lunedì 31 dicembre 2018

Spettator non visto d'osservati non guardanti


Sopra una panchina affacciata sul nulla, posa spesso le proprie eteree terga l'invisibilità flemmatica d'un nobilitante non agire.

La ricerca di evidenza non è forse la strada maestra da imboccare per allontanarsi dall'insipienza.

Ascoltare, osservare, assaporare, respirare il mondo. Più probabile siano queste, le carte vincenti di un passivante viatico alla non-Vittoria.

Il tempo si lascia scorrere, la realtà s’abbandona al proprio fluire…come può l’uomo, minimale per natura e costituzione, arrogarsi d’aver voce in capitolo nella maestosità di tale portento?

Siamo solamente il frammentario castone d’un’immensa meraviglia, pinzati per le chiappe e applicati al vero attraverso la traballante montatura di una panchina affacciata sul nulla.

domenica 30 dicembre 2018

Salvate il soldato Pizza


Se mi è rimasta ancora qualche certezza al mondo, una è questa: i gatti sono attori nati.

Al seguente delizioso intermezzo felino ho avuto il piacere di assistere in prima persona. Anzi, ne sono stato praticamente uno degli attori non-protagonisti.

Scena: casa di una cara amica; lo “spazio morale-affettivo” domestico è completamente soggiogato alla volontà insindacabile di due bellissime gatte, e di altrettanti cucciolotti, figli di una delle micie.

Sono tutti e quattro bellissimi mici, nel pieno del fulgore “pelliccioso” invernale, ma il mio prediletto è ormai uno dei due “piccoletti si fa per dire”.

Sì perché, hanno ciascuno la propria ragguardevole stazza tondeggiante, ma questo è davvero un portento: un orsetto rossiccio sotto mentite spoglie gattesche, con bellissime striature tigrate panna, per di più impreziosito da un carattere pacioso e bonario, talmente “pantoflone” che, sintetizzando un po' tutti i suoi pregi, mi viene sempre più spontaneo chiamarlo “al Cìcio” (il Ciccio), ogni volta che lo vedo.

La mia amica a un certo punto deve preparare un impasto per la pizza. Al caro “Cìcio” non è normalmente interdetta la scalata alle alture della tavola, salvo nei casi in cui, come questo, ci siano alimenti in ballo. Allora non si sale.

Lui non capisce i motivi profondi, né i “crudeli” criteri di tanto confinamento, e si mette a fare coscienziosamente la ronda sotto al tavolo, per cogliere una minima breccia nella sorveglianza o un punto d’appoggio per azzardare il balzo.

Io mi prodigo a dare una mano nell’opera di contenimento degli assalti del “Cìcio” e mando sotto tutte le sedie che potrebbero fare da piattaforme di lancio.

Intanto l'impasto ha proseguito il suo corso ed è ora di coprirlo con uno straccetto, per riporlo da una parte a lievitare.

Il “Cìcio” nel frattempo, simulandosi offeso dal trattamento di sfiducia subito, se ne sta mezzo indignato, dando le spalle alla tavola, in perfetto stile “nun me ne po' fregà de meno”.

Niente di più normale, niente di più scontato, nella banale prospettiva umana.

Niente di più malinteso invece, nell’ottica felina perennemente carica della più bizzarra energia, prodotta per scardinare ogni logica della realtà.

Infilando infatti l’unica breccia spaziotemporale utile, lasciata sguarnita da un millisecondo di distrazione, ecco allora il “Cìcio”, apparentemente mezzo addormentato solo un soffio d’attimo prima, sfoderare il più fulmineo dei suoi guizzi, che in una frazione di tempo ancor più rapida, lo porta come un sol bombardotto a troneggiare sopra il malloppo della pasta, la fulva zampotta “cotechinata” già pronta a calare giustiziera sulla morbida sfera di futura pizza.

Solo un intervento in corner e la prontezza di riflessi della mia amica, che si era scostata solo di poco, ha potuto frenare l'impeto “Cìcesco” a un millimetro dal compimento dell’impresa, salvando l'incolumità dell’impasto.

Ma ormai quel capolavoro di pantomima felina, fra i nostri sorrisi appagati, si era compiuto. Andando ad aggiungere l’ennesima perla, alla continua bellezza che questi straordinari animali regalano al mondo ogni giorno, con ogni loro mossa.


giovedì 27 dicembre 2018

Rivelazione lineare


Convegni di righe, strade irraggiate lungo percorsi in riunione, sentieri che s’affollano, dove i camminamenti s’imparentano, mentre ponti lanciati su scartamenti a lato, riflettono l’avanzare, intento nel proclama d’un retrocedere tutto preso a far le bizze, e intanto il risalire emette acuti, l’impennarsi si sublima, parallelismi oliati dialogano con ortogonalità in rodaggio, incroci al bacio vanno a braccetto con zigzag a congresso, snodi scivolosi si insinuano negli amplessi fra piani, obliquità ubique traducono volumetrie in boccio, cerchi esplodono, ogive s’intessono, quadri fioriscono, gemmano parallelogrammi e diaframmi tutti
Segni
Tracciati nell’artificio
Astratte presenze del concreto
Per intero estratte
Dal Caos
Rugoso, terragno, calcareo, salace di siliceo zelo, profondo di “milioannuari” sfregamenti ipogei, lapideo, argilloso, sotterraneo, minerario, lavico, estrattivo, ribollente di rimuginare, rifrangente di rocciosi attriti fra l'indeterminabilità degli evi affondati nell’orbitale potenza alla deriva, del deflagrato mistero “Big-Bang-Ante”

Le tre esse mai di moda


Con rispetto parlando, le mode mi sono sempre state sui coglioni.

