domenica 31 gennaio 2010

No one there to tell us what to do




Avevo promesso alla mia metà di chimera bloggereccia, Farly the Farliest, di non mettere mai, possibilmente, brani dei Beatles, perchè sono ormai a tutti troppo noti, troppo familiari.
Se mi permetto di fare un'eccezione alla regola questa sera, è solo perchè la canzoncina che ho scelto è fra le meno conosciute e poi è una delle pochissime scritte da Ringo Starr, ma soprattutto perchè fra le sue note si cela la più profonda essenza dello spirito da prima media :-)

sabato 30 gennaio 2010

Lassù qualcuno ama Gillipixiland

Gillipixiland è proprio un posto strano.
Va beh, un po’ già lo si era capito, anche semplicemente dando un’occhiata a quale bizzarra scaturigine d’umano individuo abbia potuto sgorgare da quella plaga semisurreale e sperduta fra le righe di questo blog: ossia me stesso medesimo, io, in persona virtuale.
Ma ieri mattina gli eventi atmosferici “hanno sentenziato” in maniera più inequivocabile del solito. Salgo sulla 313 GT per recarmi alla volta della “urbis apis laborans” e un muro di nebbia mi abbraccia amorosamente. Quando dici “un muro” di nebbia riferendoti ad un posto normale, ti aspetti una metafora un po’ caciarona e qualche filo di foschia quando ti metti per strada.
Quando dici “un muro” di nebbia a Gillipixiland, pensa senza troppe remore a veri e propri mattoni di vapore acqueo lattiginosi e densi come il burro, ben legati insieme da una malta di rugiada opaca come la sintonia dei canali Rai sul digitale terrestre, così come si vedono da queste parti.
Pensa pure a tutto questo, che non ti sbagli di un micron.
Fino a qui dunque, tutto Gillipixilandianamente regolare.
La cosa stupefacente è tuttavia accaduta quando ho varcato il confine comunale, attraversando il ponte sull’acqua piccola: niente più nebbia, puff!!! svanita d’incanto, svaporata via come il fumo del cotechino dopo una bella soffiata. Visibilità perfetta dagli Appennini alle Ande!
E’ stato lì che ho pensato: «Gillipixiland è un posto unico, ha persino l’esclusiva nebbiosa riservata! Si può avere più culo di così?!?!?».

Scommetto che ogni abitante di ogni piccolo paese italiano, di ogni frazione, di ogni crocicchio che sfiori anche lontanamente l’idea di località, penserà di vivere in un posto unico.
Ma Gillipixiland è più unico degli altri (a dimostrazione immediata della precedente affermazione). Per certi versi questa è la grande ricchezza del nostro tessuto territoriale, e per altri aspetti è una delle sue prime vulnerabilità.
La diversità è l’humus italiano più prezioso. Il predicozzo modernista tanto caro all’efficentismo modaiolo dei giorni nostri: “bisogna essere più competitivi”, è un pleonasmo già superato storicamente dalla nostra trama sociale a strette maglie campanilistiche. Se sei uno dei 123 abitanti, originari del sasso, di Sgundarolo di Sotto sul Minchio, col cacchio che ti lasceresti superare su qualsivoglia termine di competizione (mettiamo l’annuale gara di lancio della formaggetta “spussona” stagionata 52 anni), da uno qualsiasi dei 112 abitanti di Sgundarolo di Sopra sotto il Minchio.

E’ così che ogni piccola comunità italiana percepisce sé stessa ed è così che ho sempre percepito fortemente Gillipixiland. Al di sopra ci sono anche una Provincia, poi una Regione, poi uno Stato. Ma quella decina di km. quadrati su cui Gillipixiland si adagia, nella mia percezione hanno sempre formato un’isola anarcoide ed apolide lanciata a razzo fra le nebulose dello spazio senza confine originato dalla singolarità e dall’originalità delle teste dure che la popolano.
Ho conosciuto moltissimi tipi umani fra gli abitanti di Gillipixiland, soprattutto certi vecchi che ormai purtroppo non ci sono più. Gente così ostinata, orgogliosa della propria opinione, che, per dire, si fosse trattato di non dare ragione ad un proprio rivale in una discussione, sarebbe stata disposta ad ammettere che una martellata sul ditone del piede fa godere (previa sperimentazione in prima persona, “et coram populo”, della martellata in questione, ovvio…). Ma gente poi disposta a fare i sacrifici più duri per aiutare magari il medesimo “avversario d’opinione”, nel caso questi si fosse trovato di fronte a difficoltà della vita concrete e serie.

