martedì 27 marzo 2012

Ingres: in equilibrio sul filo del vero


Jean-Auguste-Dominique Ingres: e scusate se è poco!

Conosco fin dai tempi della scuola il nome di questo artista francese, attivo dai primi decenni del 1800, sino a secolo inoltrato (nacque a Montauban, il 29 agosto 1873, e morì a Parigi, il 14 gennaio 1867). Ma solo nei giorni scorsi sono stato folgorato in modo davvero intenso dalla bellezza della sua opera.

Ho potuto infatti ammirare le riproduzioni di molti suoi dipinti nel numero monografico a lui dedicato dalla casa editrice Skira, che sta mettendo fuori una serie di tometti d’arte in allegato al Corriere della Sera. E dire che ne sono usciti già parecchi numeri, ogni volta un autore strepitoso, un genio supremo della storia dell’arte dietro l’altro. Con Ingres siamo giunti al numero 61. Non li ho acquistati tutti, ma una buona quarantina direi di sì. Eppure mai come in questo caso, il rapimento estetico era stato per me così forte, nemmeno col numero su Raffaello, o quello su Picasso, o Rubens, Masaccio, Bellini, Turner, Paolo Uccello e un sacco di altri.

Di Ingres (si pronuncia “Aŋghr”, ma a me piace gillipixarlo in “Ingrè”, almeno quando me lo dico mentalmente per i fatti miei) conoscevo giusto quelle tre opere note anche ai gran profani come me: “Donna al bagno”, del 1808 (detta anche “La baigneuse Valpinçon”); “La grande odalisca”, del 1814; “Il bagno turco”, del 1863.
"Donna al bagno" ("La baigneuse de Valpinçon") - 1808

"La grande odalisca" - 1814

"Il bagno turco" - 1863

Sono state queste tre opere, riviste ancora una volta, insieme ad un sacco di altre felicemente rinvenute sul tometto della Skira, che mi hanno fatto scattare l’epifania pittorica. Mi sono domandato perché questo piccolo fenomeno mi sia successo proprio con Ingres e non con altri autori, seppure anch’essi massimi maestri della storia dell’umano “infonder vita nella bellezza”.

Per andare subito al sodo dell’onestà intellettuale, e conoscendomi, dapprima ho valutato se il “quid” in questione non fosse per caso da addebitarsi al fatto che Ingres dipingeva spesso donne nude. Scusate la crudezza triviale del mio argomentare, ma volevo sbaragliare fin da subito ogni fuorviante equivoco. Sono certo che l’interesse figurativo di Ingres per il corpo, e in particolare per quello femminile, ha avuto un ruolo notevole nel far scattare la mia predilezione per questo artista, ma mi pareva di intuire che il punto nodale non doveva risiedere nella nudità soltanto.

Una rapida controprova mi ha subito confortato nella mia deduzione: anche Tamara De Lempicka, ad esempio, ha dipinto corpi femminili nudi a iosa, facendone praticamente il mono-tema esclusivo della sua produzione artistica, ma tutta la sua pletora di seni, glutei e cosce, non riesce, nel mio personale giudizio, a suscitare nemmeno la minima parte di fascino che posso ritrovare invece in una semplice schiena scoperta messa su tela da Ingres.

Il nucleo misterico Ingresiano doveva nascondersi, allora, sì nella “questione corpo”, ma essa andava motivata attraverso fattori ben più sfumati del banale gusto “guardonesco”, che detto per inciso (non dimentichiamolo e non facciamo troppo i furbi…) è pur sempre prerogativa maschile del tutto naturale ed imprescindibile (almeno fino a quando essa rimanga commisurata ad un grado decente di civiltà e di rispetto vicendevole fra individui liberi e capaci d’intendere e di volere).

Se l’atto del guardare non risiedesse da sempre nella natura dell’uomo, e quello di essere guardata non fosse andato di pari passo con l’essenza dell’essere donna, forse il mondo sarebbe stato meno colorato, meno vivace e più bigio, o addirittura, l’umanità si sarebbe estinta da tempo.

Ma tornando a noi: cos’hanno dunque di particolare questi corpi dipinti da Ingres, maschili o femminili che siano, oltre al fatto di presentarsi talvolta nudi? La loro evidenza più singolare sta (a mio avviso, e non solo) nel fatto di presentarsi spesso e volentieri “disarticolati”. In altre parole, la tendenza figurativa di Ingres consiste, in tante occasioni, nel piegare il dato anatomico alle esigenze della composizione.