Forse sarà anche per questo che vado maturando da tempo una sorta di considerazione accondiscendente, verso tre aspetti della vita dai più reputati come disvalori.

Parlo del silenzio, della solitudine, e della sconfitta.

Non importa quanto un tipo possa essere in gamba, intelligente, popolare, abile nell’acquisire potere o danaro, bravo nel farsi ben volere, nel risultare affascinante per gli altri.

Prima o poi la vita lo azzittisce, lo relega a restare in un angolo con l’unica compagnia di se stesso, lo sconfigge.

In questo senso, non va frainteso quanto voglio dire. Silenzio, solitudine e sconfitta, non bisogna di certo andarseli a cercare col lanternino, sfoggiando la più sfavillante masochistica frenesia.

Il punto è un altro.

Il punto è che, alla fin fine, non si potrà nemmeno sforzarsi di scansarli.

Che ci facciamo o che “non” ci facciamo qualcosa noi, prima o poi arrivano. Magari in una forma del tutto inattesa, dalle direzioni più impensate, nelle circostanze che mai avremmo immaginato.

Ma arrivano.

Ecco allora che diventa inutile arrovellarsi per stabilire se silenzio, solitudine e sconfitta, siano valori o disvalori. Sono elementi della realtà con cui tutti prima o poi ci dobbiamo confrontare.

Oltre a questa caratteristica, silenzio, solitudine e sconfitta hanno altri tratti comuni.

Possono assumere un aspetto interessante nei casi in cui ci concedano un minimo di libertà di poterli scegliere, quando ci lasciano un po' di voce in capitolo.

Stare in silenzio, ritrovarsi soli, perdere, certe volte: sono tutte situazioni che possono rivelarsi feconde di possibilità, se solo siamo capaci di rivalutarle in una differente prospettiva, insolita, rispetto al comune modo di vedere.

Silenzio, solitudine, sconfitta: li ho elencati secondo il grado crescente di difficoltà.

Il silenzio è forse il più “digeribile” di tutti. Se ci è concesso di sceglierlo, è una possibile fonte di rigenerazione interiore notevole.

Saper coltivare i momenti di silenzio aiuta a rendere davvero preziose poi le occasioni di dialogo e confronto. Aiuta a selezionare meglio quanto si andrà a dire, riduce l’inflazione delle parole, le carica di uno spessore più significativo.

Subito di seguito, saper gestire bene il silenzio è un preludio buono per riuscire ad attraversare la solitudine, non solo coi minori danni possibili, ma forse anche guadagnandoci qualcosa.

Sembra strano ed estremo a dirsi, ma a ben guardare ogni mattoncino del vivere regge a partire dalle fondamenta della solitudine. Tutto parte da lì.

I più grandi problemi, le sfide più dure, le difficoltà più ardue…certo, senza l’aiuto degli altri non potremmo nemmeno iniziare a pensare di affrontarle.

Ma se di fondo non c'è un retroterra interiore consolidato grazie alle sole nostre risorse personali (in altre parole: costruite “da soli”), non starà un piedi bel nulla.

Più complicato di tutti è il capitolo della sconfitta. Come si fa a dire che nella sconfitta ci può essere qualcosa di buono? Per di più, la sconfitta, nessuno la sceglierebbe mai…forse giusto un pazzo…

Ma anche qui vanno fatte distinzioni fra sfumature molto sottili.

A volte chi accetta la sconfitta dimostra molto più coraggio e valore del vincente stesso.

Chi riconosce di aver perso fa un esercizio di realismo molto significativo e intenso.

Concede alla realtà di proseguire e “rimarginarsi”, senza causare strappi ancor più gravi della propria personale perdita del momento.

Ma ancora più importante è che le forme della sconfitta vengano riviste e rivisitate da parte dei vincitori.

Chi vince, e dunque causa sconfitta, dovrebbe sempre riconoscere il ruolo fondamentale dello sconfitto, in questo grande, complesso gioco dialettico che è la realtà.

Il vincitore che invece umilia il perdente, non fa altro che mettere le basi per una sua sconfitta futura.

Chi perde, insomma, non è che scelga mai di farlo. Ma va in ogni caso riconosciuto come nobile parte in causa della vasta dinamica della vita.

Ognuno desidera dire agli altri (non stare in silenzio), sentirne il contatto (non stare solo), e parte sempre per vincere nelle sfide (non essere sconfitto).

Ma se si ritrova poi solo, nel silenzio, e sconfitto, deve poter contare sulla consapevolezza di aver raggiunto ad ogni modo un traguardo carico di una speciale dignità.

Ecco. Oggi volevo dire qualcosa su questi aspetti della vita che mi stanno a cuore proprio per la loro apparente contraddittorietà problematica: silenzio, solitudine, sconfitta.

