Volevo oggi rinverdire la buona usanza dei “fraseggi sul nulla”, non prima però di aver fatto una doverosa premessa, attagliata in particolare alle misure della sensibilità di lettrice della mia cara amica Farly (nonché titolare della prima metà di “chimerismo” che ci assimila).
Il messaggio preventivo è codesto: quanto seguirà è gravemente inquinato da un circoscritto ma pesante e reiterato uso di diminutivi.
Si astengano quindi dalla lettura tutti coloro che durante l’infanzia hanno patito overdose di sketch di Topo Gigio e seri periodi di Provolinite, o perlomeno si muniscano dell’apposito vaccino, lo “Straccia-vezzeggio” (è disponibile anche il corrispondente farmaco generico “Diminut-avvile”, costa meno e contiene lo stesso principio attivo, l’«Esageròn»).
Parlerò dunque di un curioso “corollario” urbano.
A dire il vero, l’«urbanesimo» non è condizione strettamente necessaria per far sì che il fenomeno si manifesti. Lo si può osservare di frequente anche in ambienti paesan-provincial-campagnoli.
Ultimamente ho notato tuttavia che questo piccolo spicchio di quotidianità, una volta calato nel panorama cittadino, si amplifica, si autocompleta, assumendo sfumature di tenerezza più marcate.
Mi riferisco ai «cagnetti obesini».
Il diminutivo è consustanziale al concetto e quindi non posso esimermi dall’usarlo (porta pasiensa, Farly). Ma per tradurre il tutto in linguaggio corrente “non-gillipixico”, sappiate che sto parlando dei “piccoli cani obesi”.
Un po’ saprete ormai che l’essenza del mio essere propende di preferenza per l’esegesi felina. Il gatto è la mia bestiolina prediletta, il mio alter ego animale. Ma questo non impedisce che anche i «cagnetti obesini» riescano ad aprire una breccia non indifferente nel mio senso di stupore.
Non so se ci avete mai fatto caso, oppure se è tutta colpa della mia mente malata che sola sa soffermarsi su questi dettagli minimali, ma in ogni caso io credo che i «cagnetti obesini» apportino veramente una sottigliezza poetica non trascurabile a tutta la tavolozza dei colori cittadini.
I «cagnetti obesini» sono ad un tempo vittime e rei della propria condizione. Il mistero di questa ambivalenza sta tutto nel loro sguardo.
Tanto per ribadire le mie patologie mentali, credo che in natura difficilmente si possa ritrovare uno spettacolo simile (forse solo l’occhiata di un asinello sfiora tali vette, ma è diversa, magari un giorno ne scriverò).
Lo sguardo del «cagnetto obesino» è così denso di profondità, mestizia sconfinata, ma posata al contempo su insperati sottofondi di ottimismo canino, che alla fine si può quasi definire una sorta di umiltà fiera di se stessa.
Lo sguardo del «cagnetto obesino» (il suo concetto stesso) andrebbe depositato all’UNESCO come sostegno di riserva a tutti i patrimoni dell’umanità già catalogati. Mi vergogno sommamente e non vorrei dirlo, per la freddezza della battuta, ma si dovrebbe aprire una succursale apposita dell’UNESCO: la CAGNESCO (ahahahahahaha!!! Ehm…ahah…ah…ehr...basta…)
Quello sguardo sa parlare come una pagina stampata: non è colpa mia – dice – cosa fareste voi con una ciotola zeppa di cibarie assortite, sotto il naso 24 ore su 24?
C’è un qualcosa di umano nello sguardo del «cagnetto obesino». Umano troppo umano? Boh, forse. Obesino troppo obesino, di certo.
Tra la palpebra pigra e l’obesinità dell’umor vitreo, rifulge un fioco bagliore esistenziale acceso dal quotidiano confronto col tedium vitae causato dalla strenua lotta che deve sostenere con il livello stabile delle cibarie straripanti dalla sua ciotolina. E’ un lavoro duro, ma qualcuno lo deve pur fare - pensa rassegnato, dandoci giù di mandibola, l’eroico «cagnetto obesino».
