Abitando da sempre in un piccolo paese abbastanza distante dalla città, ho sviluppato un’esperienza da pendolare di tutto rispetto. Quei lassi di tempo trascorsi tra casa e il luogo di lavoro (o all’epoca, casa-scuola) sono una fonte di meditazione notevole. Meditazione forzata e spesso associata a stati di disagio, se non di sofferenza vera e propria, anche questo va detto. Ma pur sempre di fertile riflessione si tratta. Porzioni del tempo della mia vita ormai divenuti piuttosto numerosi, e che mi ritrovo ogni volta a considerare nella loro essenza di momenti molto delicati e sfumati di vulnerabilità psicologiche di ogni tipo.
Da un paio di giorni ho ripreso questa trafila dopo un breve periodo di ferie, e mi è capitato un fatto strano, ma forse poi non così tanto. È successo che non sopportavo l’autoradio. Ho constatato il fenomeno con un certo disappunto, devo dire. Per i discreti viaggetti che mi devo sorbire, l’autoradio è una compagnia notevole ed è stata una sensazione contraddittoria, come sentire la mancanza di una cosa che in quel momento stavo odiando.
Da mesi non mi succedeva una faccenda del genere. Pur viaggiando ad orari che concilierebbero piuttosto il desiderio di silenzio (appena sbattuto giù dal letto dalla sveglia, ecc.), di solito un po’ di musica negli ultimi tempi non la disprezzavo. In queste mattine invece, niente. Era come cercare di far abboccare i pesci dalla parte della coda.
Non a caso però ho parlato di musica. Infatti, per quanto riguarda la voce parlata che sortisce dall’autoradio, il mio rapporto è sempre stato conflittuale. Un po’ a tutte le ore. Figurarsi al mattino presto. Non saprei dire bene come mai mi succede così. Già l’atto del guidare è per me spesso una sgradevole imposizione, facile fonte di nervosismo e disappunto. Se poi si aggiunge violenza a violenza, con una voce sotto che di volta in volta si arrabatta nel tentativo di informare, convincere, pontificare, divertire, allora non ne parliamo neanche.
Quello che ho provato nelle ultime albe tuttavia aveva più il sapore dell’umana compassione. Per il dolore del povero deejay. Dove trova le forze, mi domandavo, per riuscire a chiacchierare a quest’ora del giorno, adempiendo al suo dovere di essere spiritoso e simpatico a tutti i costi, mentre io sto facendo una fatica immane anche solo a sopportare il silenzio? Chi l’ha detto che dobbiamo essere trasformati in condannati al sorriso forzato quando tutto intorno a noi sembra riflettere proprio gli stati d’animo opposti?
Se questa è la strategia adottata, si vede che funziona. Nel senso che alla fine i prodotti reclamizzati fra una forzatura gioviale e l’altra vendono, e la ruota gira bene sia per i “radiolari”, sia per gli “spottaroli”, sia per gli “inventori di bisogni”. (Breve digressione: ho digitato su google questo mio strambo neologismo, “radiolari”, e mi è uscito questo: «…i radiolari sono protozoi ameboidi caratterizzati dallo scheletro siliceo…». Funny, isn’t it?...).
Si vede che funziona, mi son ripetuto, ma io continuo a non capire bene come.
E allora mi è scattata in mente un’«epifania del lettore» a ritroso, nel senso che di solito è la lettura di un brano a far da molla alla suggestione, mentre in questo caso era stato un piccolo episodio quotidiano con relativa riflessione a farmi ritornare ad un passo letto da poco:
«…erano coetanei dell'ufficiale della guardia, uomini con baffi alla magiara e ciocche inanellate ricadenti sulla fronte, in abito nero da cerimonia o in alta uniforme. Quella sì che era una generazione in gamba, pensò il generale, mentre guardava le effigi di parenti, amici e commilitoni di suo padre. Erano uomini splendidi, benché di natura un po' schiva, poco portati a vivere in armonia col mondo, orgogliosi; però credevano in qualcosa: nell'onore, nelle virtù virili, nel silenzio, nella solitudine, nella parola data, e anche nelle donne. E quando subivano una delusione, si rifugiavano nel silenzio. La maggior parte di loro aveva trascorso in silenzio la vita intera, dedita ai propri doveri e all'osservanza del silenzio come all'adempimento di un voto…»
Sàndor Màrai - "Le braci" (1942)
1 commento:
il silenzio per me è più rumoroso di una radio accesa.
Forse il silenzio per me è sinonimo di vuoto ed io ho sempre la smania di colmare tutti gli spazi vuoti della mia vita senza riuscirci, però.
Anch'io viaggio in macchina anche per brevi tragitti e ho risolto masterizzando dei cd di musica classica o blues che mi rilassa tanto.
Perchè non ci provi?
(Sono andata a scovare questo tuo post, chissà se ti accorgerai che ti ho scritto qui.... ). baci silenziosi
Posta un commento