Una volta appurato ed accettato questo dato, non ci vuole un’aquila per capire che il punto nodale d’interesse dell’artista francese non sono tanto i singoli elementi della composizione, bensì l’equilibrio globale della composizione.

Vediamo un esempio significativo in merito: “Giove implorato da Teti”, dipinto del 1811. Teti, la nereide madre di Achille, sta scongiurando un Giove potentemente assiso sul suo trono, affinché intervenga a rappacificare il dissidio potenzialmente funesto che si è innescato fra il grande eroe dal tallone fragile ed il fiero Agamennone.

La figura di Teti spiega benissimo in questo caso ciò che intendevo parlando di corpi “disarticolati”. Quello di Teti, pur rimanendo un corpo femminile a tutti gli effetti, non è praticamente e propriamente più un corpo. E’ invece una freccia visiva di morbidezze e di tenerezza materna e femminea, che tenta di fare centro nella sensibilità del possente capo dell’Olimpo.

"Giove implorato da Teti" - 1811

La sequenza formata da “profilo del collo più sottomento”, tende forzatamente alla linearità, sfiorando l’innaturalezza. Allo stesso modo, una seconda linea si viene a creare subito a seguire (ma con direzione opposta), laddove il profilo del viso oltremodo appianato (naso e sopraciglia sono come fusi insieme) prosegue nella cima piatta della coroncina posta sul capo della morbidosa nereide. “Collo più sottomento” e “corona più fronte” convergono allora nel vertice della “freccia” che viene a coincidere con la punta del naso. Non si tratta tuttavia di una freccia aggressiva, ma di una freccia che vuole colpire prima di tutto con la propria dolcezza.

Non bastasse la delicatezza appena vista della “punta” di questa freccia, osserviamo anche i fianchi di Teti: essi appaiono straordinariamente femminili, anzi, si potrebbe dire esageratamente femminili. Il gluteo si fonde in pratica con la schiena, andando a comporre un tutt’uno quasi commovente; la leggera pinguedine del ventre riecheggia dinnanzi le terga, specularmente; una delicata linea è soltanto accennata, a suggerire l’attaccatura della coscia: tutto l’insieme offre un’esaltazione suprema della “fiancosità” femminile più sensuale.

Insomma: a rigore di logica visiva e formale, dovremmo ammettere che il fianco di questa Teti è il risultato di una deformazione. Eppure, allo stesso tempo (e qui risiede la magia più ammaliante di Ingres), siamo costretti anche ad ammettere che forse nella realtà faremmo parecchio fatica a trovare un fianco dotato di altrettanta energia e grazia femminea.

Ingres prende la realtà, la “disarticola” in base alle proprie esigenze espressive, e poi ce la restituisce ancora più vera del reale: in questo paradosso formale risiede il fascinoso segreto del raffinato pittore francese. Per portare a compimento questa operazione di ricerca visiva, il soggetto e gli elementi raffigurati divengono quasi un pretesto, ma al tempo stesso la fedeltà alla concretezza realistica viene sempre conservata, non è mai tradita.

Ciò che interessa soprattutto ad Ingres sono i meccanismi della visione pura: la sua curiosità è tutta votata a cercare di capire “quello che l’occhio vede”, vuole indagare le ragioni e le forze che entrano in gioco quando osserviamo il mondo. Pur avendo vissuto in uno dei periodi storici più fecondi di pulsioni ideologiche e di inquietudini culturali (la Rivoluzione francese si era consumata soltanto pochi anni prima, mentre il neoclassicismo stava dettando le regole di una nuova concezione estetica del mondo), Ingres si lascia guidare da una sola regola estetica: suo intento è parlare attraverso il linguaggio dell’arte, che dal “funzionamento della visione” trae il proprio alfabeto, fatto di linee, colori, chiaroscuro e luce.

Non a caso, per queste due caratteristiche fondamentali e modernissime della sua poetica (la forzatura delle forme ed il suo «...ridurre il problema dell’arte al problema della visione…», come dice Giulio Carlo Argan), l’opera di Ingres suscitò estremo interesse fra gli impressionisti (Degas, Renoir, Cézanne: massimi indagatori del “mondo come l’occhio lo vede”), e venne studiata anche dal pittore che condusse la deformazione formale alle sue estreme conseguenze “cubiste”, Pablo Picasso.

