La mia crisi di idee resiste, insiste e persiste.
Io ci provo ad andarci, per pensieri, ma raccolgo solo e puro cranio vuoto a rendere. Mi sono tuttavia ricordato di un mio antico scrittino. Noiosetto e pendante anzichè no, come negarlo? Ma al momento è il massimo che vi posso offrire...portate pasiensa...
«Dio ha creato l’uomo perchéIo ci provo ad andarci, per pensieri, ma raccolgo solo e puro cranio vuoto a rendere. Mi sono tuttavia ricordato di un mio antico scrittino. Noiosetto e pendante anzichè no, come negarlo? Ma al momento è il massimo che vi posso offrire...portate pasiensa...
Egli adora i racconti»
Elie Wiesel
«Soltanto chi lascia il labirinto
può essere felice, ma soltanto
chi è felice può uscirne»
"Lo specchio nello specchio" - Michael Ende
«Che cosa ha voluto dirci l’autore con questo suo scritto? Che messaggio ci ha voluto comunicare? Quali sono i significati espliciti celati dietro la “finzione” operata con lo strumento artistico?»
Sono domande queste che ci poniamo quasi automaticamente dopo aver letto un romanzo, o un racconto, o un componimento poetico. Si tratta certamente di curiosità legittime, ma, per certi versi, esse possono risultare anche fuorvianti. Tali interrogativi sembrano infatti presupporre alcuni dati che in realtà non sono per niente scontati.
In questa ottica sembra quasi profilarsi uno scenario tale per cui l’autore, dopo aver focalizzato una serie di problematiche esistenziali di rilievo, si sia messo alla ricerca di una forma o di un espediente letterario adeguato per convogliarle al pubblico dei lettori. Anche se nella sostanza degli atti materiali è probabile che le cose si svolgano in maniera non molto dissimile, in realtà, a livello di sequenze concettuali, credo che l’agire dell’artista si articoli effettivamente in una maniera ben più complessa.
In particolare vanno ricordati due punti degni di nota:
- innanzitutto, l’opera d’arte è sempre il frutto di un “gesto” non riconducibile alla sommatoria di una serie di atti parziali;
- in secondo luogo, l’artista non crea la sua opera solamente in vista della fruizione di un ipotetico pubblico (ovviamente anche per questo), ma è sempre spinto anche da “criptiche” istanze interiori che vanno a sfiorare gli strati più profondi, ineffabili, talvolta oscuri dell’animo dell’uomo.
Per chiarire meglio il concetto espresso al primo punto, può essere utile un paragone con il mondo della musica. Le note musicali sono solamente sette. Imparare a padroneggiarle, a capirne il “funzionamento” e la “logica” è alla portata di molte persone. Ma riuscire a mettere quelle sole sette note in sequenze significative in grado di far vibrare la sensibilità umana, questo è appannaggio solo di pochi.
Ecco, la differenza che esiste tra un puro esecutore di brani musicali (seppur a livelli eccelsi) ed un musicista in grado di comporre, credo sia la medesima che intercorre tra saper esporre una sequenza, anche complessa, di “problematiche esistenziali” e saper scrivere, ad esempio, un romanzo. Il romanzo è portatore di una “sequenza gestuale” non riducibile in parti; non è frazionabile mediante spiegazioni che ne ridimensionerebbero irrimediabilmente il significato, allo stesso modo in cui sarebbe riduttivo considerare una composizione musicale solo dal punto di vista delle note che la compongono.
Tutto questo non implica che non si debba e non si possa cercare di parlare di letteratura (questo stesso mio scritto non avrebbe in tal caso nessun senso). Significa invece farsi carico di una importante consapevolezza. La consapevolezza che ogni qualvolta tentiamo di elencare i significati di un’opera letteraria (e di un’opera d’arte in generale), stiamo provando a scindere un’entità in realtà indivisibile o, per riprendere la metafora utilizzata sopra, stiamo cercando di sezionare un “gesto” il cui valore risiede nella sua continuità.
Le teorie della scuola psicologica della Gestalt ce lo hanno insegnato: pretendendo di frazionare i fenomeni umani in unità controllabili analiticamente, si rischia quasi sicuramente una perdita irrimediabile della realtà psicologica effettivamente insita in quei fenomeni.
