa a piedi.

È un teorema atto a dimostrare come dalla sommatoria incessante e proterva di una serie di sfortune più o meno grandi o gravi, si ottenga il risultato dello sfociare in una catartica dimensione di riconciliazione col tutto.

È la sorpresa del vivere modellata a cubo di Rubik.

È la stordente soddisfazione per il felice esito di un travagliato percorso; è il sollievo liberatorio, del tutto simile a quello assaporato sullo scemare delle frasi di un recensore di film che non ricordava ciò di cui pretendeva di parlare…

venerdì 10 agosto 2018

Il grande Lebowski


Questo film parla di alcune arti minori.

Dell’arte della pigrizia. Dell’arte di fare flanella, passando tempo non-utile con gli amici. Dell’arte di lasciar vivere. Dell’arte di saper stare da soli, anche, forse.

È un film per tipi ai quali il mondo a volte fa paura, ma dopo ci mettono poco ad accorgersi che quasi tutto il male, prima o poi, degenera in aspetti grotteschi.

È un film sulla libertà di essere, sul prenderla con calma, sul riconciliarsi coi propri fallimenti.

È un film di raffinata intelligenza comica, laddove si intenda la comicità come chiave interpretativa spesso utile per capire la vita.

C'è un ridere che nasce dalla pancia. Un altro dal cervello. Altri tipi ancora, dal cuore, dalla gola, da un mignolo del piede (non se mancante, però).

“Il grande Lebowski” suscita un ridere sorgente da ogni estremità del corpo, che poi implode dentro, infrangendo il labile muro del non-senso, per sfociare nel paesaggio puro della fantasia.

Da questa storia, non si farebbe fatica a trarre la logica conseguenza che tutto ciò che è demenziale è reale. Ma allora si sarebbe dovuta intitolare “Il grande Hegelowski”.

Il ritmo e i tempi in questa storia sono fondamentali quanto la sua leggerezza. Per questo, in un film così occidentale, è contenuta anche una non trascurabile dose di oriente.

giovedì 9 agosto 2018

La grande completezza


Mi avvinghiavi densa e cara agli Dei, le spire tue di morbida cheese-cake

Ogni istante intossicato di te, però il veleno un ossigeno nuovo

Dentro il sangue mi eri entrata, l’alito partito tuo, arrivava poi mio

Ogni odore ormai dimenticato che tu non fossi

Tu, totalizzata totalità di tutti i titoli del tattile titillare sotto un tetto di Tutto

Le mie giornate, di 24 occhi fiore, 60 labbra aurore, 1440 punte di more, 3600 rose nere, 86400 puzzole fiere…tutto il tuo addentrato nel mio

E il sapore della mia voce, sulla bocca coi tuoi suoni

Niente più bisogno di verbi, tu tutti gli aggettivi di vita

Eri l’eco nello specchio fatto a pendolo per ripetere il flusso ciclico notte-giorno-spazio-tempo

Nemmeno in mille dizionari la parola per dirci, da inventarci ogni minuto freschi sotto un solo fiuto

Poi lo schianto insonoro, guscio d’uovo creduto d’oro, e che ne dica la chimera, ci credo ancora, sì, lo era!

Il buio oltre la siepe


L’annosa questione se una storia sia stata raccontata meglio da un film o dal rispettivo libro (spesso risolta a favore di quest'ultimo), nel caso del “Buio oltre la siepe” si complica per giungere a una particolare forma di insolubilità definitiva.

Mentre lo si guarda, il film con Gregory Peck sembra sempre più bello del libro di Harper Lee, e viceversa, in un'altalena di preferenze senza posa possibile.

Questo film penetra nelle profondità del mistero della fanciullezza e del diventare grandi. E anche qui non si riesce a stabilire bene se sia questo il tema portante della storia, oppure quello dell'intolleranza razziale e del rispetto nei confronti della presunta diversità.

“Il buio oltre la siepe” ci racconta come i bambini e i ragazzini non siano altro che mini-adulti ancora in indefinita fusione col tutto, nella numinosa continuità con le cose, gli elementi naturali, e le altre persone.

Da piccoli, il mondo è un magna di arcani e insondabilità che impressiona e inquieta, e tuttavia si dà per stabilito, fissato, immutabile.

Ci si rende conto che si sta diventando grandi, quando nascono le domande intorno a tutto ciò.
Questo ci racconta in misura magistrale “Il buio oltre la siepe”, soprattutto in versione film, con un Gregory Peck in stato di grazia nell’impersonare il meglio dell’idealismo americano, anch'esso grande chimera dell’infanzia di ciascuno, forse di quella dell'umanità stessa.

Perché, parafrasando una nota boutade riguardante il comunismo, subire il fascino del sogno americano fino intorno ai vent’anni, denota un’eroica ingenuità poetica, ma crederci ancora dopo i quaranta, è da irrecuperabili fessi.

mercoledì 8 agosto 2018

Un americano a Roma


Questo film è assolutamente privo della benché minima profondità, eppure raramente ho visto condensati e articolati in un solo attore, frammenti di gioia incontaminata, emozioni empatiche così multiformi, istrionismo magnetico e goliardia espressiva tanto immediata e senza alcun filtro.

