(Avvertenza: contiene prosa fortemente nauseabonda ed indigesta. Può nuocere gravemente alla sanità mentale...)
Per comodità di comprensione, siamo soliti classificare il mondo in grandi capitoli tematici.
Di più: per intenderci fra umani, abbiamo bisogno di suddividere gli ambiti conoscitivi in cui ci muoviamo in “sottostrutture funzionali”, in “reparti operativi”, che agiscono secondo proprie logiche interne.
Non ci avete capito una mazza, eh?
Avete ragione da vendere…e non sono sicuro di averci capito molto nemmeno io.
Scendo dunque un attimo dal pero e ricomincio, cercando di spiegarmi meglio con degli esempi.
Prendiamo un ambito conoscitivo vastissimo: l’arte.
Per similitudine, mettiamo che l’arte sia una cartella di windows. Dentro ci sono tante sottocartelle: la pittura, la scultura, la narrativa, la musica, la poesia, il cinema. Queste sottocartelle, riprendendo lo sproloquio iniziale, sono ciò che prima ho chiamato “sottostrutture funzionali” o “reparti operativi”.
Nell’accezione comune, ad un’analisi sommaria, queste cartelle non dialogano fra loro, o se lo fanno, questo succede in forme alquanto marginali.
In ogni cartelletta minore si persegue lo scopo previsto dalla “sovra-cartellona” onnicomprensiva denominata “arte”: la ricerca di inediti significati esistenziali tramite la sperimentazione “linguistica”. Ma ad ogni sottocartellina compete la sua specificità di mezzi, la sua operatività particolare.
Ci può essere una trasversalità di temi (l’amore, per dire, può essere raccontato in un film, narrato da un romanzo, raffigurato su una tela, espresso plasticamente), ma il pittore continua ad usare i pennelli, lo scrittore la penna, lo scultore mazzuolo e scalpello, il regista attori e pellicola. Nel senso: ciascun artista percorre i propri canali e strumenti espressivi peculiari.
Ciò che normalmente meno si sospetta invece, è che possa sussistere anche una trasversalità “strutturale”: le sottocartelle dell’arte possono essere imparentate anche rispetto alla loro essenza espressiva.
Insomma, tutta questa fiera per raccontarvi di una magia, quella che succede quando un libro parla come un dipinto o viceversa. Quando una poesia o una scultura si mettono a sillabare all’unisono. Quando vi accorgete che posando gli occhi sulla tela di un quadro, riconoscete la sensazione emanata come familiare, perché è la stessa assorbita tempo addietro dalle pagine di un romanzo.
A questo punto, ritorna in ballo il concetto di “gastronomia del delta”, col quale vi ho ammorbato nella scorsa “puntata”.
Lo riassumo al volo: consiste nella straordinaria capacità, che solo i più sublimi narratori posseggono, di saper illuminare profondissimi “significati di vita”, servendosi del linguaggio quotidiano. Per tradurre nella mia bislacca similitudine: parlando come mangiano, sanno far sfociare dal loro racconto mille rivoli di verità (come le diramazioni del delta di un fiume).
Ed eccoci alfin giunti al succo del mio odierno sproloquiare.
Normalmente, con ogni probabilità, non me ne sarei reso conto. Ma il fatto di aver appena coniato questo concetto “fondamentale” per il prosieguo delle sorti dell’umanità, mi ha fatto accorgere che anche il pittore americano Edward Hopper è un grande “gastronomo del delta”.
Anzi: grandissimo.
Prendete uno qualunque dei suoi dipinti.
Nelle “arti visive”, dopo la prepotente entrata in scena dell’astrattismo e di tutte le tipologie espressive che (con faciloneria “tutte-l’erbe-un-fasciale”) condenserei nell’aggettivo “concettuali” (Klee, Mirò, Mondrian, Kandinski, Malèvic, Duchamp, Tristan Tzara, and so on), ci si sarebbe forse potuto aspettare che al realismo, al parlare con linguaggio figurativo, toccasse in sorte un rapido declino per “obsolescenza”.
Invece no.