L’orgoglio auto-esiliante dei Gillipixilandiani entro i confini della propria singolarità, un tempo si esprimeva ai suoi massimi livelli anche nel contesto del campionato calcistico provinciale. Il “Gillipixiland Stadium” (in realtà un campetto spelacchiato, chiazzato spesso di margherite, denti di leone e radicchio selvatico…) è sempre stato il terrore delle tifoserie avversarie. In quelle due ore di partita, essere un abitante del paese avversario di turno corrispondeva alla peggiore onta immaginabile fra le infamità umane, e i furiosi florilegi d’insulti all’indirizzo dell’orda barbara si sprecavano e si distinguevano per fantasia e creatività belluina.
Però Gillipixiland è stata storicamente anche la terra di tanti emigrati nei luoghi più lontani del globo, e negli ultimi anni, la terra di accoglienza di numerosi immigrati da molto lontano.
Mi domando spesso se tutto questo patrimonio di umanità così singolare non stia imboccando, come tutti gli indizi demografici farebbero presupporre, il proprio inesorabile viale del tramonto.
Ma poi capita di ritrovare certi vecchi, magari partiti 40 anni fa, andati a vivere a Genova, Milano oppure Roma, per una vita, che tornati qui riprendono a parlare il contorto dialetto locale con una precisione sbalorditiva nella pronuncia e nella nostra cavernicola dizione, come se si fossero assentati solo per cinque minuti, giusto il tempo di una pisciata.
E capita anche di sentire la medesima parlata familiare farsi strada timidamente ma con modi giocosi e liberi, sulle labbra dei nuovi ospiti giunti da terre lontane, albanesi, marocchini e altri.
E allora viene da dar ragione a quello che mi diceva ieri mattina quel gran batuffolo di nebbia che demarcava i confini di Gillipixiland: questa terra sarà sempre se stessa, di qualsiasi colore saranno gli occhi che la sua gente poserà su di essa in futuro, qualsiasi ritmo seguirà il battito dei loro cuori.

martedì 26 gennaio 2010

Il fascino discreto dell’ironia storica

Quest’anno la «Giornata della memoria» (27 gennaio: data che nel 1945 vide la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz) ricorre proprio mentre mi trovo nel pieno della lettura di un testo molto importante per quel che riguarda le tematiche connesse alla Shoah e a tutto il periodo storico relativo. Il libro in questione è un ponderoso doppio tomo intitolato «Storia del Terzo Reich» (Edizione Einaudi, ristampa recentissima), realizzato sul finire degli anni ’50 da un eccellente giornalista statunitense, William L. Shirer.
La cosa è capitata un po’ casualmente.
Nel periodo di Natale, mi ero visto «La caduta», film che racconta le ultimissime ore del terrificante regime hitleriano. Da lì, mi è venuto voglia di approfondire ulteriormente l’argomento. Il fatto che questa sequela di interessi storici mi abbia colto proprio fra dicembre e gennaio, è stato dunque una coincidenza pura. Ma questo mi porta ora ad affrontare con animo diverso la giornata da alcuni anni tradizionalmente dedicata al ricordo dell’Olocausto.
Non è certo mia intenzione tentare nemmeno un timido abbozzo di sintesi dell’interessantissimo libro in questione. Primo perché non sono assolutamente un esperto della materia, per cui non mi azzarderei nemmeno ad addentrarmi più di tanto nel merito degli aspetti “tecnici”.
Secondo perché, non solo il contenuto è di una complessità e di una “diramazione” tematica straordinarie, ma rappresenta già esso stesso la grandiosa sintesi di una mole immane di documenti (diari, trascrizioni di discorsi, verbali di eventi ufficiali, atti del processo di Norimberga), completati per giunta da tantissime testimonianze dirette dell’autore, che fu prestigioso corrispondente dalla Germania per diversi quotidiani USA e per la radio, proprio nel pieno del periodo in questione, conoscendo di persona anche tantissimi protagonisti delle vicende trattate.
Per quel che vale la mia parola di profano dunque, supportata anche dall’avallo di qualcuno che in campo storiografico ha più autorevolezza di me (…grazie Yoss!), posso dire solo che si tratta di un gran bel libro (pur con alcuni limiti tipici dell’ancora “acerbo” clima culturale del secondo dopoguerra), consigliabile (se non ci si spaventa di fronte a circa 1700 pagine di lettura) a chi vuole saperne di più a proposito di uno dei deliri più folli nei quali l’umanità si sia avventurata nel corso della sua lunga vicenda.

Quel che posso tirar fuori io, sono invece alcune considerazioni volanti e probabilmente alquanto disordinate, com’è mia consuetudine.
Non nascondo che questo periodo storico ha sempre suscitato in me un certo interesse. Così come lo hanno sempre suscitato le vicende del totalitarismo sovietico, quelle della follia cambogiana, oppure i passaggi salienti della sanguinosa guerra del Vietnam, o ancora i fatti degli “anni di piombo” in Italia.
Mi sono chiesto spesso il perché.
Chi di voi di tanto in tanto ha letto anche solo qualche riga di ciò che scrivo qui su, avrà ormai capito che definirmi moderato è un eufemismo. Sarebbe più giusto dire che sono la stasi emotiva fatta persona. Un bradipo è cento volte più animoso di me, e probabilmente, un ettogrammo della mia flemma sarebbe bastato a mandare a carte quarantotto tutto l’impeto della Rivoluzione francese.
Eppure, come mai, al di là della normale curiosità che mi fa avvicinare un po’ a tantissime dimensioni dello scibile umano, proprio quei periodi così terribili e violenti sollecitano in maniera così particolare il mio desiderio di conoscere?

