mercoledì 4 gennaio 2012

Di quella pira l’orrendondello



Per imparare a capire il proprio corpo, o per cercare di addentrarsi almeno un po’ nei suoi misteri, ritengo possa essere non del tutto privo di utilità, riuscire ad approfondire i concetti della Geografia. E anche se sulle prime potrà non apparire così lampante ed immediato, esattamente per il medesimo motivo, né più né meno, dopo un po’ di anni mi sto accorgendo di essermi riconciliato con la lettura di Pirandello. Agguanterete forse una pagliuzza di comprensione in più riguardo a queste mie affermazioni, se aggiungo che solo adesso mi rendo anche conto di come questa riappacificazione  col maestro siciliano si sia andata dipanando, sotterranea nel tempo, in parallelo alla riconciliazione con la lettura del mio corpo.

Che cosa c’entra la geografia? Che cosa c’entra il corpo? Ma soprattutto, per dirla appunto con estrema coerenza linguistica, che minchia c’entra Pirandello? Se avete due minuti di tempo e due quintali di pazienza, proverò a spiegarmi meglio.

Tutto ebbe inizio diversi anni fa, non ricordo bene se durante una vacanza estiva, fra un giugno ed un settembre del liceo, oppure in un altro momento del mio cammino di studioso in corso di fioritura. Quello che ricordo di certo è che ero uno sbarbatello brufoloso, allampanato più di un lampione in stile liberty, con un fisico secco come il deserto del Tartari e di gran lunga più leggero del peso della mia anima. C’erano forse in ballo le mitiche letture per le vacanze, croce e delizia di ogni studente. Fatto sta che un bel giorno mi ritrovai fra le mani «Uno, nessuno e centomila».

Ora, per l’adolescenza ci siamo passati tutti. Ciascuno conosce perfettamente le mille battaglie psicologiche che tocca ingaggiare con la percezione della propria fisicità, in quel periodo della vita (per fortuna, in molti aspetti anche parecchio esaltanti ed affascinanti, queste “battaglie”, va detto…). Si sa benissimo insomma che se il senso di inadeguatezza fisica fosse convertibile in valuta pregiata, in pochissimi mancherebbero di diventare ricchi sfondati fin già da ragazzini (si ritengano esclusi dalla presente considerazione Ken, Barbie e Big Jim, se per caso fossero incappati nella lettura del presente scritto…). Voglio dire: è proprio a quell’età che il corpo si impone in maniera evidente ed impetuosa al nostro senso di auto-considerazione, e nove volte su dieci la faccenda non è mai fonte di grandi consolazioni.

Prendi un siffatto scenario esistenziale, sbattici dentro «Uno, nessuno e centomila», e avresti fatto meno danno a gettare una granata in una polveriera. Non dico che ne derivasse esattamente una tragedia. Ma abbastanza devastante, nel mio caso, sì: lo fu. Pur rendendomi conto fin da allora di trovarmi di fronte ad un capolavoro narrativo, della storia pirandelliana mi “sconvolse” soprattutto l’atteggiamento spietatamente introspettivo del protagonista, che prendeva le mosse giusto da un’indagine intorno alle proprie semi-impercettibili anomalie fisiche.

Un giorno scopriva su di sé un insospettato neo, prima di quel momento mai preso in considerazione. Il giorno dopo notava una beffarda asimmetria, intromettersi nel confronto fra due arti, o fra due parti del corpo, normalmente reputabili come perfetta replica l’uno dell’altro. Un’altra volta ancora, toccandosi in altre zone, sbugiardava l’inaspettata ed inusuale conformazione di un osso sottostante, sbalorditiva e spiazzante sorpresa rispetto a come se l’era invece sempre morfologicamente immaginata lui. Naturalmente, non sono certo della fedeltà letterale di queste citazioni, visto il lunghissimo tempo trascorso dalla lettura: valgano tuttavia come richiamo del clima narrativo da me assorbito all’epoca durante la conturbante lettura.

Quello che ricordo perfettamente è che dovetti interrompere quella lettura “per eccesso di tormento”. Solo nel prosieguo dell'iter di studi, acquisii la consapevolezza di come quella prima fase del romanzo, nelle intenzioni poetiche di Pirandello, altro non fosse che un minimo prodromo a successive e ben più complesse contorsioni identitarie, nella cui rete il protagonista sarebbe rimasto impastoiato. Per me quelle poche pagine bastavano così, ed avanzavano pure. Complice un malefico gioco di specchi, cominciai ad accorgermi ad esempio che uno dei profili del mio volto era notevolmente diverso dall'altro. Da lì prese il via una spietata spedizione esplorativa dei territori del mio corpo, che progressivamente si andava costellando della posa di una miriade di bandierine di insoddisfazione, piantate di volta in volta in un nuovo piccolo difetto, o presunto tale, che andavo scoprendo su di me.