L’opera d’arte (nel nostro caso particolare l’opera letteraria) si potrebbe così paragonare ad un labirinto. Fino a quando lo stiamo percorrendo, lo possiamo anche “vivere”, ossia possiamo sentire il suo fascino, il timore che incute, la curiosità che è in grado di stimolare. Al contrario, visto dal di fuori, riesce solo a trasmetterci un simulacro di sé stesso, alla stregua delle ombre riflesse sulla parete di fondo della grotta di Platone.
Se consideriamo la frase di Michael Ende citata in apertura: “Soltanto chi lascia il labirinto può essere felice, ma soltanto chi è felice può uscirne”, e intendiamo per felicità la comprensione dei significati dell’opera letteraria, possiamo mettere in rilievo la natura paradossale di quest’ultima. L’opera letteraria partecipa della stessa natura del gioco: è “finzione” per sperimentare il reale in una dimensione parallela alla realtà, con proprie regole ridefinite che riflettono quelle effettivamente in gioco nella vita.
Sono domande queste che ci poniamo quasi automaticamente dopo aver letto un romanzo, o un racconto, o un componimento poetico. Si tratta certamente di curiosità legittime, ma, per certi versi, esse possono risultare anche fuorvianti. Tali interrogativi sembrano infatti presupporre alcuni dati che in realtà non sono per niente scontati.
In questa ottica sembra quasi profilarsi uno scenario tale per cui l’autore, dopo aver focalizzato una serie di problematiche esistenziali di rilievo, si sia messo alla ricerca di una forma o di un espediente letterario adeguato per convogliarle al pubblico dei lettori. Anche se nella sostanza degli atti materiali è probabile che le cose si svolgano in maniera non molto dissimile, in realtà, a livello di sequenze concettuali, credo che l’agire dell’artista si articoli effettivamente in una maniera ben più complessa.
In particolare vanno ricordati due punti degni di nota:
- innanzitutto, l’opera d’arte è sempre il frutto di un “gesto” non riconducibile alla sommatoria di una serie di atti parziali;
- in secondo luogo, l’artista non crea la sua opera solamente in vista della fruizione di un ipotetico pubblico (ovviamente anche per questo), ma è sempre spinto anche da “criptiche” istanze interiori che vanno a sfiorare gli strati più profondi, ineffabili, talvolta oscuri dell’animo dell’uomo.
Per chiarire meglio il concetto espresso al primo punto, può essere utile un paragone con il mondo della musica. Le note musicali sono solamente sette. Imparare a padroneggiarle, a capirne il “funzionamento” e la “logica” è alla portata di molte persone. Ma riuscire a mettere quelle sole sette note in sequenze significative in grado di far vibrare la sensibilità umana, questo è appannaggio solo di pochi.
Ecco, la differenza che esiste tra un puro esecutore di brani musicali (seppur a livelli eccelsi) ed un musicista in grado di comporre, credo sia la medesima che intercorre tra saper esporre una sequenza, anche complessa, di “problematiche esistenziali” e saper scrivere, ad esempio, un romanzo. Il romanzo è portatore di una “sequenza gestuale” non riducibile in parti; non è frazionabile mediante spiegazioni che ne ridimensionerebbero irrimediabilmente il significato, allo stesso modo in cui sarebbe riduttivo considerare una composizione musicale solo dal punto di vista delle note che la compongono.
Tutto questo non implica che non si debba e non si possa cercare di parlare di letteratura (questo stesso mio scritto non avrebbe in tal caso nessun senso). Significa invece farsi carico di una importante consapevolezza. La consapevolezza che ogni qualvolta tentiamo di elencare i significati di un’opera letteraria (e di un’opera d’arte in generale), stiamo provando a scindere un’entità in realtà indivisibile o, per riprendere la metafora utilizzata sopra, stiamo cercando di sezionare un “gesto” il cui valore risiede nella sua continuità.
Le teorie della scuola psicologica della Gestalt ce lo hanno insegnato: pretendendo di frazionare i fenomeni umani in unità controllabili analiticamente, si rischia quasi sicuramente una perdita irrimediabile della realtà psicologica effettivamente insita in quei fenomeni.