Una delle possibili risposte che mi vengono in mente potrebbe essere questa: il male è sì contraddistinto da una propria sconvolgente banalità, come disse Hannah Arendt. Il male è persino burocratico nella stupefacente “eccellenza” dei livelli di ottusità verso i quali è capace di spingersi.
Ma, nel suo modo diabolico e contorto, il male sa essere anche tremendamente “fascinoso”.
Questa cosa si evince in maniera eclatante dal fenomeno nazista. Per certi versi si può dire che quel regime fu concepito come una perfetta e tremendamente perversa “macchina estetica”.
Insieme alla coercizione fisica vera e propria, alla violenza pratica applicata sistematicamente per imporre la propria logica di sopraffazione antilibertaria, il nazismo vide essenzialmente fra le sue componenti principali anche una possente «irregimentazione» dell’immaginario di un popolo.
La consapevolezza dell’esistenza di questo fascino potenziale contorto e subdolo, aiuta già parecchio a difendersi da esso e a mantenersi all’erta riguardo al suo possibile strisciare “sottotraccia”, rinnovato in inediti fenomeni storici a venire.
Ma esiste comunque una “cartina di tornasole” particolare, capace di mettere in evidenza la natura ingannevole e fallace del fascino del male: la grazia e la sottigliezza dell’ironia storica.

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Ad un certo punto dell’avvincente narrazione di Shirer, vengono ricordati gli avvenimenti che si verificarono quando il fascino fasullo del male nazista si trovò a confrontarsi con il reale senso della bellezza vera, che non può essere composta da altri ingredienti che non siano la tensione (sempre a carattere asintotico: è importante!) verso il vero e verso il giusto, e l’amore più disinteressato per i valori della libertà dello spirito.

Su tantissime questioni il nazismo riuscì ad ingannare il popolo tedesco (che, non va dimenticato, a buona parte di quella sciagurata avventura concedette il proprio “complicato” consenso), ma non riuscì a renderlo completamente cieco di fronte alle espressioni genuine del “bello” reale.
Racconta ad esempio Shirer di come il regime si oppose alla ricerca estetica dell’arte moderna. Questo frangente storico merita di essere menzionato per i suoi risvolti grotteschi, che se non fossero legati all’angosciosa tragedia di tutto quel periodo, si potrebbero quasi considerare straripanti ben addentro l’ambito di competenza della comicità.
Per ordine di Hitler, i principali musei del Reich vennero “epurati” di molti capolavori di quella che nel farneticante linguaggio del regime era definita “arte degenerata”. 6500 importanti dipinti dei più grandi autori, fra i quali Grozs, Kokoschka, pezzi inestimabili dell’Espressionismo tedesco, Van Gogh, Cézanne, Gauguin, Matisse, Picasso, molti impressionisti, vennero nascosti al pubblico, messi al bando per imporre il monopolio dell’unica arte che nella logica malata di quei pazzi poteva considerarsi degna di essere chiamata con questo nome. Una grande raccolta di queste tronfie croste di autori di “pura ispirazione ariana”, grondanti nauseabonda retorica ed irritante servilismo culturale, venne radunata per indicare al popolo la “vera via” dell’arte.
Ci racconta Shirer che nemmeno lo stesso Hitler, recatosi a visitare privatamente in anteprima l’accozzaglia di banalità e squallori, riuscì a tollerare la sensazione soffocante di schifezza che promanava da quei pezzi di tela impiastricciati, e in un accesso irrefrenabile di sincerità, sferrò liberatori calcioni nel bel mezzo di più d’uno di questi dipinti espressione della “nuova arte germanica”, proprio grandi pedate ben assestate con i suoi stivaloni totalitari, aprendoci sopra puri squarci ariani. Come dicevo prima, se dietro non ci fosse tutta la tragedia che sappiamo, ad immaginare la scena di un Führer incacchiato che scalcia contro i sommi capolavori dell’eccelsa arte di regime, ci sarebbe da schiantarsi dalle risate.
Ma non finì qui.
Il perfido ministro della propaganda del Reich, il claudicante dottor Joseph Goebbels, rifulgente di tutta la sua storpia perfezione ariana, pensò bene di organizzare, con tutte le vere opere d’arte moderna sequestrate, una seconda esposizione. Lo scopo era quello di offrire alla gente una chiara dimostrazione della “degenerazione” degli artisti banditi. Andò a finire che la “contro-mostra” fu un successo incredibile.
Lo stratega culturale del Reich, dopo essersi roso etti ed etti di fegato, si trovò costretto a chiudere in fretta e furia l’esposizione, per mettere fine all’afflusso di folla assetata di bellezza vera, affamata della libertà di esprimersi e di pensare.
Destino non tanto dissimile toccò agli altrettanto mefitici lungometraggi di regime, che venivano addirittura fischiati nelle sale, tanto erano tediosi, stucchevoli ed inutili, mentre le poche innocue pellicole americane lasciate passare dalla censura, pur nell’inoffensività della loro pochezza, venivano avidamente assorbite dagli spettatori come dalle sabbie di un deserto afflitto da una terribile arsura estetica.
Leggendo queste cose, pur nella mestizia di fondo, il mio cuore sorrideva. E il mio ingenuo animo mi ripeteva che sì, il male può spuntarla in tante ed anche terribili battaglie, ma mai risultare vincitore definitivo nella grande contesa della vita.