(Inframmezzo la delirante narrazione con l’immagine di un personaggio fumettistico i cui occhi meglio sanno esprimere il nucleo estetico dello sguardo del «cagnetto obesino»: “Leone il cane fifone”).
Il nostro beniamino grassottello è anche fonte di taluni spunti di natura para-sociologica. All’estremità opposta di ogni guinzaglio di «cagnetto obesino», come un frutto maturo penzolante dal ramo, troviamo infatti puntualmente appeso il suo singolare padrone.
Il «cagnetto obesino» è una scultura d’affetto padronale modellato con calore nella vivezza piena della ciccia canina. Ogni piega della sua florida panzetta, ogni rotolino di pelo che gli inghirlanda la rigogliosa pappagorgia, equivale alla carezza levigante portata da un moto affettivo che il padrone non ha potuto altrimenti sfogare su altro oggetto animato o inanimato reperibile al mondo.
Il «cagnetto obesino» non è un semplice cane, è un piano pluriennale d’investimento affettivo a tasso fisso: il tasso di crocchette e bocconcini che marcano costantemente l’orlo estremo della ciotola e, per la proprietà dei vasi comunicanti, vanno di lì a rimpinzare il cagnetto medesimo.
Sulle ali di queste vaccate, tanto che ero nelle spese, ho immaginato un surreale dialogo uomo-cane.
Io che fermo per strada un «cagnetto obesino» (a quel punto stabilire quale sia l’uomo e quale il cane diventa dura, lo so, ma questo è un dettaglio). Gli sbandiero in faccia la foto di un lupo, dicendogli: «Sai che questo era tuo bisnonno?».
Lui mi annichilisce col meglio dello sguardo “obesino” che riesce a tirare su dal profondo della sua indole pingue.
Ripiega la zampetta a mo’ di cucchiaio, e picchiettandosi leggermente la fronte col polso sottile (il «cagnetto obesino» ha sempre le zampette esili), lo sguardo attonito rivolto al padrone, sbotta: «…Ma sa l’è, màt?!?!?».
«…No!...Il fatto è…che noi vilàààn…e noi vilàààn…e sempre alégri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco, all’imperatore, diventan tristi se noi piangiam…».
Il messaggio preventivo è codesto: quanto seguirà è gravemente inquinato da un circoscritto ma pesante e reiterato uso di diminutivi.
Si astengano quindi dalla lettura tutti coloro che durante l’infanzia hanno patito overdose di sketch di Topo Gigio e seri periodi di Provolinite, o perlomeno si muniscano dell’apposito vaccino, lo “Straccia-vezzeggio” (è disponibile anche il corrispondente farmaco generico “Diminut-avvile”, costa meno e contiene lo stesso principio attivo, l’«Esageròn»).
Parlerò dunque di un curioso “corollario” urbano.
A dire il vero, l’«urbanesimo» non è condizione strettamente necessaria per far sì che il fenomeno si manifesti. Lo si può osservare di frequente anche in ambienti paesan-provincial-campagnoli.
Ultimamente ho notato tuttavia che questo piccolo spicchio di quotidianità, una volta calato nel panorama cittadino, si amplifica, si autocompleta, assumendo sfumature di tenerezza più marcate.
Mi riferisco ai «cagnetti obesini».
Il diminutivo è consustanziale al concetto e quindi non posso esimermi dall’usarlo (porta pasiensa, Farly). Ma per tradurre il tutto in linguaggio corrente “non-gillipixico”, sappiate che sto parlando dei “piccoli cani obesi”.
Un po’ saprete ormai che l’essenza del mio essere propende di preferenza per l’esegesi felina. Il gatto è la mia bestiolina prediletta, il mio alter ego animale. Ma questo non impedisce che anche i «cagnetti obesini» riescano ad aprire una breccia non indifferente nel mio senso di stupore.
Non so se ci avete mai fatto caso, oppure se è tutta colpa della mia mente malata che sola sa soffermarsi su questi dettagli minimali, ma in ogni caso io credo che i «cagnetti obesini» apportino veramente una sottigliezza poetica non trascurabile a tutta la tavolozza dei colori cittadini.
