Fra le persone che più hanno influito sulla “morfologia culturale” che mi ritrovo, c’è stato senz’altro il mio carissimo professore di storia dell’arte del liceo. L’amore per il pensiero, per la ricerca della bellezza nella dinamica dei concetti, la curiosità per tutto quanto riguarda il sapere, mi sono stati trasmessi in una misura qualitativamente molto significativa da lui.
Ancora a distanza di anni, certe sue lezioni rimangono fra le esperienze “estetiche” più intense che io abbia mai vissuto (intendendo col termine “estetico” la più appassionata tensione verso l’ideale fusione del “bello” con il “vero”).
Roba che avrei pagato anche il biglietto a peso d’oro, se ce ne fosse stato bisogno.
Da lui imparai soprattutto ad amare il linguaggio e a nutrire un rispetto illimitato per esso. A provare quasi un senso di sacralità per la parola.
Anzi: levate pure il “quasi”.
Il mio prof. mi fece capire che la lingua equivale ad un’architettura complessa, nella quale ogni elemento contribuisce col suo “peso” ad un generale scambio di forze semantiche. I sostantivi sono pilastri, gli aggettivi travi, gli articoli piccoli mattoni, e gli avverbi o i pronomi sono talvolta la malta e tal’altra i ferri dell’armatura che tengono legata la forma delle frasi.
Ciascuno dei mattoni linguistici non solo possiede un proprio “peso”. Sviluppando la dovuta sensibilità, si arriva anche a “sentire” come tali pesi si tocchino fra loro, come si spingano, combacino, come si forzino a vicenda, si invitino, si richiamino, si riecheggino, si rincorrano, si nascondano a volte l’un l’altro.
Non deve stupire il fatto che la nascita della passione per il linguaggio nei miei ricordi sia maggiormente associata al mio prof. di arte di quanto non vada ad affondare le radici fra le varie figure d’insegnanti di lettere che mi hanno avuto fra le grinfie (senza nulla togliere al caro ricordo che mi è rimasto pure di questi ultimi).
Non esiste forse cimento linguisticamente più arduo del compito di parlare o scrivere di arti che sono basate sulla scelta di linguaggi estranei alla parola. In questi casi l’artista si affida a strade espressive differenti anche perché “sente” nella parola l’impotenza a dire.
Il compito del commentatore, o critico, o studioso d’arte “non verbale” è perciò ad un tempo terribilmente arduo, apparentemente inutile, ma di fatto estremamente fruttifico.
Terribilmente arduo, perché con la sua impresa è chiamato a dire l’indicibile (con il pericolo, sempre in agguato, di finire con il dire un "nulla").
Apparentemente inutile, perché ciò di cui l’opera d’arte non verbale può parlare, a rigor di logica, è “parlabile” unicamente da essa stessa e dai suoi mezzi espressivi volutamente diversi dalla parola.
Estremamente fruttifico, perché nella infinita rincorsa asintotica di quei significati che mai riuscirà ad afferrare nella loro completezza (in quanto inevitabilmente “ingabbiati” nei mezzi espressivi originari) il commentatore d’arte riesce non di meno a portare alla luce concetti di una preziosità difficilmente raggiungibile con altre forme di espressività verbale. L'immane e spropositato suo compito lo rende un narratore tendente all'«ideale» espressivo.
Grazie alle lezioni del mio prof. imparai che anche l’apparente inezia del mutare di una preposizione, può trasformarsi nella chiave di volta in grado di reggere significati diversissimi.
Non scorderò mai lo stupore provato a seguito di una sua piccola, ma vastissima chiosa al primo volume della storia dell’arte di Giulio Carlo Argan.
Estrapolando solamente 6 parole, «il tempio greco è “della” natura», ci chiarì come il senso di quella frase lo avremmo capito meglio se per contrapposizione l’avessimo letta con la sola variante di un «nella» al posto di quell’inusuale «della».
Non un oggetto calato nel mondo, ma le “regole” stesse del mondo condensate attraverso i rapporti armonici fra le pietre di un edificio: ecco come si trasformava l’essenza del tempio greco grazie alla “banalissima” variazione di una sillaba.
In seguito ci furono altre meraviglie da scoprire. Come fu che Giotto dipinse dantescamente e Dante scrisse in lingua giottesca; come l’ascetismo tragico dell’orizzonte bizantino preludesse all’aurorale dinamismo drammatico romanico; come la saldezza della poetica giovanile di Donatello sostenesse senza soluzione di continuità il suo “scetticismo” senile.
Ma il primo, basilare fondamento del mio amore per la parola fu posto dallo stupore di fronte al fatto che «il tempio greco è “della” natura».
Ancora a distanza di anni, certe sue lezioni rimangono fra le esperienze “estetiche” più intense che io abbia mai vissuto (intendendo col termine “estetico” la più appassionata tensione verso l’ideale fusione del “bello” con il “vero”).
Roba che avrei pagato anche il biglietto a peso d’oro, se ce ne fosse stato bisogno.
Da lui imparai soprattutto ad amare il linguaggio e a nutrire un rispetto illimitato per esso. A provare quasi un senso di sacralità per la parola.
Anzi: levate pure il “quasi”.
Il mio prof. mi fece capire che la lingua equivale ad un’architettura complessa, nella quale ogni elemento contribuisce col suo “peso” ad un generale scambio di forze semantiche. I sostantivi sono pilastri, gli aggettivi travi, gli articoli piccoli mattoni, e gli avverbi o i pronomi sono talvolta la malta e tal’altra i ferri dell’armatura che tengono legata la forma delle frasi.