Il male non è mai portatore di nessuna bellezza. Non lo può essere. Il suo è molto più rozzamente e sbrigativamente il fascino che potrebbe emanare da un «energumeno estetico». Il fascino del male è un eccitante capace di smuovere solo le superfici più “elettriche” dell’esistenza, senza mai riuscire a calarsi nei fondali più segreti e misteriosi, laddove la verità ha la sua casa. Elettricità del male, che inevitabilmente incappa in un corto circuito, quando nella presa di corrente fissata sul muro delle varie epoche degli uomini, prima o poi va ad infilarsi quella dispettosa forcina per capelli che è l’ironia storica.

sabato 23 gennaio 2010

Scatole


Nel dormiveglia, mi è apparsa l’immagine di un oggetto inanimato che pronunziava inopinatamente una frase sibillina. Ho provato a deformare narrativamente quella strana suggestione, e quanto segue è la boiata che ne è uscita: una storia assolutamente senza senso, forse la più alta vetta di delirio mai sfiorata da un vagabondo fra i pensieri…

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La scatola era lì per terra.
Proprio ai bordi della corsia dei biscotti e dei dolciumi, appena sotto una delle scansie. Non era nulla di quanto messo in vendita. Infatti, presumibilmente, non era caduta dagli scaffali. Forse nessuno l’aveva notata prima. Di certo non passò inosservata quando da un qualche luogo che sembrava essere il suo interno, uscì quella che pareva una voce: «Io sono la scatola. Lasciatemi qua!».
Una sorta di limite invisibile si creò all’istante fra un capo e l’altro della corsia, con un margine di quattro o cinque metri dal punto in cui la scatola giaceva.
Nessuno degli avventori, una volta udito il bizzarro proclama, aveva osato fare un passo oltre. Si erano formati così due piccoli capannelli di persone, che si fronteggiavano, la scatola nel mezzo.
«Io sono la scatola. Lasciatemi qua!».
La prima fu una graziosa signora, molto elegante nel suo abitino fantasia, e ben decisa a non lasciarsi strapazzare nel proprio senso della realtà. Figurarsi, da una scatola poi.
Con piglio risoluto, la donna avanzò da uno dei gruppetti di persone, facendo tre passi decisi in direzione della scatola.
Dominando quella bizzarra fonte di loquacità, posta adesso giusto ai suoi piedi, non aveva ancora fatto in tempo a chinarsi, che il tono della scatola si fece particolarmente odioso: «Hai le mutande viola chiaro con fiorellini gialli, troppo aderenti, e devi farti urgentemente anche una ceretta…Io sono la scatola. Lasciatemi qua!».
Il colorito del volto della signora parve quasi riecheggiare all’istante quella segreta tonalità negligente, resa di dominio pubblico in modo così malevolo. Il motivo della vergogna era del tutto infondato, a ben pensarci. Anche in una logica da scatola. Ma nondimeno, nonostante i primi sorrisetti dei presenti avessero gradualmente mutato la loro sfumatura da un deciso cicaleccio canzonatorio ad un ben più rassicurante imbarazzo solidale, la signora fece ritorno mestamente sui propri passi, per eclissarsi alla chetichella, approfittando dell’angolo formato dal reparto dolciumi con la zona delle bevande.
«La scatola vede…»: l’inquietante verità aveva iniziato a serpeggiare sibilata fra i sussurri degli astanti.
In un gruppo di umani che superi la semplice coppia almeno di un’unità, è statisticamente quasi sempre presente il furbo di turno. Nella fattispecie, una ragazza, forte del suo fascino impeccabile e dei suoi pantaloni attillati, si propose come seconda "volontaria", anche se forse proprio nessuno dei presenti l'aveva "voluta".
Ma la perentoria scatola ne aveva anche per lei: «Hai lasciato l’auto nel parcheggio per disabili con un permesso fasullo… Io sono la scatola. Lasciatemi qua!», sentenziò stavolta “la perfida”, bofonchiandoci pure dietro un «...e poi…suvvia: hai le mutande tutte sdrucite!!!».
Stavolta lo spazio per l’eventuale indignazione o per il sarcasmo, se pure ci fu, rimase relegato ad alcuni fugaci attimi, il tempo necessario perché anche l’improvvida ragazza svanisse ormai mezza inosservata.
L’emotività dei due capannelli non aveva margini che per una nuova ondata di strisciante panico bisbigliato: «La scatola ti vede dentro… la scatola sa!».
Sconfortata, la gente si teneva ora a debita distanza dal malefico involucro. Al direttore del negozio, convocato dopo pochi minuti, non rimase che transennare quei perigliosi metri quadrati intorno alla scatola, dando ormai per perse le merci riposte sui ripiani degli scaffali immediatamente circostanti, nella speranza che quel pedante oracolo prismatico non avesse da ridire anche sulle date di scadenza o sui coloranti e i conservanti contenuti.