L’opera d’arte (nel nostro caso particolare l’opera letteraria) si potrebbe così paragonare ad un labirinto. Fino a quando lo stiamo percorrendo, lo possiamo anche “vivere”, ossia possiamo sentire il suo fascino, il timore che incute, la curiosità che è in grado di stimolare. Al contrario, visto dal di fuori, riesce solo a trasmetterci un simulacro di sé stesso, alla stregua delle ombre riflesse sulla parete di fondo della grotta di Platone.
Se consideriamo la frase di Michael Ende citata in apertura: “Soltanto chi lascia il labirinto può essere felice, ma soltanto chi è felice può uscirne”, e intendiamo per felicità la comprensione dei significati dell’opera letteraria, possiamo mettere in rilievo la natura paradossale di quest’ultima. L’opera letteraria partecipa della stessa natura del gioco: è “finzione” per sperimentare il reale in una dimensione parallela alla realtà, con proprie regole ridefinite che riflettono quelle effettivamente in gioco nella vita.
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«La bellezza estetica è il corrispondente isomorfico tra quanto si dice e il modo in cui lo si dice»
"Il pensiero visivo" - Rudolf Arnheim
Einaudi, Torino 1974
Prendendo spunto da questa affermazione dello “psicologo dell’arte” Rudolf Arnheim, vorrei a questo punto proseguire il discorso con alcune considerazioni sulla questione della traduzione delle opere letterarie, applicandolo in particolare ad un’opera della poetessa americana Emily Dickinson.
È innegabile che il passaggio ad un idioma diverso dall’originale comporti un notevole mutamento nell’espressione formale di un certo contenuto. In questo caso, l’uscita dal “labirinto” dei significati originali dell’opera rischia di diventare definitiva, facendoci perdere il senso genuino di quei significati. Al di là della trasformazione dei singoli vocaboli (questo è banale), uno dei cambiamenti più importanti riguarda la struttura sintattica, che per una costruzione linguistica rappresenta un po’ l’equivalente dei rapporti tra le forze in una costruzione architettonica.
Dobbiamo allora ritenere scontato il fatto che l’opera letteraria, una volta tradotta, divenga un qualcosa di differente rispetto all’originale? Certamente su questo punto influisce in maniera determinante la capacità del traduttore di cogliere lo “spirito” del materiale linguistico che è chiamato a manipolare.
Se questo discorso è vero per le opere in prosa, assume un significato ancor più importante nel caso delle opere poetiche. In questa particolare forma di espressione artistica, infatti, la sequenza delle parole, il loro incontro o scontro, il loro confronto anche sonoro oltre che di significati, diventano strumenti formali fondamentali per convogliare un determinato contenuto.
Prendiamo spunto, come dicevo, da una bella poesia della poetessa americana Emily Dickinson (Amherst, Massachussetts, 1830 - ivi, 1886) per fare alcune riflessioni:
È innegabile che il passaggio ad un idioma diverso dall’originale comporti un notevole mutamento nell’espressione formale di un certo contenuto. In questo caso, l’uscita dal “labirinto” dei significati originali dell’opera rischia di diventare definitiva, facendoci perdere il senso genuino di quei significati. Al di là della trasformazione dei singoli vocaboli (questo è banale), uno dei cambiamenti più importanti riguarda la struttura sintattica, che per una costruzione linguistica rappresenta un po’ l’equivalente dei rapporti tra le forze in una costruzione architettonica.
Dobbiamo allora ritenere scontato il fatto che l’opera letteraria, una volta tradotta, divenga un qualcosa di differente rispetto all’originale? Certamente su questo punto influisce in maniera determinante la capacità del traduttore di cogliere lo “spirito” del materiale linguistico che è chiamato a manipolare.
Se questo discorso è vero per le opere in prosa, assume un significato ancor più importante nel caso delle opere poetiche. In questa particolare forma di espressione artistica, infatti, la sequenza delle parole, il loro incontro o scontro, il loro confronto anche sonoro oltre che di significati, diventano strumenti formali fondamentali per convogliare un determinato contenuto.
Prendiamo spunto, come dicevo, da una bella poesia della poetessa americana Emily Dickinson (Amherst, Massachussetts, 1830 - ivi, 1886) per fare alcune riflessioni:
A sepal, petal, and a thorn -
Upon a common summer’s morn -
A flesk of Dew - a Bee or two -
A Breeze - a caper in the trees -
And I’m a Rose!