E se non sono stato abbastanza chiaro o lineare, concedetemi almeno le attenuanti generiche per eccesso obnubilante da ingestione reiterata e continuata di anolini.

sabato 22 dicembre 2018

Sfera e gatta


C'è un istante sotto sera
Svelto come il riso d’un gatto
Che ogni cosa sembra più vera
Ed esser vivi è un lavoro da matto

La giornata va in sposa al buio
Tramestio lieve su bacio d’ambra
Il cielo con l'animo fa il paio
Di colpo, un Uno, tutto sembra

Nevicano piano nel pensiero
Tutti quelli che sono stati
Indicandoci un sentiero
Fatto d’azioni, amori e fiati

Poi l’incanto si rifrange
Ci si riprende su un filo di sogno
E una striscia di chiazze e arance
Rimane nel cuore se c'è bisogno





Smart Petrarca


Quando si va in qualche luogo dove tocca fare sala d'attesa (a una visita, in un ufficio, dal dentista, ecc.), si presenta anche la questione di come ammazzare il tempo.

Per uno che, tanto per dire, d’estate si fa scrupoli persino a schiacciare una zanzara, si tratta in quei casi di impegnarsi piuttosto nella rianimazione del tempo, che non nella sua soppressione.

Una volta, prima dell'avvento dei cellulari “smarfoni”, ci si trovava generalmente abbastanza sguarniti.

Le alternative erano poche.

Una era mettersi a sparare quattro fregnacce di circostanza con dei perfetti sconosciuti, occasionali compagni di sventura cronologica.

Ma in quel modo, le insidie erano pronte a sbucare dietro ogni angolo.

Ecco allora che ti ritrovavi di colpo a naufragare nel periglioso oceano delle banalità e delle frasi fatte.

Annaspavi in capziose discussioni sul tempo, nel corso delle quali avevi la “fortuna” di venir iniziato ai profondi misteri dell'ovvietà climatica: “...eh…se c'è nuvolo, magari piove…ma se fa sereno poi viene la nebbia…”…

Oggi però che tutti giriamo sempre “smarfonati”, allineati e connessi, si possono vedere le sale d'aspetto di tutta Italia piene di persone piegate a capo chino sul proprio apparecchietto, rapite nel profondo dall’atto di “scadnassare” (“scatenacciare” = trafficare), “sditacciare” e “touch-screenare” sul mini schermo.

Esiste tuttavia un’opzione sempreverde, già valida in epoca “pre-smarfonale”, e che rimane praticabile anche in quest’era di iper-connessione diffusa: portarsi appresso un buon libro e immergersi nella lettura.

Si potrà obiettare che lasciar smarrire la mente dietro le lusinghe di uno “smarfone”, o dietro quelle delle pagine scritte di carta, non fa una gran differenza.

Invece io credo che sia ben diverso.

Il luminoso e ammagliante rettangolino del cellulare (dal quale confesso di venir assorbito molto spesso anche io) offre un tipo di passatempo ricchissimo, con foto, filmini, canzoni, scritti, consultazione di giornali, insomma una gamma informativa “bombardardeggiante” virtualmente infinita.

Questo non è affatto male di per sé, ci mancherebbe. Anzi.

Però, paradossalmente, tende a trasformarci più in soggetti passivi dell’interazione: il telefono, con la sua offerta infinita di stimoli, guida le danze e noi gli andiamo dietro.

Il libro invece, che pur all’apparenza si presenta come uno strumento di informazione più povero e limitato, proprio per questo motivo tende a suscitare maggiormente il nostro contributo attivo di fantasia, immaginazione, “creazione di mondi interiori” al seguito del filo della semplice parola narrante.

Si potrebbe ancora eccepire che il libro è troppo ingombrante, rispetto alla snella “tascabilità” di uno smarfone.

Pure questo è vero, ma volendo ci si può dotare di mini libricini molto comodi, grossi praticamente come un cellulare, purtroppo poco diffusi come formato, ma che sarebbe auspicabile gli editori prendessero a realizzare di più.

Personalmente ne posseggo uno che mi porto spesso con me, ed è una bella micro-edizione del “Canzoniere” di Francesco Petrarca (1304-1374), grande giusto come un cellulare, solo un po' più spessa.

Fra l'altro, il testo in questione è adattissimo a smarrirsi con la mente in un’attiva battaglia con l’immaginazione.

Perché la sfida aggiuntiva di arrovellarsi con un testo scritto in un’antica e ricercata forma di italiano aulico, arricchisce ancor più lo sforzo di interpretare, capire, suggestionarsi linguisticamente.

Così molto spesso, il mio tempo altrimenti gettato alle ortiche nelle sale d’aspetto, lo riciclo ottimamente differenziandolo lungo la meravigliosa scia di pensieri suscitati dalla poetica magia petrarchesca.

E sempre più di frequente mi succede di domandarmi come mai tanta gente insiste nel drogarsi, quando al mondo, da ormai oltre sei secoli, esiste una fonte di bellezza tale, da riuscire a farti incappare nella lettura di una meraviglia del seguente tipo:

Benedetto sia'l giorno e'l mese et l'anno
et la stagione e'l tempo et l'ora e'l punto
e'l bel paese e'l loco ov'io fui giunto
da' duo begli occhi che legato m'ànno;

Et benedetto il primo dolce affanno
ch'i’ ebbi ad esser con Amor congiunto,
et l'arco et le saette ond'i’ fui punto,
et le piaghe che'nfin al cor mi vanno.

Benedette le voci tante ch'io
chiamando il nome de mia donna ò sparte,
e i sospiri, et le lagrime, e'l desio;

et benedette sian tutte le carte
ov'io fama l'acquisto, e'l pensier mio,
ch'è sol di lei, si ch'altra non v'à parte.

venerdì 21 dicembre 2018

Sei della Bassa se...