Per un lungo stralcio di ‘900, quando quasi tutti gli altri ci davano giù di brutto con linee, volumi e colori puri finalizzati all’emozionalità cristallina, Edward Hopper ha parlato il linguaggio della quotidianità, ha attinto le sue “sillabe” dalle forme del reale. Si è sempre mantenuto “alla luce del sole”, è proprio il caso di dirlo. Non c’è ricerca apparente di mistero nelle sue forme, ma non di meno il mistero e l’ambiguità si materializzano in piena luce.
Hopper sa cogliere uno dei più stranianti dati della modernità: le sue ambientazioni urbane trasudano trasparenza scientifica da tutte le angolazioni (i suoi omini e donnine sembrano quasi collocati sotto lampade da laboratorio), ma l’angoscia metafisica che quello stesso razionalismo avrebbe preteso di scacciare fuori dalla porta della inconvertibilità sperimentale, rientra dalla finestra del dubbio esistenziale pragmatico, fra squarci di luce abbacinante.
Non c’è astrazione, non c’è fuga nell’intellettualismo: Hopper accetta la sfida con la tangibilità del vivere, con gli elementi concreti della realtà, riuscendo nondimeno a farceli osservare da prospettive nuove e poeticamente inespresse prima.
Ci sono insomma modalità di linguaggio che attraversano tutta l’arte senza badare ai suoi specifici ambiti espressivi.
Come un esperanto dell’arte.
Ammirare un quadro di Hopper, mi pare allora, è un’esperienza estetica di poco dissimile dal leggere un romanzo di Hemingway o un racconto di Carver.
Autori che lasciano poco o nullo spazio all’introspezione o alla speculazione filosofica, affidando tutta la loro immensa poetica all’esclusività della maestria nel trattare i piccoli frammenti espressivi della concretezza del vivere.
Che dire ancora, cari amici viandanti per pensieri...
Due cose.
La prima è che, casualmente, in questi giorni si tiene a Milano (Palazzo Reale) una bella mostra dedicata proprio ad Edward Hopper e magari, se riesco, ci faccio una capatina.
La seconda è che, poco ma sicuro (e lo si capisce dalle “complicazzate” sparate anche in questa occasione), io non sono affatto un “gastronomo del delta”.
Ma neanche per idea.
***
Per comodità di comprensione, siamo soliti classificare il mondo in grandi capitoli tematici.
Di più: per intenderci fra umani, abbiamo bisogno di suddividere gli ambiti conoscitivi in cui ci muoviamo in “sottostrutture funzionali”, in “reparti operativi”, che agiscono secondo proprie logiche interne.
Non ci avete capito una mazza, eh?
Avete ragione da vendere…e non sono sicuro di averci capito molto nemmeno io.
Scendo dunque un attimo dal pero e ricomincio, cercando di spiegarmi meglio con degli esempi.
Prendiamo un ambito conoscitivo vastissimo: l’arte.
Per similitudine, mettiamo che l’arte sia una cartella di windows. Dentro ci sono tante sottocartelle: la pittura, la scultura, la narrativa, la musica, la poesia, il cinema. Queste sottocartelle, riprendendo lo sproloquio iniziale, sono ciò che prima ho chiamato “sottostrutture funzionali” o “reparti operativi”.
Nell’accezione comune, ad un’analisi sommaria, queste cartelle non dialogano fra loro, o se lo fanno, questo succede in forme alquanto marginali.
In ogni cartelletta minore si persegue lo scopo previsto dalla “sovra-cartellona” onnicomprensiva denominata “arte”: la ricerca di inediti significati esistenziali tramite la sperimentazione “linguistica”. Ma ad ogni sottocartellina compete la sua specificità di mezzi, la sua operatività particolare.
Ci può essere una trasversalità di temi (l’amore, per dire, può essere raccontato in un film, narrato da un romanzo, raffigurato su una tela, espresso plasticamente), ma il pittore continua ad usare i pennelli, lo scrittore la penna, lo scultore mazzuolo e scalpello, il regista attori e pellicola. Nel senso: ciascun artista percorre i propri canali e strumenti espressivi peculiari.
Ciò che normalmente meno si sospetta invece, è che possa sussistere anche una trasversalità “strutturale”: le sottocartelle dell’arte possono essere imparentate anche rispetto alla loro essenza espressiva.
