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Qualche tempo fa, ad un certo punto del mio cammino di studio, incappai in un concetto che mi piacque parecchio. Aveva a che fare con il senso moderno della privacy, introdotto nel corso dell’800, insieme alla conseguente prospettiva attraverso la quale da allora in avanti si prese a considerare lo spazio pubblico, collettivo, nelle città e nelle società occidentali.
Oggi a noi pare quasi un dato naturale che lo spazio domestico e tutto il resto della “extra-domesticità” siano due dimensioni del tutto scisse e distinte.
Da una parte c’è il “dietro la porta di casa”, dall’altra la “terra di nessuno” dello spazio pubblico. Il primo è carico di valori, di affetti, di preziosità emozionali, di “vicinanza”; il secondo è estraneo, ostile, distante. Per il primo abbiamo mille riguardi, riponiamo in esso gran parte della nostra progettualità di vita (per lo meno in misura ideale), è uno spazio denso di significati, uno spazio in cui fermarsi. L’esterno è invece uno spazio di transito, da attraversare alla svelta, con noncuranza, uno spazio da considerare “in negativo” rispetto a quello domestico, uno spazio in fondo nemmeno tanto degno di rispetto. Paradossalmente, se ci fate caso, soprattutto in ordine ai rapporti umani, l’esterno è lo spazio dell’introversione, mentre l’interno è uno spazio confidenziale, di apertura, estroverso.
Sto estremizzando i concetti per far capire cosa intendo, ma ovviamente andrebbero fatti tanti distinguo. Bisognerebbe infatti anche dire che naturalmente, e per fortuna, non è vero che i nostri spazi pubblici sono solamente luoghi per i quali si possa avere sempre un’esclusiva mancanza di rispetto, e per contro gli spazi domestici non sono i soli in cui si possano provare emozioni positive.
Tuttavia il succo del discorso è questo. Come sempre non è mai questione di bianco e di nero nettamente distinti, ma rimane il fatto che, per fare un esempio stupido, la maggior parte della gente si fa molti meno scrupoli a gettare una cartaccia per strada, che non a sporcare nel proprio salotto o in corridoio.
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Ma dov’è che tutta questa mescolanza di caratterizzazioni spaziali, affettive e sociali ritrova una sua dimensione amplificata (“patologicamente” amplificata, oserei quasi dire)? Io credo che questo avvenga nel microcosmo dell’automobile. Nell’ottica di quanto detto sopra, quando ciascuno di noi viene calato nel ruolo di automobilista, subisce una “iper-domesticizzazione ferocizzante”. Tutto il peggio degli aspetti “più deteriori” della domesticità, quando sei al volante vengono a galla in misura prepotente.
Innanzitutto il confronto tra interno ed esterno è immediato e molto più evidente. Sei dentro al tuo abitacolo confortevole, multi-accessoriato (climatizzazione, autoradio stereo, ammennicoli per l’orientamento satellitare) e soprattutto trasparente. Fuori ti scorrono i più desolanti spettacoli del paesaggio: tangenziali, autostrade, che in termini di carica paesaggistica estraniante sono pari forse solo ai quartieri artigianali, nei quali puoi comunque imbatterti. E poi ancora casermoni di periferia, ipermercati, fabbriche, opifici, falansteri (…beh, adesso non facciamoci prendere la mano…). È vero che puoi incappare anche in cose ed edifici piacevoli, ma se fate bene i conti, su un percorso medio, diciamo di 30 km., potete quasi stare certi che il “bilancio estetico” sarà con ogni probabilità in rosso. Oltre al confronto con elementi esterni deficitari rispetto al comfort dell’abitacolo, c’è il confronto con altri essere umani in condizioni di “inferiorità”: gente a piedi sotto la pioggia o grondante sotto la canicola, gente in bici che va piano rispetto alle potenzialità motorie dell’automobile, gente non protetta dalla placenta di lamiera e cristalli, ma in balia di rapporti sociali, mendicanti, scippatori e sondaggisti .
In secondo luogo c’è la velocità, che è la condizione peggiore per poter “ascoltare” il paesaggio: vai a novanta, cento, centodieci, centocinquanta, cosa te ne può importare delle cose che ti scorrono intorno, che complice quella rapidità assumono l’evanescenza dei fotogrammi di un film? La velocità fa poi rima con aggressività ed il senso di competizione si spreca: non vuoi stare dietro, ti incolli alla targa di chi ti precede e se non puoi superare friggi sul sedile, ma se sei tu ad essere tampinato da un superatore molesto, lo maledici in cuor tuo per la sua alterigia e perché non ti lascia andare in pace alla velocità che ritieni adatta a te.
In questo quadro, il piccolo spazio dell’automobile diventa fortemente privato ed ostile a tutto ciò che è esterno.
Ecco, era questa l’analogia che mi sembrava di aver colto fra due aspetti della realtà, andando oggi per pensieri. Mi congedo per questa volta con un’epifania musicale che mi sembra degna di chiudere il discorso (sono solo alcuni stralci, non è il testo completo della canzone):
“…Nelle case non c'è niente di buono
appena una porta si chiude dietro a un uomo
succede qualcosa di strano, non c'è niente da fare
è fatale, quell'uomo comincia ad ammuffire.
Basta una chiave che chiuda la porta d'ingresso
che non sei già più come prima
e ti senti depresso.
La chiave tremenda, appena si gira la chiave
siamo dentro a una stanza:
si mangia, si dorme, si beve.
Nelle case non c'è niente di buono
appena una porta si chiude dietro a un uomo
quell'uomo è pesante e passa di moda sul posto
incomincia a marcire, a puzzare molto presto.
Nelle case non c'è niente di buono
c'è tutto che puzza di chiuso e di cesso:
si fa il bagno, ci si lava i denti
ma puzziamo lo stesso.
C'è solo la strada su cui puoi contare
la strada è l'unica salvezza
c'è solo la voglia e il bisogno di uscire
di esporsi nella strada e nella piazza
perché il giudizio universale
non passa per le case
le case dove noi ci nascondiamo
bisogna ritornare nella strada
nella strada per conoscere chi siamo.
C'è solo la strada su cui puoi contare
la strada è l'unica salvezza
c'è solo la voglia e il bisogno di uscire
di esporsi nella strada, nella piazza
perché il giudizio universale
non passa per le case
e gli angeli non danno appuntamenti
e anche nelle case più spaziose
non c'è spazio per verifiche e confronti.
Perché il giudizio universale
non passa per le case
le case dove noi ci nascondiamo
bisogna ritornare nella strada
nella strada per conoscere chi siamo.
…perché il giudizio universale
non passa per le case
in casa non si sentono le trombe
in casa ti allontani dalla vita
dalla lotta, dal dolore, dalle bombe…”
C’è solo la strada
Giorgio Gaber (1974)
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