Ciascuno dei mattoni linguistici non solo possiede un proprio “peso”. Sviluppando la dovuta sensibilità, si arriva anche a “sentire” come tali pesi si tocchino fra loro, come si spingano, combacino, come si forzino a vicenda, si invitino, si richiamino, si riecheggino, si rincorrano, si nascondano a volte l’un l’altro.
Non deve stupire il fatto che la nascita della passione per il linguaggio nei miei ricordi sia maggiormente associata al mio prof. di arte di quanto non vada ad affondare le radici fra le varie figure d’insegnanti di lettere che mi hanno avuto fra le grinfie (senza nulla togliere al caro ricordo che mi è rimasto pure di questi ultimi).
Non esiste forse cimento linguisticamente più arduo del compito di parlare o scrivere di arti che sono basate sulla scelta di linguaggi estranei alla parola. In questi casi l’artista si affida a strade espressive differenti anche perché “sente” nella parola l’impotenza a dire.
Il compito del commentatore, o critico, o studioso d’arte “non verbale” è perciò ad un tempo terribilmente arduo, apparentemente inutile, ma di fatto estremamente fruttifico.
Terribilmente arduo, perché con la sua impresa è chiamato a dire l’indicibile (con il pericolo, sempre in agguato, di finire con il dire un "nulla").
Apparentemente inutile, perché ciò di cui l’opera d’arte non verbale può parlare, a rigor di logica, è “parlabile” unicamente da essa stessa e dai suoi mezzi espressivi volutamente diversi dalla parola.
Estremamente fruttifico, perché nella infinita rincorsa asintotica di quei significati che mai riuscirà ad afferrare nella loro completezza (in quanto inevitabilmente “ingabbiati” nei mezzi espressivi originari) il commentatore d’arte riesce non di meno a portare alla luce concetti di una preziosità difficilmente raggiungibile con altre forme di espressività verbale. L'immane e spropositato suo compito lo rende un narratore tendente all'«ideale» espressivo.
Grazie alle lezioni del mio prof. imparai che anche l’apparente inezia del mutare di una preposizione, può trasformarsi nella chiave di volta in grado di reggere significati diversissimi.
Non scorderò mai lo stupore provato a seguito di una sua piccola, ma vastissima chiosa al primo volume della storia dell’arte di Giulio Carlo Argan.
Estrapolando solamente 6 parole, «il tempio greco è “della” natura», ci chiarì come il senso di quella frase lo avremmo capito meglio se per contrapposizione l’avessimo letta con la sola variante di un «nella» al posto di quell’inusuale «della».
Non un oggetto calato nel mondo, ma le “regole” stesse del mondo condensate attraverso i rapporti armonici fra le pietre di un edificio: ecco come si trasformava l’essenza del tempio greco grazie alla “banalissima” variazione di una sillaba.
In seguito ci furono altre meraviglie da scoprire. Come fu che Giotto dipinse dantescamente e Dante scrisse in lingua giottesca; come l’ascetismo tragico dell’orizzonte bizantino preludesse all’aurorale dinamismo drammatico romanico; come la saldezza della poetica giovanile di Donatello sostenesse senza soluzione di continuità il suo “scetticismo” senile.
Ma il primo, basilare fondamento del mio amore per la parola fu posto dallo stupore di fronte al fatto che «il tempio greco è “della” natura».
6 commenti:
ma che meraviglia questo post... è come una musica, sia nel contenuto che nella forma, una canzone d'amore e di stupore... ma che bello essere metà di questa chimera!!! baci
ps. la mia prof di storia dell'arte era ignorante come una zucca e puzzava come un colera...
pps pente dice blogspot con assonanze greche :)
@->Farly: anche se non è molto greco nello stile, stavolta dovresti vedermi sotto il ditone destro del piede, Farly: sono diventato rosso fino a lì :-) ehehhe...
Grazie infinite, sei gentilissima e i tuoi complimenti fanno tanto bene alla metà di chimera che mi compete :-)
Mi spiace per la faccenda della tua prof. di storia dell'arte...ma di certo ne avevi tanti altri bravissimi in altre materie...di sicuro in matematica, che pure è una forma di poesia e quindi d'arte :-)
mistor mi dice blogspot: poesia matematica mista alla chimerica portata sensual-concettuale dell'arte :-)
Eppure ....sempre riflettendoci con lentezza....so convinto che siete una gran bella coppia...la poesia di Gill e il determinismo (lo sparata la...manco so ch vordì) di Farly si completano a vicenda...e formano un tutt'uno che è una forza!!
Gil non so che lavoro fai... ma dovresti insegnare... davvero...è molto interessante ciò che dici e come lo dici.
Un Abbraccio ad entrambi:-))
@->Paolo: grazie Paolo per le tue parole sempre gentili...ma come insegnante credo che sarei una frana assoluta: la mia componente dialettico-oratoria è pari a zero :-) sono come un Cristiano che contiene in sè un Cirano che però sa solo scrivere :-)
Ti ringrazio anche da parte della chimera Farly-gillipixica :-)
Il tuo professore era un filosofo. La parola è pesante. Io questo lo sento molto.Le tue disquisizioni: impeccabili
@->Antonella: grazie, Antonella...i tuoi complimenti mi lusingano sempre proprio perchè so e vedo quotidianamente sul tuo blog quanto intensamente senti la parola...un sorriso :-)
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