Insomma, tutta questa fiera per raccontarvi di una magia, quella che succede quando un libro parla come un dipinto o viceversa. Quando una poesia o una scultura si mettono a sillabare all’unisono. Quando vi accorgete che posando gli occhi sulla tela di un quadro, riconoscete la sensazione emanata come familiare, perché è la stessa assorbita tempo addietro dalle pagine di un romanzo.
A questo punto, ritorna in ballo il concetto di “gastronomia del delta”, col quale vi ho ammorbato nella scorsa “puntata”.
Lo riassumo al volo: consiste nella straordinaria capacità, che solo i più sublimi narratori posseggono, di saper illuminare profondissimi “significati di vita”, servendosi del linguaggio quotidiano. Per tradurre nella mia bislacca similitudine: parlando come mangiano, sanno far sfociare dal loro racconto mille rivoli di verità (come le diramazioni del delta di un fiume).
Ed eccoci alfin giunti al succo del mio odierno sproloquiare.
Normalmente, con ogni probabilità, non me ne sarei reso conto. Ma il fatto di aver appena coniato questo concetto “fondamentale” per il prosieguo delle sorti dell’umanità, mi ha fatto accorgere che anche il pittore americano Edward Hopper è un grande “gastronomo del delta”.
Anzi: grandissimo.
Prendete uno qualunque dei suoi dipinti.
Nelle “arti visive”, dopo la prepotente entrata in scena dell’astrattismo e di tutte le tipologie espressive che (con faciloneria “tutte-l’erbe-un-fasciale”) condenserei nell’aggettivo “concettuali” (Klee, Mirò, Mondrian, Kandinski, Malèvic, Duchamp, Tristan Tzara, and so on), ci si sarebbe forse potuto aspettare che al realismo, al parlare con linguaggio figurativo, toccasse in sorte un rapido declino per “obsolescenza”.
Invece no.
Per un lungo stralcio di ‘900, quando quasi tutti gli altri ci davano giù di brutto con linee, volumi e colori puri finalizzati all’emozionalità cristallina, Edward Hopper ha parlato il linguaggio della quotidianità, ha attinto le sue “sillabe” dalle forme del reale. Si è sempre mantenuto “alla luce del sole”, è proprio il caso di dirlo. Non c’è ricerca apparente di mistero nelle sue forme, ma non di meno il mistero e l’ambiguità si materializzano in piena luce.
Hopper sa cogliere uno dei più stranianti dati della modernità: le sue ambientazioni urbane trasudano trasparenza scientifica da tutte le angolazioni (i suoi omini e donnine sembrano quasi collocati sotto lampade da laboratorio), ma l’angoscia metafisica che quello stesso razionalismo avrebbe preteso di scacciare fuori dalla porta della inconvertibilità sperimentale, rientra dalla finestra del dubbio esistenziale pragmatico, fra squarci di luce abbacinante.
Non c’è astrazione, non c’è fuga nell’intellettualismo: Hopper accetta la sfida con la tangibilità del vivere, con gli elementi concreti della realtà, riuscendo nondimeno a farceli osservare da prospettive nuove e poeticamente inespresse prima.
Ci sono insomma modalità di linguaggio che attraversano tutta l’arte senza badare ai suoi specifici ambiti espressivi.
Come un esperanto dell’arte.
Ammirare un quadro di Hopper, mi pare allora, è un’esperienza estetica di poco dissimile dal leggere un romanzo di Hemingway o un racconto di Carver.
Autori che lasciano poco o nullo spazio all’introspezione o alla speculazione filosofica, affidando tutta la loro immensa poetica all’esclusività della maestria nel trattare i piccoli frammenti espressivi della concretezza del vivere.
Che dire ancora, cari amici viandanti per pensieri...
Due cose.
La prima è che, casualmente, in questi giorni si tiene a Milano (Palazzo Reale) una bella mostra dedicata proprio ad Edward Hopper e magari, se riesco, ci faccio una capatina.
La seconda è che, poco ma sicuro (e lo si capisce dalle “complicazzate” sparate anche in questa occasione), io non sono affatto un “gastronomo del delta”.
Ma neanche per idea.