Alla tv dissero poi che scatole di quel tipo erano proliferate un po’ in tutti i quartieri della città. Presto la notizia venne rimpinguata da altre provenienti da località diverse della nazione, e poi di tutto il mondo.
Era l’invasione delle scatole.
Contemporaneamente, si diffuse anche la voce della scomparsa di tante persone.
Le autorità indagarono e ne uscì che il profilo comune di questi tizi irreperibili parlava di una loro tendenza alla vita ritirata. Erano tutti, chi più chi meno, definibili come sognatori, con una propensione all’abbandono ad amori platonici volutamente mantenuti sempre sulla cresta dell’incompiutezza.
Si erano forse costoro, in virtù di una stravagante metamorfosi, tramutati nelle oracolari scatole?
Non si seppe mai con certezza, ma fatto sta che tutto il clima sociale ne subì una mutazione. Le città, i paesi, le campagne, erano ora costellati da piccoli spazi interdetti alla vicinanza umana, al centro dei quali campeggiava l’enigmatica presenza della scatola di turno.
E a riflettere il paesaggio, ora anche il cuore degli uomini si era adeguato a quella diffusione emozionale a macchie sparse. Tante scatole virtuali costellavano le anime e i sentimenti delle persone, con altrettante zone omertose lasciate impotentemente proliferare all’interno delle coscienze.
Forse solamente un giorno tutto questo avrebbe avuto fine. Forse solo con la venuta di un individuo dall’occhio pulito, dallo spirito assolutamente candido e senza addosso mutande.


martedì 19 gennaio 2010

Oho-hohohoho-hohohohoh!!!


"...Ohoho-oh-oh....oh-oh-oho...".
Johnny Weissmuller - 1932

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In tutti i posti in cui mi sono ritrovato a lavorare, è sempre andata a finire che sono diventato lo scribacchino ufficiale dell’ufficio.
Non è che ve lo vengo a raccontare per chissà quale forma di vanteria bislacca. C’è poco da marciarci, su robe del genere. Sarebbe come se Ercole, impiegato in qualità di domestico in “Casa Biancaneve”, si fosse auto-magnificato per essere stato promosso a uomo di fatica di tutta la baracca (magari facendo anche il gradasso con Cucciolo e pigliando per il culo Mammolo…).
Se vi parlo della cosa invece è perché questo fenomeno mi ha portato spesso a contatto con prose a dir poco “mirabolanti”. Citavo, alcune puntate fa, la celeberrima frase di Ludwig Feuerbach, “noi siamo ciò che mangiamo”. Ecco, la sentenza non suonerebbe poi così male anche se la modellassimo nella seguente sagoma: “Noi siamo ciò che scriviamo”.
Fra i miei compiti di Lodoletta d’occasione (ricordate, nel “Fu Mattia Pascal”, il modesto cronista di provincia?), c’è stato e c’è spesso quello di dare un’occhiata alla forma di un qualche scritto confezionato da mano altrui. Da queste panoramiche sulle “vite scritte degli altri”, la personalità narrativa che più spesso emerge è quella del «Tarzanista grammaticale», anche noto come il «trapezista dell’inciso».

Spesso, la causa di questi bizzarri prodotti letterari non è da ricercarsi proprio tutta nell’impreparazione linguistica. Bisogna anche un po’ calarsi nei panni del perseguitato burocratico medio. Le lettere, le comunicazioni, gli avvisi che l’impiegato standard è frequentemente chiamato ad elaborare, il più delle volte recano in sé la pretesa dirigenziale, se non il diktat, di convogliare significati bizantini, sofismi degni dell’estremismo diplomatico più spinto, quel “dico e non dico” che s’impone come imperativo morale del saper “fare azienda”, del sapersi vendere come ente o istituto dalla tradizione certificata ISO 9000 leghe sotto i mari. Là fuori c’è un brutto mondo, c’è il mercato e l’Uomo Nero (l’«Uomo Mercato Nero»?), è un attimo azzardare una parola comprensibile di troppo e ritrovarsi a perdere qualche quattrino o il prestigio di un’immagine che al giorno d’oggi vale ben mille sostanze.
Non bisogna inoltre trascurare più di tanto la sindrome dell’«altisonanza» sempre in agguato: qualsiasi contenuto tu debba comunicare, non lo puoi fare così, paro paro, papale papale. Occorre darsi un tono, far capire al destinatario che noi si è padroni della lingua, noi l’«itagliano» sì che lo si conosce. Con questi presupposti, è un attimo per lo scrivente medio calarsi nei panni del tassista chiamato a parcheggiare lo “Shuttle” in garage.