Nella versione originale la bellezza della poesia è data soprattutto dal continuo rincorrersi delle parole, ottenuto con le rime e le assonanze. È proprio questo saltellare, da un termine ad un altro che lo richiama, che maggiormente attira l’interesse del lettore.
Talvolta il riferimento reciproco tra due termini non è affidato soltanto a fattori “sonori”, ma anche “di contenuto”. Nella prima riga, la sequenza “A sepal, petal...” non è forse un richiamo anche alla forma fisica delle due parti del fiore menzionate? I sepali sono quella sorta di contro - petali verdi che accolgono la corona superiore dei petali veri e propri: sepalo e petalo, nella loro forma fisica, sono allacciati vicendevolmente in un abbraccio sinuoso. Questa immagine viene di fatto evocata dall’incontro dei due termini nella sequenza “A sepal, petal...”. Tant’è vero che Emily Dickinson non inserisce l’articolo indeterminativo davanti al secondo termine (“...petal...”) per non rendere il senso di interruzione tra le due parole assonanti. Interruzione che invece viene introdotta con la congiunzione davanti al terzo termine menzionato, “...and a thorn...”, quasi a sottolineare il distacco anche fisico che intercorre tra la parte delicata della rosa (sepali e petali) e la sua parte “aggressiva” (la spina).
Chi legge questo scritto potrà a buon diritto contestare che probabilmente tutti questi significati reconditi non erano stati volutamente architettati dall’autrice; non di meno è innegabile che essi sussistano in questo testo poetico come suggestioni potenziali, sia che la Dickinson li abbia introdotti consapevolmente, sia che li abbia inseriti semplicemente affidandosi alla propria immensa sensibilità.
Ritornando alla questione della traduzione, vediamo come questa poesia viene resa in italiano da Margherita Guidacci in un’edizione, per altro molto curata e ben fatta, di opere scelte di Emily Dickinson [Emily Dickinson, “Poesie”, BUR Rizzoli, Milano 1979]:
Talvolta il riferimento reciproco tra due termini non è affidato soltanto a fattori “sonori”, ma anche “di contenuto”. Nella prima riga, la sequenza “A sepal, petal...” non è forse un richiamo anche alla forma fisica delle due parti del fiore menzionate? I sepali sono quella sorta di contro - petali verdi che accolgono la corona superiore dei petali veri e propri: sepalo e petalo, nella loro forma fisica, sono allacciati vicendevolmente in un abbraccio sinuoso. Questa immagine viene di fatto evocata dall’incontro dei due termini nella sequenza “A sepal, petal...”. Tant’è vero che Emily Dickinson non inserisce l’articolo indeterminativo davanti al secondo termine (“...petal...”) per non rendere il senso di interruzione tra le due parole assonanti. Interruzione che invece viene introdotta con la congiunzione davanti al terzo termine menzionato, “...and a thorn...”, quasi a sottolineare il distacco anche fisico che intercorre tra la parte delicata della rosa (sepali e petali) e la sua parte “aggressiva” (la spina).
Chi legge questo scritto potrà a buon diritto contestare che probabilmente tutti questi significati reconditi non erano stati volutamente architettati dall’autrice; non di meno è innegabile che essi sussistano in questo testo poetico come suggestioni potenziali, sia che la Dickinson li abbia introdotti consapevolmente, sia che li abbia inseriti semplicemente affidandosi alla propria immensa sensibilità.
Ritornando alla questione della traduzione, vediamo come questa poesia viene resa in italiano da Margherita Guidacci in un’edizione, per altro molto curata e ben fatta, di opere scelte di Emily Dickinson [Emily Dickinson, “Poesie”, BUR Rizzoli, Milano 1979]:
Un sepalo ed un petalo e una spina
In un comune mattino d’estate,
Un fiasco di rugiada, un’ape o due,
Una brezza,
Un frullo in mezzo agli alberi -
Ed io sono una rosa!