Fra le opere di Ingres, c’è n’è addirittura una che, per il suo carattere incompleto e “di studio”, conferma fortuitamente ed indirettamente parecchie cose che abbiamo visto finora. Si tratta di un dipinto “di ricerca”, un “non finito”  sperimentale che probabilmente è servito all’artista per uno studio formale su una figura, forse da inserire in una composizione più complessa ed articolata. E’ noto come la “Donna con tre braccia”. A dispetto del nome, che farebbe immaginare chissà quale sembiante mostruoso e deformante, a ben vedere, persino in questo anomalo ed estremo caso, non si può non convenire che l’esito risulti ancora una volta estremamente aggraziato e femminilizzante. Anzi, qui Ingres riesce in qualche modo a suggerire un effetto di consequenzialità di movimenti nella figura.

"Donna con tre braccia" - ante 1863

Prima di chiudere questo piccola sbrodolata d’arte dedicata a Jean-Auguste-Dominique Ingres, mi piace soffermarmi ancora un attimo su due piccoli accenni.

Di seguito riporto un breve passo, tratto appunto dal tometto Skira di cui vi parlavo, riguardante il dipinto forse più noto del maestro francese, il già citato “Donna al bagno” (noto anche come “La baigneuse Valpinçon”). Mi sembra molto significativo rispetto a tutte le questioni che ho cercato di argomentare sopra:

«…Ciò che mirabilmente il pennello di Ingres riesce ad esprimere è l’idea della donna e della sua intima essenza (più che la donna stessa) e sono proprio le imprecisioni formali di una quasi assurda costruzione anatomica che ci conducono, attraverso il fluire della linea, ad accarezzare con gli occhi la morbidezza di un corpo quasi impalpabile…».

Un’ultima nota concerne invece un altro dipinto, di certo meno famoso, ma che forse più di tutti gli altri è riuscito a scatenare in me l’epifania Ingresiana: “Nudo femminile di schiena”, del 1807. In questo caso, l’incanto di Ingres si gioca in misura speciale. Come in tante altre opere dell’artista, si capisce già al primo sguardo che anatomicamente c’è “qualcosa che non quadra”. Però non si saprebbe dire bene cosa. Forse è quella spalla così “slogata” da far sembrare il braccio quasi di un’altra donna, oppure è l’eccessiva “linearizzazione” dell’insieme dei tratti del volto. Non si sa. Eppure, personalmente mi sembra di non aver mai visto niente di più quintessenzialmente femminile della superficie di questa leggiadrissima schiena, così mirabilmente posta in dialogo formale con tutti gli altri elementi compositivi del quadro. Potrebbe essere una donna, o un paesaggio, oppure un edificio: di fatto è femminilità pura messa su tela.

"Nudo femminile di schiena" - 1807

Alla fine, sono dunque riuscito a stanare il mistero estetico di Ingres? Forse che sì, forse che no. Per quello che ne ho capito io, tuttavia, consiste in questo: sia che si provi attrazione, curiosità conoscitiva, nei confronti di una donna o di un uomo, sia che la si provi per qualsiasi altro elemento della realtà intera, quello che ci piace attenderci è un’armonia fra la nostra volontà di capire il mondo e la volontà del mondo d’imporsi a noi.

Per questo Ingres “slogava e disarticolava” i corpi femminili rispettandone tuttavia, e anzi esaltando e rendendo prezioso, il loro più genuino significato formale: la realtà non può mai giungere ai nostri occhi nella sua purezza diretta, perché un atto interpretativo s’impone sempre inevitabilmente. Ma dal canto opposto, la nostra interpretazione non potrà mai ritenersi completamente svincolata dalla guida obbligata dettata dalle modalità di funzionamento del mondo.

In conclusione, se consideriamo la storia dell’arte (seppur molto schematicamente, sia ben chiaro) come un cammino culturale intrapreso a partire da un prevalente ruolo concesso alla realtà “esterna” come dato oggettivo, per arrivare alle sue evoluzioni moderne, che hanno invece spostato l’accento sull’interiorità del soggetto interpretante (in una dinamica molto simile a quella seguita dalla filosofia, peraltro), possiamo dire che l’opera di Ingres si pone come importante crocevia riguardo a questo scarto di percorso sfociato verso la sensibilità moderna.



2 commenti:

ross ha detto...

Mi piace molto la tua considerazione finale, " verso l'interiorità del soggetto interpretante".Hai fatto questo nella tua epifania pittorica .

Gillipixel ha detto...

@->Ross: quella è l'essenza del pensiero moderno, Ross...arte e filosofia, in questo senso, sono andate di pari passo: da una realtà esterna data come scontata, si è passati ad un importanza sempre maggiore concessa al punto di vista del soggetto che interpreta il mondo...sino ad avere, in molti casi, dubbi sull'esistenza del mondo stesso...ma qui il discorso si farebbe lungo :-)

Per cui:

Bacini pittorici :-)