Sei della Bassa se non vedi il sole per nove settimane e mezzo, ma poi tra l’una e le due del pomeriggio di un giorno da cani, lui fa capolino per tre secondi netti tra la coltre di nubi nebbiose, elemosinandoti due raggi di compassione, gelidi come la tetta di una strega, che quasi ti sembra sentirlo sussurrare: “...Tieni, pezzente!…”…

E “commosso” da tanta benevolenza, ti sale dal profondo del cuore un moto di gratitudine interamente dedicato al dispettoso astro, che si concretizza in uno sconsolato bofonchiare dalle inequivocabili sonorità: “…Dìu ch’at végna’n càncar!...” (liberamente traducibile con: “…Che il Signore t'infligga la mala Pasqua…”).

Così, mentre torni a rassegnarti come sempre alle tue foschie esistenziali, nell’aria lattiginosa rimane ancora il tempo per cogliere uno strascico di risposta solare alla tua invettiva: “…Fai, fai pure il furbo…poi ci mettiamo a posto a ferragosto…che ti faccio sudare fin le unghie dei piedi…”…

lunedì 17 dicembre 2018

Tautofotia


Sognare è uno sport completo.

E non parlo di sogni in senso figurato, come ad esempio si usa dire per riferirsi a un desiderio, oppure a un’aspirazione futura.

No, no. Parlo precisamente dei sogni veri e propri, quelli sognati dormendo.

In certi sogni ci si sente come un apparecchio fotografico a sua volta fotografato.

Se è il soggetto a scattare la foto, come fa ad essere nel contempo oggetto della scena? Chi viene ripreso e chi schiaccia il pulsante?

Chi è che guarda? E chi è il guardato?

Alla fine della catena, c'è un occhio supremo che osserva tutti gli altri dall’alto? Oppure non termina mai il susseguirsi di “guardanti riguardati” di riflesso?

Sono io che vedo me stesso attraverso lo sguardo degli altri, oppure guardo gli altri pensando a come mi vedono?

Quando si tratta di sogni, questo tipo di interrogativi avviluppati su se stessi, spuntano come funghi.

E non si pensi che siano solamente questioni oziose da perdigiorno.

D’accordo, un po' lo sono anche.

Ma non scordiamo che di sogni si sono occupati da sempre i più grandi poeti, letterati e pensatori.

La stessa modernità, per certi suoi importanti capitoli, si fonda sui pilastri del sogno, infissi nel terreno della conoscenza, lungo l’arco del pensare che va da Sigmund Freud, passando per Andre Breton e Salvador Dalì, fino ad approdare a Gigi Marzullo.

La questione del “guardare riguardato”, innescato dal sogno, può suggerire una piccola, ma suggestiva riflessione.

Nei sogni avviene una specie di deflagrazione dei punti di vista.

Mentre durante le ore “da svegli”, vivendo la quotidiana “vita vigile”, siamo per forza di cose ancorati al nostro punto di vista personale, quando ci immergiamo in un sogno, questa saldezza di riferimento esplode in mille occhi disseminati attorno alla multiforme realtà onirica.

Ne dobbiamo concludere che rimanere dentro a un unico punto di vista, sempre fissato e monolitico, ci sta stretto?

Forse.

E forse ne possiamo ricavare anche un insegnamento.

Se è vero (come sembra sia vero) che l’ambiente del sogno è come una sorta di officina, in cui ogni notte portiamo il “nostro essere” a riparare, allora il meccanico titolare dell’officina ci suggerisce anche un'importante avvertenza da usare per una buona manutenzione della nostra “automobile esistenziale”.

Cambiare spesso i punti di vista da cui, e i modi con cui, si osservano le cose, può essere una buona cosa che giova al motore del vivere.

Avere opinioni abbastanza certe, pensieri saldi, convinzioni su cui fare affidamento, rimane il modello guida.

Ma sclerotizzarsi sulle posizioni, incaponirsi sulle idee, aggrapparsi ai giudizi come cozze allo scoglio, va molto meno bene.

E non ve lo di dico mica io.

Me lo hanno spiegato alla concessionaria dei sogni.

domenica 16 dicembre 2018

In alto i calici mezzi pieni, disse la moglie alticcia alla botte ubriaca, e intanto i topi ballano, ma il gatto suona le maracas


Quando penso
A tutti i tempi
Del mio personale tempo
Sorprendo me stesso
Incapiente di un recepire
Tutto teso ad un vuotare
Ma fatto sì che a ben
Guardare
Si traveste da riempire
Contento vuol dir quasi felice
Ma anche contenuto
Che si contiene al contempo
Nel trascorrere del tempo
Sono sempre più di me
E un poco meno di io
Si sommano gli anni
Ciò ch’eravamo
Sopravanza quel che saremo
Eppure tradisco l’algebra
Con due lievi cenni di palpebra
E nel meno che pur si muta
Fiorisce il più che non si dica



venerdì 14 dicembre 2018

Massa critica


Il “nostro mondo” interiore è un paesaggio.

Le idee, i pensieri, le sensazioni, la conoscenza, le emozioni, i sentimenti, il sapere, la cultura: sono questi i suoi elementi geografici significativi.

Fra questi elementi, ci metterei volentieri tutto quanto possiamo trovare nei libri.