I «cagnetti obesini» sono ad un tempo vittime e rei della propria condizione. Il mistero di questa ambivalenza sta tutto nel loro sguardo.
Tanto per ribadire le mie patologie mentali, credo che in natura difficilmente si possa ritrovare uno spettacolo simile (forse solo l’occhiata di un asinello sfiora tali vette, ma è diversa, magari un giorno ne scriverò).
Lo sguardo del «cagnetto obesino» è così denso di profondità, mestizia sconfinata, ma posata al contempo su insperati sottofondi di ottimismo canino, che alla fine si può quasi definire una sorta di umiltà fiera di se stessa.
Lo sguardo del «cagnetto obesino» (il suo concetto stesso) andrebbe depositato all’UNESCO come sostegno di riserva a tutti i patrimoni dell’umanità già catalogati. Mi vergogno sommamente e non vorrei dirlo, per la freddezza della battuta, ma si dovrebbe aprire una succursale apposita dell’UNESCO: la CAGNESCO (ahahahahahaha!!! Ehm…ahah…ah…ehr...basta…)
Quello sguardo sa parlare come una pagina stampata: non è colpa mia – dice – cosa fareste voi con una ciotola zeppa di cibarie assortite, sotto il naso 24 ore su 24?
C’è un qualcosa di umano nello sguardo del «cagnetto obesino». Umano troppo umano? Boh, forse. Obesino troppo obesino, di certo.
Tra la palpebra pigra e l’obesinità dell’umor vitreo, rifulge un fioco bagliore esistenziale acceso dal quotidiano confronto col tedium vitae causato dalla strenua lotta che deve sostenere con il livello stabile delle cibarie straripanti dalla sua ciotolina. E’ un lavoro duro, ma qualcuno lo deve pur fare - pensa rassegnato, dandoci giù di mandibola, l’eroico «cagnetto obesino».
(Inframmezzo la delirante narrazione con l’immagine di un personaggio fumettistico i cui occhi meglio sanno esprimere il nucleo estetico dello sguardo del «cagnetto obesino»: “Leone il cane fifone”).
Il nostro beniamino grassottello è anche fonte di taluni spunti di natura para-sociologica. All’estremità opposta di ogni guinzaglio di «cagnetto obesino», come un frutto maturo penzolante dal ramo, troviamo infatti puntualmente appeso il suo singolare padrone.
Il «cagnetto obesino» è una scultura d’affetto padronale modellato con calore nella vivezza piena della ciccia canina. Ogni piega della sua florida panzetta, ogni rotolino di pelo che gli inghirlanda la rigogliosa pappagorgia, equivale alla carezza levigante portata da un moto affettivo che il padrone non ha potuto altrimenti sfogare su altro oggetto animato o inanimato reperibile al mondo.
Il «cagnetto obesino» non è un semplice cane, è un piano pluriennale d’investimento affettivo a tasso fisso: il tasso di crocchette e bocconcini che marcano costantemente l’orlo estremo della ciotola e, per la proprietà dei vasi comunicanti, vanno di lì a rimpinzare il cagnetto medesimo.
Sulle ali di queste vaccate, tanto che ero nelle spese, ho immaginato un surreale dialogo uomo-cane.
Io che fermo per strada un «cagnetto obesino» (a quel punto stabilire quale sia l’uomo e quale il cane diventa dura, lo so, ma questo è un dettaglio). Gli sbandiero in faccia la foto di un lupo, dicendogli: «Sai che questo era tuo bisnonno?».
Lui mi annichilisce col meglio dello sguardo “obesino” che riesce a tirare su dal profondo della sua indole pingue.
Ripiega la zampetta a mo’ di cucchiaio, e picchiettandosi leggermente la fronte col polso sottile (il «cagnetto obesino» ha sempre le zampette esili), lo sguardo attonito rivolto al padrone, sbotta: «…Ma sa l’è, màt?!?!?».
«…No!...Il fatto è…che noi vilàààn…e noi vilàààn…e sempre alégri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco, all’imperatore, diventan tristi se noi piangiam…».