lunedì 12 novembre 2018

Rutti postmoderni


Con un'immagine suggestiva, potremmo paragonare il linguaggio che parliamo, a un paesaggio in cui ci ritroviamo a vivere.

Non ci vorrà allora un esperto di urbanistica per cogliere un’interessante similitudine fra le due dimensioni.

Gli ambienti di vita, le case, i quartieri, i paesi, le città, solitamente risultano più gradevoli da abitare e ricchi di fascino, quando hanno avuto modo di caricarsi di significati nel tempo, in maniera graduale, per lenta stratificazione.

Un borgo medievale ci concilia con la nostra sensibilità e con la propensione al bello, molto più di quanto non sappia fare una via piena di capannoni in un quartiere industriale.

Qualcosa di simile succede anche con le parole. Quelle che si sono formate lentamente, modellate dall'esperienza parlata quotidiana, di solito contengono una forza evocativa più vasta, un’energia maggiore, un’ampia capacità di trasportare con sé significati e sfumature di senso.

Sul fronte opposto, si formano talvolta certe “parole-capannone”, nate dall’oggi al domani, perlopiù nell’ambito del linguaggio tecnologico, che quando va bene suonano un po' fredde e legnose.

E sottolineo “quando va bene”. Perché nei casi più infelici, sono delle vere e proprie schifezze. “Abusi linguistici” che nemmeno il più generoso condono riuscirebbe a sanare.

Mi è capitato di sentirne una di recente, che ho trovato di una bruttezza veramente spettacolare. L'hanno detta in tv, e tra l’altro ho rischiato pure grosso, dato che nel mentre stavo mangiando.

Spero che siate a stomaco leggero, perché leggendo questa parola si rischia il rigetto post-prandiale senza appello.

La parola è “bio-digestore”.

Se siete riusciti a reprimere i conati (immagino molto a fatica), proseguo col mio discorso.

Con questa sgraziata, e disgraziata, parola, viene indicato un impianto per la trasformazione di rifiuti organici in biogas.

Ora, capisco la necessità di sintesi e di una terminologia pratica per capirsi velocemente nelle questioni tecniche. Ma c'era davvero bisogno di escogitare questa sguaiata "perla”?

Personalmente, il “bio-digestore” mi ha evocato una serie di immagini sparpagliate fra il comico, il grottesco e l'inquietante.

La prima cosa pensata è stata una squillante bestemmia, magari sparata in un gruppo di vecchietti seduti all’osteria a farsi una briscola: “...Ma bio digestore!!! Pudévat mia calà al fümóŋ?...” (“…non potevi calare l’asse di bastoni?!?!?!...”).

Il “Bio-digestore” può farci precipitare anche in atmosfere apocalittiche stile “Blade runner” o “Matrix”, col mondo trasformato in un enorme stomaco globale che si sta auto-digerendo, sino alla tremenda soluzione finale della gran scoreggia galattica totale.

Sì, perché poi, a ben guardare, chi ha concepito questo gioiello di parola ha anche un po' ciurlato nel manico.

Ci depista attirando l’attenzione sulla fase digestiva di tutto il processo, ma se l’obiettivo conclusivo è la produzione di gas, era un altro il passaggio da mettere in rilievo.

Invece di “bio-digestore”, se davvero volevano essere tecnicamente coerenti, avrebbero dunque dovuto chiamarlo, ad esempio, “flatulone”, “air-fart-one”, “gran petoforo”, o “scoreggificio”.

Insomma, per tornare un po' seri (ma non troppo), lo chiamino pure “bio-digestore”, oppure Pink Floydianamente “The Great fart in the sky”, ma il punto focale rimane il nostro sacrosanto diritto di difenderci dalla bruttezza.

Usare parole brutte è un po' come subire la bruttezza dei luoghi. Anzi, si diventa quasi complici dell’abbruttimento.

Così come pretendiamo giustamente la tutela ambientale, dovremmo esigere anche una tutela linguistica.

Certo, creare bellezza è prerogativa forse riservata soltanto agli artisti. Ma sforzarsi di far sì che almeno non aumenti la bruttezza, credo sia più alla portata di tutti.

Magari partendo da piccole cose. Tipo rifiutarsi di digerire astruserie indigeste come la parola “bio-digestore”.


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