Di riflesso, i libri, li immagino dunque formare una sorta di distribuzione delle altitudini del paesaggio: gli argomenti dei libri sono le valli, le colline, gli appennini, le alpi, le vette, che la nostra curiosità può visitare ed esplorare.

Alcuni libri formano l'Himalaya del sapere. La loro scalata ci si presenta tanto ardua e avventurosa da spaventare, e al tempo stesso ci affascina in modo estremo.

Un libro, che è una vera “cima ottomila” del sapere, mi sfida da qualche tempo dalle quote più impervie del mio comodino. Si intitola “Massa e potere” e l’ha pubblicato nel 1960 Elias Canetti (Nobel letteratura 1981), dopo averlo elaborato per almeno tre decenni.

Come chiaramente si evince già dal titolo, si tratta di una lunga (571 pagine!!!) e molto articolata trattazione riguardo a un unico argomento: la “massa”.

Canetti racconta con un registro espressivo che si pone a metà strada fra la narrativa e il saggio sociologico. Questo fatto, se da una parte dà alla trattazione più profondità, aggiunge difficoltà alla “scalata”.

Si dice che viviamo in una società “di massa”. Questo è vero, nel senso che siamo esposti a venire coinvolti in fenomeni di massa, molto più di quanto non lo fossero i nostri nonni o antenati lontani.

Ma il concetto di massa è molto antico, non fosse altro perché risiede nella realtà stessa. È addirittura parte integrante dell’organizzarsi di vari meccanismi naturali, come ad esempio gli sciami, i grandi stormi, le vaste reti vegetali, tipo boschi o foreste.

Nella massa, l'individuo si annulla, con tante sue prerogative. Il singolo viene assorbito, e da questo inglobamento possono derivare vantaggi oppure perdite di valore.

Della massa si è occupata la grande letteratura. La massa può presentarsi sotto sembianze fisiche, oppure come un “aggregato informativo”, ossia come somma di tante opinioni o idee, fuse insieme.

La massa può allora arrivare a formare quasi una unica grande mente pensante, non più controllata dalle singole menti da cui ha tratto origine.

Un esempio molto luminoso  (anche se non citato da Canetti) si trova nel capolavoro di Virgilio, “Eneide”.

È sorprendente pensare come in questo testo di circa duemila anni fa, fossero già previste situazioni che con l’avvento di internet sono divenute di una attualità stringente.

Nel quarto libro della sua opera, Virgilio introduce una figura mitologica denominata “Fama”.

Sotto le sembianze di un perfido uccellaccio che vola sopra le città gonfiandosi di “sentito dire” e di notizie trasmesse di bocca in bocca in modo disordinato, la Fama sta a impersonare l’idea della “diceria di massa”.

Virgilio la descrive così: “…E subito va la Fama per le città grandi [d’Africa], la Fama, di cui nessun'altra peste è più rapida. Nel movimento è il suo crescere, andando acquista le forze: piccola prima, e timida: ma già s’alza per l’aria, e cammina sul suolo, e il capo ha già tra le nuvole…[…]…celeri i piedi e l’ali ha mobilissime, prodigio orrido, immenso, che quante piume ha sul corpo, tanti vigili occhi ha di sotto (cosa a dirla mirabile), tante lingue: tante bocche ripetono, tanti orecchi si drizzano…[…]…tenace a narrar menzogne maligne, così come il vero…”.

Non avete anche voi l’impressione, scorrendo queste righe virgiliane, di sentir parlare di alcuni degli aspetti “meno esaltanti” di internet?

Ma il tema della “massa” è talmente vasto che dilungarsi oltre, qui, non sarebbe possibile.

Così mi accingo a indossare gli scarponi del desiderio di sapere, sfodero la piccozza dell'attenzione, mi premunisco coi moschettoni del piacere della lettura, e parto per la scalata dell’Everest di “Massa e potere”.

Se cammin facendo mi capiterà di ammirare qualche scenario particolarmente fascinoso, magari vi terrò informati con un nuovo reportage di viaggio.

giovedì 13 dicembre 2018

Le foto che noi siamo


Roland Barthes (1915-1980) era uno studioso del linguaggio e critico letterario francese. Per una vita si è occupato di “segni”.

In senso molto esteso (estesissimo), un “segno” è qualsiasi elemento utilizzato per comunicare: una lettera, una sillaba, una parola, una nota musicale, una canzone, una frase, una pennellata di colore, un quadro, un segnale stradale, un gesto, un’immagine, una foto, e così via.

I segni sono i mattoncini dei vari linguaggi; i più diversi linguaggi.

Riguardo al “linguaggio delle immagini”, Barthes ha scritto uno dei suoi libri più famosi, “La camera chiara” (1979), dove si è interrogato sull’essenza della fotografia.

In parole povere (anche se naturalmente il contenuto del libro è molto più articolato), ha cercato di capire quando e per quale motivo una foto ci piace, ci colpisce, ci appassiona, ci coinvolge.

Secondo Barthes, per “sentire” completamente una foto, per provare una qualche forma di emozione complessa, osservandola, devono verificarsi due condizioni, che lui definisce con termini latini.

La prima condizione la chiama “studium”, e non vuol dire solamente “studio”, in semplice e diretta traduzione letterale. “Studium” significa, in senso più completo, applicare il proprio interesse a un argomento.