Capita talvolta di ritrovarsi quasi per caso con un gruppo di cari amici, e senza aver preventivato nulla, la serata prende la via del “perfetto stare in compagnia”. Ecco, una sensazione simile regala Alberto Sordi nei panni dell’ineffabile Nando Mericoni, fanatico e strampalato americanofilo.

La prima volta lo vidi su una vecchia videocassetta, registrato da una qualche programmazione Rai di tarda notte. Riguardandolo poi varie volte, mi coglieva, rinnovata, la piccola magia di ritrovare familiarità estrema in ogni gesto, in ogni inflessione della voce, in ogni minima smorfia del viso o movenza del corpo di Sordi. Una quintessenza di bellezza fatta scaturire dal nucleo stesso dell’arte di rendersi macchietta comica pura.

Durante quelle prime visioni del film, la simpatia, la strafottenza, la sfacciata giovinezza di Nando Mericoni erano il paesaggio dove avrei voluto abitare, forse per sempre.

martedì 7 agosto 2018

Michelasso


Ma chi lo dice che andare a spasso
sia il mestiere di Michelasso,
che a tener sempre lo sguardo basso
non riusciva mai a vedere un casso?
Sarà stata forse una Gran Bretagna?
Oppur di Parigi la gran cuccagna?
Con lì nessun che la quistion dipana
non volli farla caprin di lana
poi scavalcandola in un sol passo
‘sta torre Eiffel del Gran Brecasso


domenica 5 agosto 2018

Great afa two-zero one-eight


Di sterminata calura l’intera stanza s’imbambagia, uno spigolo non rimane men che zeppo di gradi, flaccido il sonno addosso ti s’adagia, in minotaurina oppressione sei reso materasso a te stesso, il sogno è un lungo fluido entro cui fluttuare, una melassa viscosa, e sulla chiave di volta della notte finisce per posarsi un’ignota brezza, incontro fortuito di due venticelli intrusi da finestre contrapposte… maree di sudore, puzze oniriche, impennate liriche, ascelle eroiche, epopee pubiche, lotte fradice… il risveglio, irreale, il corpo un unico pulsare, come un grande pane cotto nel forno a legna duemila diciotto...

venerdì 3 agosto 2018

giovedì 2 agosto 2018

Un apologo dei Gerbeti


Una normale famigliola di Gerbeti del Sivione abitava serenamente nel proprio sugnefi pensile.
Il sugnefi è una sorta di palafitta rizzata su tronchi di gremdorzonio stagionato. Il gremdorzonio è un legno molto duro, di cui vanno ghiotti i liberfuoli della jungla, una specie di roditori voraci e silenziosi.

I pali di gremdorzonio che reggevano il sugnefi dei Gerbeti affondavano in una spessa coltre di normobiola, un erba fitta che raggiunge spessori notevoli. Fra la normobiola, amano moltissimo stare acquattati e nascosti i liberfuoli ghiotti di gremdorzonio.

I Gerbeti si lamentavano di continuo di piccoli sciami di sfrufazziti che riuscivano a introdursi nel sugnefi, se solo rimaneva la porta, o uno spiraglio di finestra, aperta. Gli sfrufazziti sono una specie di moschino sostanzialmente innocuo, benché alquanto molesto sonoramente.

I Gerbeti continuavano così tutto il giorno a dar schiaffi nell’aria, a darsene sulla propria faccia, a rifilar ceffoni alla faccia altrui, nel goffo tentativo di domare il fastidio causato dagli sfrufazziti ronzanti.

Ormai tutto il giorno non avevano in mente altro che gli sfrufazziti, e menavano sventole micidiali di qua e di là, per altro riuscendo al massimo a fare poco più che un po' di vento agli sfrufazziti stessi.

Un giorno, nel pieno di una furibonda sessione di caccia agli sfrufazziti onnipresenti (soprattutto nella mente dei Gerbeti), Gerbeto babbo si accorse che uno sfruffazzito si era posato sul coppino di Gerbeto nonno, sonnecchiante in poltrona.

Che ghiotta occasione!

Gerbeto babbo si avvicinò circospetto, levò alto il palmo vendicatore e PAMMM!!! giù un seturbante coppone sleppazzoso sul collo di Gerbeto nonno.
Ovviamente lo sfrufazzito si scansò per tempo, il nonno cioccò un bestemmione roboante e geffriero, che ancora lo sentono fino a Midguld City, ma intanto il contraccolpo della mazzata faceva crollare il sugnefi dei Gerbeti, accartocciato su se stesso.

Cos’era successo? I liberfuoli ghiotti di gremdorzonio di cui erano fatti i pali di sostegno, li avevano divorati al limite della portata, ed era bastato lo scoppolone a nonno Gerbeto, per far collassare tutto.