Come iniziare allora una lettera?
Senza lasciarsi ammaliare più di tanto dalle “sirene del senso compiuto”, si parte in tromba gonfiando ben bene le gote di aria e verbosità rimbombante. Il periodo monta, monta, s’ingrossa, e lo scrivente veleggia, planando con lo sguardo fra l’attonito e l’eccitato sopra distese di paroloni, infiorettati lì di tanto in tanto lungo la frase, nella certezza che un bel sostantivone di qua ed un sonoro aggettivo di là, siano sempre sufficienti a tenere in piedi il periodo. Tuttavia la lunghezza della locuzione inesorabilmente cresce, l’estensione del ramo espressivo al quale si è appesi si fa minacciosamente eccessiva; dopo tre gerundi e quattro “considerato che”, torvi scricchiolii risuonano alle spalle, minacciando il miserando schianto a precipizio nel sottobosco della jungla non-sensuale più buia e fitta.
Ma ecco che quando ogni barlume di significato sembra ormai lì lì per svanire fra le fresche frasche del nulla, il disperato scrivente d’un tratto adocchia una salvifica liana a portata di sillaba, un bel “la quale” fronzuto, un lussureggiante “per cui” sempre verde, un solido “dove” che si fa “trapezius ex machina” calato da chissà quale meandro della sua plasticità lessicale agile come un gatto di marmo.
Ed impavido Tarzan della pagina bianca, novello trapezista degli equilibri verbali, ecco allora il solerte impiegato che non esita un secondo ad agguantare con sveltezza quella miracolosa appendice avverbiale, quella portentosa propaggine pronominale che ogni periodo sorregge, ogni vicolo concettuale rabbercia e rappezza, ogni vertigine del pensiero lenisce e riporta in piano.

Così balzando di liana in liana, altalenando di “per cui” in “la quale”, ecco alfin il nostro eroico Tarzan del linguaggio andare senza infamia e senza lode ad adagiare lo sgrammaticante deretano sul soffice manto verboso dei “distinti saluti”.
Perché anche il ricevente lo abbia sempre ben chiaro: nello scrivere sarà anche un po’ ordinario, ma speciali come i suoi, di saluti in giro non se ne trovano.
E non sia mai che non li distinguiate dai saluti dell’ultimo che vi aveva scritto, anche lui giustamente congedandosi coi suoi “distinti saluti”.

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AVVERTENZA: Se fate partire il minivideo qui sotto, abbassate il volume, che il grande Johnny ci dà dentro di brutto!


sabato 16 gennaio 2010

A uno sputo dalla poesia


Rimestando nel baule della memoria, fra le piccole cianfrusaglie dell'«era di nostra vita in cui le ascelle erano liscie», ricordo che ai tempi un bambino-ragazzino poteva accrescere di parecchio le proprie quotazioni nella compagnia degli altri sbarbatelli, se era dotato di una qualche "abilità-rozza".
Mi riferisco a certe piccole particolarità gestuali connesse alle manifestazioni più folkloristiche del corpo.
Il fenomeno sarà forse legato ad un qualche meccanismo psicologico inconscio.
Sotto sotto, ci dev'essere una qualche legge di natura che esige per i cuccioli di maschio umano l'imposizione della propria crescente virilità in boccio, alla ricerca di un'affermazione individuale nella gerarchia amicale dispiegata secondo le fondamentali dinamiche di una normale gregarietà di gruppo (come avrebbe chiosato il mio prof di italiano: "...at gh'è ragiò...co' èt dìt?!?!?..." - trad: "...hai ragione...cos'hai detto?!?!?...").
Sarà anche così, ma credo che facciamo molto prima a riassumere tutto il tema col celeberrimo verso di una delle pietre miliari della musica rock. In altre parole, il bimbetto in fiore, lo sbarbato medio, nell'offrire ampio saggio della propria peculiare "abilità-rozza", sembra quasi voler affermare, rivolto a ciascun altro individuo del consesso umano: «...he can't be a man 'cause he doesn't smoke the same cigarettes as me...».

Sono sempre stato un bambino gentile, riservato, ed in generale molto rispettoso degli spazi e della sensibilità altrui. Ma nondimeno anche io sviluppai le mie piccole "abilità-rozze" (...gli iper-sensibili rinuncino a proseguire nella lettura, perchè qui si diranno cose poco edificanti...).