Quando una foto suscita il nostro “studium”, vuol dire che emerge dal mare dell'indifferenza, ci presenta una scena di cui la nostra cultura vuole sapere qualcosa.

Fino a qui però, rimane un tipo di gradimento a livello culturale appunto. Applicando “studium” a una fotografia, il nostro sguardo “entra” in quella immagine, ma ci passeggia dentro guardandosi un po' intorno come un turista, per vedere cosa racconta l’ambiente generale.

A rendere completa la vera attrazione suscitata da una foto, deve intervenire la seconda condizione, che Barthes definisce “punctum”. Anche qui, il termine non vuol dire soltanto “punto”, ma sta a indicare proprio l’idea di una puntura, una sorta di “pizzicotto visivo” che l'immagine fotografica ci dà.

Una foto “ci punge” quando un certo elemento della scena è in grado di scatenare una nostra reazione intima, non meglio spiegabile in termini razionali.

Allora non sono più un semplice “turista” dentro il paesaggio di quella foto, ma ne divento quasi un abitante.

Mi domandavo se qualcosa di simile non succeda anche fra le persone. Certo, una persona non è una foto, si tratta solo di un paragone ideale e molto semplificato. Ma qualche nesso potrebbe esserci.
Perlopiù, la maggior parte degli “altri” ci scorrono davanti come immagini di superficie, che tutto sommato ci lasciano indifferenti.

Solo su alcuni ci disponiamo con un atteggiamento di “studium”: ci sono buoni motivi di interesse comune, si condividono cose, ci si muove su un paesaggio di vita familiare.

Ma solamente chi ci punge con la sua “puntura di umanità”, si imprime come una foto importante nel nostro sguardo amicale, affettivo e, nei casi più felici, amoroso.

martedì 11 dicembre 2018

Quell'ominide nel sottoscala


A volte, riguardo a una certa questione, basta spostarsi pochi centimetri di lato, per osservare la cosa da una prospettiva totalmente diversa.

Avrete sentito parlare delle pitture rupestri, quei graffiti antichissimi scoperti dentro grotte preistoriche, un po' in varie parti del mondo.

Raffigurano perlopiù scene di caccia, animali colti in pose dinamiche e molto rappresentative dei concitati momenti di un inseguimento, di un appostamento o di situazioni simili.

Gli antropologi, gli studiosi del tema, gli esperti insomma, concordano ormai abbastanza su un fatto.
Per l’uomo primitivo, in virtù di qualche magica continuità, nell’animale raffigurato era presente lo spirito stesso dell’animale vero, quello vivo in carne e ossa, scalpitante là fuori nella prateria.

Nella mente dell’uomo preistorico, animale vivo e animale disegnato erano praticamente intercambiabili.

Come questo fosse possibile, non lo si può spiegare fino in fondo, ma era così. Allo stesso modo di tanti meccanismi mentali dei bambini, anche loro spesso propensi a fondere e confondere oggetti reali e “oggetti emotivi”.

Questa cosa che nei propri disegni, il nostro remoto antenato ci vedesse un mix di reale e concepito, a una prima considerazione volante ci fa tendenzialmente sorridere.

Noi uomini “moderni”, con alle spalle la grande lezione scientifica di Galileo, sappiamo che, in ambito comunicativo, un “segno” è solamente uno veicolo neutro per trasportare un “significato”.

Una foto, una frase scritta, un disegno, una registrazione audio o video, sono solamente macchie di inchiostro o colore sulla carta, o pixel su uno schermo. Tra forma e contenuto, “pretendiamo” di sapere che esiste una notevole differenza e un distacco netto.

La pensavo grosso modo così anche io, fino a quando non ho letto una cosa sulla bella “Storia dell’arte” di Ernst Gombrich, scritta nel 1950.

La riflessione è proposta sotto forma di invito-provocazione a fare un piccolo esperimento (anche solo mentalmente, basta per capirne il senso).

Immaginate di sfogliare una rivista e di soffermarvi sulla foto in primo piano di qualche personaggio più o meno famoso. Immaginate di prendere uno spillo e di forare proprio nella pupilla il suo volto.
Si tratti di un personaggio amato o di uno detestato, non si può negare che la cosa ci causerebbe un certo “coinvolgimento emotivo”.

Credo sarebbe molto difficoltoso farlo davvero, e qualora ci riuscissimo, nell’attimo in cui la punta dello spillo trapassasse effettivamente “l’occhio cartaceo”, un brivido di disagio correrebbe di sicuro dall'ago ai polpastrelli, alla mano.

Forare la carta in un altro punto della pagina, magari una parte in bianco, o sullo sfondo appena a lato della testa del medesimo personaggio, non sarebbe per niente la stessa cosa.

Ecco dunque che le diverse zone inchiostrate non hanno tutte lo stesso valore, non contengono tutte la stessa “energia significante”.

Alcune sono più intense di altre, più “dense di vero”, più cariche di una strana forma di contatto privilegiato con la realtà.

Possiamo ancora dire allora che il vecchio caro uomo primitivo fosse così sprovveduto e ingenuo? Forse possiamo dirlo un po' meno.

Raschiando millenni di civilizzazione, l’uomo primitivo è ancora lì a fare capolino, nel retrobottega del nostro essere.

Tutto questo ci fa pensare e ci mette in guardia allo stesso tempo.

Ogni volta che crediamo di comunicare un qualche contenuto “obiettivo”, dovremmo mettere in conto che forse ci stiamo solo illudendo.