Innanzitutto, non c’è più traccia dell’originale eco tra le parole che era ottenuta per mezzo di rime ed assonanze lungo l’intero testo. Inoltre, nella prima riga, la traduzione rende esattamente l’effetto opposto rispetto a quelle suggestioni potenziali di cui parlavo prima: tra “...sepalo...” e “...petalo....”, non solo viene introdotta un’interruzione tramite congiunzione e articolo, ma la congiunzione usata è addirittura “...ed...”, con la consonante aggiunta a rendere ancora più netto lo stacco. Tra “...petalo...” e “...una spina...” invece, dove la congiunzione “dura “...ed...” sarebbe stata più appropriata, viene utilizzata la congiunzione “dolce” “...e...”.
Per concludere, vorrei proporre un tentativo personale di traduzione della poesia che potrà apparire eccessivamente libero e a tratti ingenuo, ma credo più “sensibile”:
Per concludere, vorrei proporre un tentativo personale di traduzione della poesia che potrà apparire eccessivamente libero e a tratti ingenuo, ma credo più “sensibile”:
Un sepalo, petalo, ed una spina
D’estate, una qualsiasi mattina
Un fiasco di Rugiada - un’ape o un’accoppiata
Un venticello - tra gli alberi un frullo -
E della Rosa indosso il mantello!
11 commenti:
eccellente e "labirintica" analisi, nella quale si ravvisa densa ricerca ma nello stesso tempo grande chiarezza.sarebbe bello leggere le opere letterarie sempre in lingua originale, ma purtroppo questo è terreno di pochi eletti; le traduzioni sono molto importanti affinché la forma sia artisticamente funzionale al contenuto.
bella la tua della poesia della dickinson, con un efficace recupero delle rime senza allontanarsi dall'originale, cosa non facile.
bacio
gilly oggi non ho cervello e faccio fatica a seguirti :) ma ti mando un bacio lo stesso (l'oracolo dice halla, arabescamente, inshalla magari domani mi ripartono i neuroni)
@->Maria Rosaria: grazie per la pazienza di aver letto questo mio tometto :-)
la traduzione era un po' un gioco, i puristi e gli esperti storceranno il naso, ma io mi sono divertito e lo scopo del giocare è divertirsi :-)
e poi, come ho detto già altre volte, il bello di un blog è che puoi sperimentare teorie: se uno sa rimanere nell'ambito della ragionevolezza e della decenza, può anche spararle grosse e ci si diverte pure :-)
Ciao bella gioia :-)
@->Farly: non preoccuparti Farly :-)
capisco che la tomettaggine del mio scrittino poteva scoraggiare :-)
grazie del commento e della visita sempre graditissimi :-)
blogspot always knows :-)
...Volevo Legger ma...
..Fui Infranta Dall'Orror della Scrittura...
Pazienza Non Pasiensa!
...Provo Vergogna Per La lingua Italiana...
@->Anonima: con un po' di pazienza e di fantasia avresti arguito che trattavasi di scherzosa dialettizzazione del termine mutuata dalla lingua parlata, con riferimento, nella fattispece, all'inflessione emiliano-romagnola...ma non hai avuto pasiensa...peccato :-)
@->:Anonima:
...che poi, a voler ben guardare, nemmeno "...infranta dall'orrore..." è quella gran espressione da Accademia della Crusca...
:-D
E meno male che sei in crisi... di idee. L'artista crea dal dolore ( un pensiero che mi è venuto)
@->Antonella: il tuo spunto tocca senza dubbio una tematica fondamentale per l'arte...forse si può dire che non si dà arte senza dolore...se passo in rassegna mentalmente una serie di artisti, non me ne viene nessuno che non sia in qualche modo collegato alla sofferenza...
avrà qualche nesso col dolore del parto? la creazione come venuta alla luce? boh... :-)
Invidia: dopo aver letto questo "scrittino" mi è venuta in mente questa parola.
Ma, non fraintendere, è invidia di ammirazione per la tua cultura e, soprattutto, del tuo entusiasmo nell'"andarpepensieri".
@->Scodinzola: ehehhhe... :-) grazie Scodi...sei carinissima...riesci sempre a fare arrossire un gatto scribacchino con tanto di pelliccia fine-estiva :-)
non hai proprio nulla da invidiarmi, perchè tu sei dotata di una saggezza naturale: hai il talento della dolcezza :-)
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