E' sempre stato un fatto molto buffo per me ritrovarmi cuciti addosso certi talenti totalmente inutili, senza sapere nemmeno ben dire se fosse una fortuna o una disdetta.
Parto subito dal mio pezzo forte.
La specialità più preclara ed universalmente riconosciuta della quale mi sono fregiato fin dalla più tenera età, è sempre stata quella dello sputo a lunghissima gittata.
Negli interminabili ed afosi pomeriggi d'estate a forte densità di bighellonaggio intensivo, è sempre stato un gioco da nulla per me riuscire a mettere sei o sette metri abbondanti di asfalto rovente fra la mia persona ed il candido proiettile di prodotto interno lordo eiettato.
Ora, non vorrei abusare della vostra pazienza, nè rischiare di varcare impunemente la soglia d'attenzione del vostro senso di nausea, ma permettetemi di precisare che l'atto dello sputo, praticato a certi livelli, sottintende la padronanza di un'arte sopraffina. Esige un gioco di lingua, una sapienza nell'elaborazione della fluidità, una scelta dei tempi nel soffio, insomma una sommatoria di gestualità che non è seconda ad altre epressioni sportive reputate ben più nobili, forse solo a causa di un ingiusto fraintendimento di prospettiva.
Se la cosa avesse previsto un qualche sbocco professionale, mi sarei di certo arricchito. Era invece un talento fine a se stesso e in quanto tale, per nulla redditizio. Però proprio per questo molto più nobile, anche a dispetto della sua eventuale difficoltosa accettazione fra i diversi capitoli del Galateo di Monsignor Della Casa.
In particolare ricordo che, come una bislacca Sandra Milo, anche io avevo un mio piccolo fan. Si trattava di un bimbo più giovane di me che di tanto in tanto mi invitava a produrmi in uno sputo con dedica e richiesta, quasi fossi un novello dj della candida rozzezza fanciullesca.

Un'altra delle mie specialità riguardava sempre il "reparto bocca", ma in questo caso forse con un tocco d'eleganza in più (e sottolineo con gran decisione il "forse").
Si trattava della fontanella a tre, quattro o più zampilli. Questa è legata a precisi momenti delle lunghe giornate di giocosa "perdigiornità" spese all'epoca. C'era una vecchissima autorimessa con funzioni anche di rustica lavanderia, proprio sul bordo del campetto da calcio. Lì dentro era custodita una delle fonti d'acqua più fresca, pura, dolce e dissetante che abbia mai bevuto in vita mia. Roba da far sembrare, nella deformazione amplificata che la "memoria bambina" riesce sempre ad innescare in noi, i Petrarcheschi fluidi poco più che pozze di liquido stagnante e torbido.
Nella pausa fra una partitella e l'altra, si correva a perdifiato per arrivare per primi ad abbeverarsi. Dopo che tutti si erano placati, saziando l'arsura alla fonte ufficiale, ecco che entrava in scena la mia personale fontanella, ufficiosa ma, dal punto di vista estetico-ludico, non meno gradita. La cosa consisteva nel trattenere in bocca una sorsata d'acqua precisamente dosata, e di rilasciarla poi a zampillo multiplo, modellandola fra le fessure di incisivi e canini. Avreste dovuto vedermi (o anche no, a scelta...): dalla mia bocca, per alcuni secondi anche abbastanza lunghi, uscivano quattro o cinque diramazioni acquee, che ogni volta suscitavano l'entusiasmo dei miei amici, con ripetute richieste di bis.

Anche questo business mi frutto gli stessi ingenti guadagni accumulati con quello degli sputi. Però la cosa di cui anche adesso vado fiero (...anche se lo dico sottovoce) è che sono ancora oggi in piena forma in entrambe le specialità.





mercoledì 13 gennaio 2010

Pure morning


Dopo aver sproloquiato di cibo e personalità, oggi ribalto completamente la questione “annullando” del tutto il corpo.
Certe volte, giusto per non farmi mancare argomenti fondamentali e motivi di riflessione indispensabili per un equilibrato proseguimento esistenziale, mi viene da chiedermi come sarebbe il mondo se le persone fossero fatte di pura parola scritta.
Intendo: ogni individuo costituito solo dal suo esprimersi per iscritto. Certo, ci vuole uno sforzo di astrazione mica piccolo per riuscire a raffigurarsi la cosa, by-passando tutte le implicazioni e le distorsioni tecnico-pratiche che ne deriverebbero.
Per tagliare la testa al gnoro (…così, tanto per cambiare e risparmiare per una volta la pellaccia di un toro), diciamo che io la immaginerei in questa maniera: ogni persona si presenterebbe come un fumetto ambulante. Proprio un fumetto tipo quelli che si portano sempre appresso, sopra la testa, Tex Willer, l’Uomo Ragno, Alan Ford e tutta l’allegra compagnia di cartone. Però dovrebbe essere un fumetto di discreta capienza. Diciamo un fumetto che possa ospitare i caratteri della pagina media di un libro tascabile di dimensioni normali (spazi inclusi), e con la possibilità di scorrere in su e in giù, ossia di “scrollare” a mo’ di finestra di windows.
Sotto non ci trovereste ovviamente il suo personaggio allegato, come da tradizione fumettistica classica. Ciascuno individuo sarebbe invece semplice parola pura fatta fumetto semovente.