Fortuna che la vita è proprio un puzzle (questa la potete scrivere sul muro del cesso all'autogrill, la prossima volta che fate un giro in autostrada: vi concedo il copyright...). Le tesserine ti vengono consegnate a casaccio, spesso sono quelle che meno ti servono, e per di più ti arrivano nel momento sbagliato. Magari la tesserina che ti occorrerebbe disperatamente in un determinato punto dell'esistenza, ti arriva solamente molto più tardi, dopo che sei rimasto  anni a credere che quel buco nella figura ci dovesse essere per forza, che era giusto e naturale così.

Una piccola tesserina a me venne consegnata diversi anni dopo, sempre in ambito scolastico, sebbene più avanzato, stavolta. Sto parlando, come anticipato, di una nuova consapevolezza geografica. Non dico che allora, questa nozione mi fosse immediatamente di aiuto nel cammino di riconsiderazione del rapporto col mio corpo. In mezzo e successivamente c'è stata un'altra infinità di passaggi, di esperienze, di crescite dal punto di vista culturale, spirituale, umano.

Adesso però mi sento di dirlo: potrà suonare ridicolo, ma anche quel modo più raffinato e complesso di concepire la geografia, ebbe un suo arcano senso in tutto il processo di auto-raffinazione operato sul bilancio soppesato fra la mia interiorità e la mia esteriorità. La definizione cruciale per me fu la seguente: «...una carta geografica è la metafora dei rapporti di potere in atto nella porzione di territorio rappresentato...». Anche qui cito a memoria, quindi la precisione letterale va un po a farsi benedire, ma quello che m'interessa è il senso del concetto, il suo midollo. Depuro addirittura la frase della sua seconda parte, nella quale i più smaliziati non avranno faticato a cogliere sfumature d'impronta smaccatamente marxista. Questo risvolto non m'interessa, in sede delle presenti elucubrazioni.

Il passo fondamentale, quello che più mi sta a cuore, è invece questo: «...una carta geografica è una metafora...». Nessuno è talmente ingenuo e sprovveduto da credere che una carta geografica rechi con sé pretese di corrispondenza realistica rispetto alle cose concrete rappresentate. Tutti bene o male sappiamo che si tratta di una idealizzazione, di un'astrazione.

Ma dicendo che è una metafora, si dice molto, ma molto di più. Mappare una carta non significa soltanto riportare oggetti, semplicemente e quantitativamente scalati in piccolo. Si frappone invece il valore aggiunto dell'interpretazione, o forse meglio, dell'interpretabilità. Tutto si gioca nel “taglio” che il cartografo sceglie di assegnare alla sua rappresentazione, “taglio” nel quale è già insita la volontà di raccontarci certi aspetti del mondo, trascurandone magari tanti altri.

Col corpo succede qualcosa di affine. Esso si presta preferibilmente ad una lettura “aperta”, non riduttiva. Non è una pedissequa riproduzione in scala dei valori della nostra personalità, rispettosa soltanto di banali rapporti topologici, preoccupata di riportare le giuste relazioni fra aree, angoli, lunghezze, e nulla più. Il corpo è la nostra carta geografica e come tale è metafora del nostro essere. Le sue specificazioni materiali raccontano molto di più di quello che un'immediata e superficiale presa d'atto della nostra fisicità può volerci dare ad intendere. Nell'ottica di questa contorta ma fascinosa significazione, ciascun corpo ed ogni parte di esso sono belli, in quanto metafora di una propria complessità sottostante. E' proprio nella sua “difettosità”, nel suo sottrarsi alle regolarizzazioni dettate dall'astrazione, che si cela la sua forza metaforica, l'energia in grado di dare adito a significati ulteriori, oltre a quelli strettamente quantitativi.

In virtù di tutte queste considerazioni, a distanza di anni sono tornato a leggere Pirandello con serenità e passione, ad apprezzare da matti la sua prosa costruita come una raffinatissima architettura, a lasciare che le sue tematiche, del tutto incapaci di concedere il benché minimo sconto alle più crude evidenze della vita, compenetrino la mia sensibilità e diventino parte del mio corredo culturale.

Non ce l'ho più con lui per avermi assestato all'epoca quella mazzata esistenziale nel fiore della mia giovinezza. Si trattò soltanto del momento sbagliato di ricevere quella tesserina, tutto qui. Ma prima o dopo dovevo riceverla e col senno di poi, posso dire: meglio averla ricevuta da una mente eccelsa come quella di Pirandello, che magari in altri modi più ordinari.

E sempre nell'ambito di tutta questa sequela di riflessioni, ecco infine spiegato come mai, anche con tutti i suoi difetti, magagne, inestetismi ed asimmetrie, anzi forse proprio in forza di essi, trovo che, dopo un così lungo cammino interiore, oggi a suo modo il mio corpo, rifulgendo nel pieno di tutta la sua possanza metaforica ai miei occhi comprensibile soltanto ora, sia bellissimo.

2 commenti:

ross ha detto...

A miei occhi ( virtuali) sei FIGHISSIMO

Gillipixel ha detto...

@->Ross: se continui in questo modo, dear Ross, mi farai venire un ego grosso così :-) A parte gli scherzi, grazie tante ancora, i tuoi commenti sono un balsamo fortificante per la mia energia narrativa :-)

Bacini balsamici :-)