14 commenti:
e invece sei un gastronomo del delta solo che non lo vuoi ammettere perché ti piace Calasso e vuoi somigliargli! mi hai commosso invece... post bellissimo anche perchP hopper è una mia indiscussa passione da sempre :-)
@->Farly: nooooooooo, Farly...ti giuro che vorrei essere lieve e "semplice" come Hemingway, ma poi mi scappa sempre da complicazzare :-)
Scrivere complesso non è un pregio...per me è un grande difetto...ci vuole somma maestria per dire tutto col minimo sforzo...solo i grandi ne sono capaci...infatti io non ne sono :-)
abbiamo già fatto questo discorso una volta, almeno. scrivere con semplicità non è senza sforzo, è comunque scelta attenta di vocaboli, di immagini e suoni scritti, solo che lo si fa con un quadro di reiferimento non barocco, spesso è il pensiero sedimentato che diventa semplice, a scrivere di getto, molto spesso, raccontiamo anche il processo di formazione del pensiero e così vien fuori complcato ... ecco già senza diminutivi uno scritto è più semplice :-D
@->Farly: lo so, lo so, Farly, scrivere semplice non è una roba che viene giù dal cielo :-) ci vuole tanto impegno e lavorio dietro...infatti, il mio scrivere contorto è anche una conferma indiretta della pigritudo gravis che mi affligge :-)
Bellissima questa idea che a scrivere di getto si finisce per raccontare la formazione del pensiero stesso...a questo proprio non avevo mai pensato...regalare idee è una delle cose più belle, grazie... :-)
Mi viene in mente l'aforisma raccontato dal dott. Veronesi domenica da Fazio: se ci scambiamo una moneta, tu hai una moneta e io ho una moneta; se ci scambiamo un'idea, io ho due idee e tu hai due idee :-)
be' non è questo il bello dell'andarperpensieri? prima ne avevo uno solo, ora ne ho due :-) baci viandante-pensieroso
buongiorno gil! vado di fretta ma ho visto che hai scritto un novo post... lo leggerò stasera - credo sia un tema che mi riguardi ed appasioni molto. per ora un bacio e buona giornata!
@->Farly: andarperpensieri è pratica saggia e dilettevole, Farly...con una sola avvertenza: non devono essere pensieri nel senso di preoccupazioni, che quelle già vengono da sole senza andarle a cercare :-)
blogspot è ringhioso oggi: "reato" mi dice...lo possino :-)
@->Maria Rosaria: grazie EmRose, sei carinissima...aspetto la tua lettura sempre con grande piacere...bacio a te e buona giornata pure :-)
Concordo con Farly! Tu hai molte caratteristiche del gastronomo del delta! E forse è proprio per quello che leggo i tuoi post!
Buffettino
@->Scodinzola: mah, credo di essere un po' confusionario, Scodi...ma con delle lettrici così carine non temo nessuna complessità :-)
Grazie!!!
tu scrivi dipingendo, altro che gastronomo del delta... nei tuoi post il contenuto è dato da una forma ricca di colri sfumati, e pennellate a tinte forti... ciò che scrivi è sempre profondo ed interessante... c'è della filosofia...
non essere troppo cattivo con te stesso.
un bacio
@->Maria Rosaria: miiiiiiiii...EmRose, sono rosso fin sotto le i ditoni dei piedi :-)
Ma grazie, non sum dignus, sei troppo gentile :-)
E' vero, sono troppo autolesionista :-(
Purtroppo mi viene naturale così, ma ci sto lavorando per ovviare :-)
Grazie ancora...un bacino con astuzia da volpe :-)
Splendido, splendido, splendido post su di un pittore grandioso!
Se vai a vedere la mostra milanese su Hopper, Gilli, raccontacela, così noi veneti facciamo una gita fuori porta volentieri...:)
Apprezzo il tuo stile profondo e la ricerca/complessità delle tue parole...sei una rarità, in un mondo che usa cento vocaboli e non pensa valga la pena di conoscerne un milione solo per sentirsi vivi del tutto.
;)))
Ovviamente, ti ordino di continuare a scrivere per noi...:)))))))))
@->Vale: questi complimenti, detti dalla "Gran Cerimoniera della Parola ed Ambasciatrice Universale della Pigrizia", equivalgono per me ad una laurea in "Letteratura e Vita in Lenta Pienezza" :-)
Grazie di cuore Vale...spero di andarci alla mostra, e in ogni caso, obbedisco molto volentieri al tuo ordine
:-) 'Gnorsì, 'gnorsì :-)
Posta un commento