In noi operano sempre continui, sotterranei “motori inconsci”, in contatto diretto con la nostra sfera emotiva e irrazionale più profonda.

Anche scrivere una semplice frase su internet, credendo di dire una cosa chiara, non è mai un atto banale e scontato.

I nostri retroscena emotivi lavorano sempre in sottofondo, e se ne siamo almeno un po' consapevoli, forse è già una buona cosa.



domenica 9 dicembre 2018

Piàta t'al vè a dì a tu nòna


La Bassa è una terra piatta, si sa, e dal punto di vista geografico il discorso non fa una grinza.
È da una prospettiva “spirituale” che la definizione inizia ad andare un po' stretta.

Se si pretende infatti di far passare come buona l'equazione “terra piatta” uguale “gente piatta”, ecco che la matematica dell’animo si ribella vivamente e denuncia tutta la stonatura del traballante sillogismo.

Si usa dire abbastanza spesso che da queste parti non c'è niente. Anche questa frase contiene solo una mezza verità.

Perché proprio con la sua altra imprecisa metà, questa frase ci svela come in realtà, quello che c'è non sia poi così tanto poco.

Soltanto che, per poter cogliere la ricchezza effettiva di “quel poco”, servono speciali lenti della sensibilità, e non sto parlando di superpoteri da supereroi.

Se uno vive nella Bassa per un po' e ne assorbe il paesaggio esistenziale, quelle lenti se le sente crescere naturali addosso, appoggiate leggere sul naso che quasi nemmeno sa di averle.

Il segreto sta in un classico meccanismo psicologico. Chi ha poco, deve ingegnarsi a far fruttare al meglio le combinazioni degli scarsi elementi a disposizione.

Il grande progettista non è chi sa architettare la stratosferica villa lussuosa con un budget di dieci milioni di euro.

Il vero, grande progettista lo si vede quando, con quattro lire a disposizione, riesce a instillare in un modesto edificio, un profondo e genuino “sentimento di casa”.

La Bassa ti mette alla prova ogni giorno, a saper trovare significati degni di nota, combinando sempre in modo inedito e rinnovato quelle quattro lire di realtà.

Fare una passeggiata sull'argine è proprio il minimo di budget a disposizione per riempire il tempo di senso.

Eppure ogni volta “fatico” a tornare a casa senza aver scattato almeno un paio di foto discrete. Certo, non dico mica dei capolavori. Eppure, sempre piccole scene che raccontano come certe micro bellezze minimali siano spesso in agguato lungo la “piattezza” in cui mi inoltro.

Poco prima di partire, o perlomeno sui passi iniziali del percorso, mi ripeto sempre: “…Oggi niente foto…che immagine vuoi ci sia ancora da spremere, in questi quattro campi spelacchiati?...”.

Ma quasi regolarmente vengo smentito.

Basta gettare un’occhiata distratta a un angolino di paesaggio visto e rivisto in mille occasioni, ma questa volta osservato in un suo dettaglio diverso, che un nuovo racconto sotto forma di foto può nascere all'improvviso…

Spostato appena fuori dall’asfalto della pista ciclabile, sul ciglio erboso, mi colpisce una curiosa combinazione geometrica fra i campi appena là sotto.

Il diverso momento di progressione nei rispettivi stati di coltivazione di due terreni, un fosso divisorio, la carraia che cuce insieme il tutto, la spalla dell’argine a fare da sottofondo obliquo “scompiglia-piani”…tutto questo parla della femminilità della terra.

Introduce nell’idea di triangolazioni fertili allo stesso tempo così concrete, ma anche evocatrici di un astratta combinazione dal vago sapore astrattista moderno.

Tutto sembra condurre l’occhio a condensare lo sguardo all'interno dell’incrocio centrale di erba-terra-luce. Ma le linee di fuga sono molteplici, la prospettiva è frantumata, e insieme tutto porta anche a fuggire visivamente fuori dai confini dell’immagine.

Un po' come in fondo fa la Bassa medesima.

Che è piatta, sì, ma ti risucchia in sé con una marea di significati, nati da un riflesso continuo di scambio, fra il proprio meditare visivo e lo sguardo meditativo stimolato da ogni cosa intorno.

sabato 8 dicembre 2018

An English man ind'la Bàsa"


That was me
At the feet of a tree
Half a human,
Or a root, maybe
Part of the river
You could nearly me see…
Of the wind on the back
Feeling whole
the strong beat
8th of December butterfly
I suddenly sail in the sky

[“Un inglèś in the lower lands”

Ecco me
Ai piedi di un albero
Mezzo umano
O una radice, forse
Parte del fiume
Mi potevi quasi vedere…
Del vento nella schiena
Sentendo l’intero
Gagliardo battito
Farfalla dell’8 dicembre
Veleggio d'improvviso nel cielo]

Far quadrare i quadri


Nella vita, il senso della composizione è tutto. O quasi tutto.

Compositore, comporre, composizione. Sono parole che si associano il 97% delle volte alla musica e a chi la sa creare.

Bisognerebbe ribaltare la prospettiva, e rendersi conto di come in realtà il senso del comporre pertiene ai musicisti solamente per un 3%, mentre per tutto il resto della fetta vitale è di competenza di tutti.