Ora i Gerbeti del Sivione son rimasti senza casa in un polverone sconsolato, e per di più con un pugno di sfrufazziti in mano. Mentre i liberfuoli ghiotti di gremdorzonio, se la ridono con la pancia piena di gremdorzonio rosicchiato in incognita.

mercoledì 1 agosto 2018

I Vicerè (1894) Federico De Roberto


Ho letto “I Vicerè” (1894) di Federico De Roberto (edizione Feltrinelli - 11 €).

Come mio uso, non proprio una recensione, ma piuttosto alcune impressioni di lettura.

Prima vi dico come mai mi sono avvicinato a questo classico.

Ascoltando con distrazione uno stralcio d'intervista a Leo Gullotta in tele, mentre zigzagavo indolente fra i canali, mi ha incuriosito una sua frase colta al volo: “I Vicerè” è il corrispettivo dei “Promessi sposi” per il meridione d'Italia.

Dopo aver letto il libro, in questa precisa mini-recensione mi ci sono ritrovato, pur consapevole che per forza di cose sia da prendere con gran cautela, per la sua estrema sinteticità e generalità.

Anche se al tempo stesso l’opera di De Roberto è molto diversa dal capolavoro manzoniano, non di meno ne condivide l'intento ambizioso di esplorare la natura umana attraverso un articolato affresco di un particolare periodo storico, in questo caso il Risorgimento in Sicilia, visto attraverso le vicissitudini della nobile famiglia degli Uzeda di Francalanza.

L’immaginaria dinastia (ispirata però a famiglie aristocratiche veramente vissute) viene ritratta nel passaggio terminale del suo disfacimento, coincidente con una fase di mutamento epocale della società.

Come nel romanzo manzoniano, l'impressione che se ne trae è quella di una “ciclica difettosità” dell’uomo. Cambiano i momenti storici e le personalità individuali, ma la natura umana si ripropone nella propria fragile propensione a subire gli eventi.

Così, “I Vicerè” si ritrova in un certo senso “stretto” fra gli estremi della tragicità greca e quelli del “trasformismo non-mutante” gattopardiano, la cui natura viene ampiamente sondata in anticipo dal romanzo di De Roberto, rispetto all’opera di Tomasi di Lampedusa.

Non c'è personaggio dei Vicerè che non vi rimarrà impresso per la sua meschinità più o meno pronunciata. Ma proprio per questo, ogni personaggio dei Vicerè lo ricorderete per la sua umanità.

Con questa opera che distende con notevole ampiezza le proprie ali narrative in complessità di trama e ricchezza di storie (su circa 650 pagine), De Roberto tratteggia la propria disincantata visione dell'esistenza: vivere è un continuo altalenare periodico da un’epoca di ingenuità idealizzanti, verso la presa d’atto di grandi disillusioni rispetto ai fatti, alle cose e soprattutto alle persone. E tale fenomeno si realizza sia sul piano delle esperienze personali (il lasso di vita individuale), sia su quello delle vicende di un popolo (la storia di un tipo di civiltà). Per fare solo un esempio: un certo “stile” politico di oggi lo ritrovate già tutto delineato nella sua sostanza, nei Vicerè.

La prosa è elegante, a tratti ricercata, ma godibile nella sua preziosa costruzione tardo ottocentesca, però un’avvertenza è d'obbligo. Per il primo centinaio di pagine, sarete fortemente tentati di lanciare il corposo volumetto fuori dalla finestra.

De Roberto vi travolge infatti con una sequela abbastanza irritante di nomi di personaggi a raffica, molto difficili da tenere a mente e collocare in un primo momento. Per di più li chiama spesso in diversi modi, ora col nome vero e proprio, ora col titolo nobiliare, ora col grado di parentela, rendendo il quadro ancor più caotico.

Mi sono chiesto il perché di tutto ciò. Indubbiamente le capacità di dominare il materiale narrato sono molto cambiate nel lettore moderno. Ma mi ha carezzato anche la suggestione di un altro motivo. Ho pensato che questa iniziale “doccia fredda” di confusione fosse voluta dall’autore, per rendere il senso di come ogni tipo di conoscenza si dipani sempre a partire dal caos verso un qualche ordine.

Di fatto, se la pazienza di raggiungere un soddisfacente grado di orientamento nella storia vi sosterrà a sufficienza, sarete ripagati per il resto del libro da una lettura appassionante, ironica e gratificante, con punte di buon divertimento.

Concludo sottolineando ancora una precisazione: l’analogia coi promessi sposi va presa con tutte le molle, le pinze, i distinguo e la duttilità interpretativa del caso. Questo perché poi non capiti qui il primo “prenditor letterale di senso” che passa, e mi venga a far me pulci.

Per evitare, in altre parole, di incappare in quei tipi che al sentir parlare dei raggi dorati del sole, se ne vanno in giro a saccocce spalancate, sperando di intascare monete sonanti di aureo metallo.