Comporre, attraverso le varie circostanze del vivere, vuol dire cercare nelle cose un equilibrio in grado di rispecchiare le più profonde esigenze dei sensi e dell’animo, che sentiamo connaturate in noi.
Comporre significa dunque cercare all’esterno quella bellezza che sentiamo appartenerci già da sempre, nel nostro intimo.

Tale bellezza si dispiega lungo una sottile ricerca di pesi e contrappesi fra forze visive, sonore, tattili, olfattive, saporose, emotive, concettuali e spirituali.
Quando scriviamo, leggiamo o parliamo parole, quando ci muoviamo, scattiamo una foto, facciamo un disegno, quando lavoriamo, cuciniamo un piatto o carezziamo il gatto, quando pensiamo o amiamo qualcuno, quando mettiamo insieme fra loro qualsiasi tipo di idee o gesti quotidiani, dal più banale al più elaborato, stiamo creando una composizione.

Nessuno è caduto dal cielo provenendo da Marte, ognuno ha conosciuto i rudimenti primordiali della vita da dentro il ventre di una donna, e in questo senso siamo tutti fratelli e sorelle accomunati da un’idea universale del comporre il tempo con lo spazio.

La cadenza del respiro, il battere del cuore, l’eco ovattata della voce risuonante da qualche parte “là in alto”, in quei nove mesi incorporati in una mamma, ci hanno indicato le “coordinate compositive” fondamentali che avremmo seguito nella vita “là fuori”.

Il ritmo, la simmetria, il senso armonico, il richiamarsi fra loro dei vari componenti di una scena, la coerenza generale fra le parti e di ogni parte con il tutto.

Sono tutti criteri compositivi poi perfezionati crescendo e imparando dal confronto fra il nostro panorama interiore e quello della natura, dell'ambiente, delle cose e degli altri.

E non si tratta di una oziosa dissertazione ispirata da un atteggiamento indulgente verso qualche forma di vuoto “estetismo”.

Padroneggiare la “sapienza della composizione” è fondamentale non solo per potersi esprimersi nell’ambito del Bello, ma anche e soprattutto in quelli del Buono e del Vero.

Bellezza, Bene e Verità sono valori apparentati fra loro dal legame di senso del “saper comporre”.

Mettendo in sequenza, oppure disponendo assieme in una scena valida nel medesimo attimo, quella giusta articolazione di spinte e controspinte estetiche in grado di soddisfare il nostro desiderio di completezza, penetriamo di volta in volta significati della vita che, pur continuando a sfuggirci nella loro essenza profonda, sentiamo essere fondamentalmente e irrinunciabilmente “nostri”.

domenica 2 dicembre 2018

I libri più belli


Omaggio “indiretto, periferico, sotterraneo, parallelo e tangenziale” ad “Auto da fè” (1935) di Elias Canetti (1905-1994), premio Nobel per la letteratura 1981.

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I libri più belli sono quelli che ti lasciano dentro incredibili architetture dell’animo, edificate con murature miste, rette dai mattoni di una fisicità raccontata, e tenute insieme dalla malta spirituale di verosimili fantasie, estratte direttamente dai giacimenti quotidiani dell’esistenza.

Anche se poi, appena richiusa la copertina sull’ultima pagina letta, non ti ricordi già più che Tizio si struggeva d'amore per la Tale ma lei non ne voleva sapere, e saltava fuori che aveva già una relazione segreta col babbo di lui, ma forse era suo nonno, e in ogni caso il nonno era anche appassionato da tempo di gatti e canarini...anche se della trama t'è rimasta in mente soltanto una rete sfilacciata e incerta, i libri più belli sono quelli che, nel bel mezzo di qualcosa che stavi facendo, mangiare un salatino, grattarti il mignolino, te li ritrovi cuciti addosso all’improvviso, come abiti inconsci quasi fatti su misura, paesaggi emotivi in cui cammini col pensiero senza quasi rendertene conto.

I libri più belli ti dicono cose di te che non sapevi, o meglio, in molti casi non sapevi di sapere.

E se le sapevi, non eri mai riuscito a metterle a fuoco.

E se qualche volta ce l’avevi fatta a tradurle in parole, a recintarle in uno steccato sbilenco di frasi, si trattava pur sempre di incerti balbettii ai quali sfuggiva alla fine la vera essenza della cosa da dire.

Mentre nei libri più belli, il mistero che rechi dentro, pur continuando ad orbitare attorno alla propria fuggevolezza di fondo, viene detto nell’abbagliante fulgore di una verità sconfinata e, rigorosamente, mai definitiva.

Nei libri più belli, può esserci più Mondo che in tutto il resto della Terra presa per intero. Ma solo se sei capace. Di vederlo, di evocarlo, di interpretarlo, di metterti in vibrazione con esso.

I libri più belli, anche anni dopo averli letti, ti piovono d’un tratto dentro, sotto forma di sagome della realtà, climi di vita, bussole di riferimento per spazi non misurabili, mappe del muoversi nel tempo, punti cardinali dell’attimo.

I libri più belli sono un concentrato di essere, un distillato di senso, nettare offerto al lavorio volonteroso dei neuroni, che dall’alveare dell’intelletto si preoccuperanno di far colare il miele della conoscenza.

I libri più belli non riuscirai mai a dire fino a dove sono belli. Perché l’unico modo per “saperli” è abitarli, entrarci dentro in prima persona. E mentre sei immerso in un luogo, puoi solo dire come ti senti a stare lì, ma non raccontare come sarebbe a vedere te stesso dal di fuori.