Va beh, non ci sarà voluto molto a smascherare il mio piano: si era già capito che sto parlando del mondo ideale nel quale, forse, mi sarebbe piaciuto vivere.
Fra le parole vergate, istoriate, suggellate, immortalate, stampigliate, marchiate, inchiostrate, fissate insomma su supporto immobile tramite tecnica stabile, io mi trovo proprio a mio agio. Lì riesco a far cose che mi risultano invece mille volte più ardue quando mi ritrovo appiccicati addosso tutti gli altri ammennicoli esistenzial-comunicativi, tipo gestualità, presenza fisica, padronanza dei tempi del discorso, intonazione e volume della voce, freddezza raziocinante e presenza di spirito, espressività del volto e prontezza della battuta, profondità dello sguardo e controllo cromatico delle superfici cutanee, e così via.
“Ma come?” mi si obbietterà, “solo per questo vorresti rinunciare a tutta la parte sensoriale dell’esistere, al mangiare, al bere, all’annusare, al muoversi, all’abbracciare, al baciare, al cantare, al godere insomma di tutte le prerogative concesse ad un corpo mediamente sensibile?”.
Ecco, questa è una bella obiezione, che accetto volentieri, e a rigor di logica il discorso sarebbe chiuso qui.

Ma dal momento che, come direbbe la Loredanona, questo schifo di un canzone non può mica finire qui, aggiungerei ancora due noticine a piè di pagina. Del tutto prive di pretese, ovviamente, come mio non-sensuale costume.
Invertendo allora l’ordine dei fattori, e pur concedendo che la privazione della tangibilità esistenziale sarebbe senza dubbio una perdita inestimabile, non mi sembra del tutto esatto sostenere che la parola scritta sia del tutto priva di un suo ambito sensuale.
L’individuo fumetto-semovente conserverebbe una delle prerogative prologo primario a tanti importanti ambiti della sensualità, ossia il proprio genere. Rimarremmo tutti in ogni caso fumetti donna e fumetti uomo.
La scrittura può assumere sfumature e toni decisamente femminili oppure maschili.
E le scritture possono fare l’amore fra di loro.
Riecheggiandosi con sfioramenti sonori di accenti allitteranti, rimandosi in più profondi e scivolosi intarsi di sintagmi e sillabe, penetrando l’una con nuove baldanzose ed audaci idee negli accoglienti e morbidi panorami concettuali contemplati dall’altra, fondendo i rispettivi fluidi narrativi per dar vita ad una terza via stilistica che è fusione ed allo stesso tempo superamento verso una nuova espressività fino a quel momento ancora inaudita.
Parimenti, una scrittura non solo si nutre di realtà, si ciba di mondo, ma essa sa anche addentrarsi nelle cose sino a suggerne il senso più recondito. Paradossalmente, le cose, filtrate dalla parola scritta, assumono “dignità di cosa” ancor più alta di quanto non sia quella contenuta nelle cose stesse. Perché dell’accidentalità delle cose reali, le “cose scritte” si depurano (come non riesce a fare ad esempio la parola parlata, ancora ricca di “scorie” della particolarità del vissuto) per finire a significare solamente il midollo puro delle dinamiche vitali.
La pura mattina delle cose.

E qui lo so, cari amici viandanti per pensieri, che con la vostra encomiabile solerzia mi obbietterete di nuovo che nella pastasciutta che mi appresto a mangiare fra pochi minuti non ci saranno dentro dodici semplici lettere, ma un numero, si spera, ben più cospicuo di pennette rigate, belle corredate del loro preciso amido e della loro consustanziale farina…e va beh, va beh, ma lasciatemi dire allora che siete proprio intrattabili!!! (…scherzo, siete i lettori più adorabili che si possano avere: il mio "io" scritto si sente sempre proprio voluto bene dalle vostre attenzioni di lettori…e grazie!).



domenica 10 gennaio 2010

And I'm feeling very sick and ill today




Cari amici viandanti per pensieri, mi è pervenuta, a commento del mio scrittino precendente, un'impegnativa chiosa da parte di Ashasysley. Nel risponderle, mi sono accorto che stavo svacc...ehm...debordando notevolmente. Così ho pensato di pubblicare qui quella mia risposta. Tenete conto che è anche frutto di quattro giorni di influenza che mi ha debilitato parecchio nel fisico, ma soprattutto nella mente già di suo fortemente minata :-)
Per cui, vi chiedo di avere più pazienza del solito riguardo alla mia fumosità eccessiva...
Riporto prima il commento di Asha, e di seguito il mio sproloquio.

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Ashasysley said:
Credo la essere l'evento più difficile non quello di accettare il nostro mutevole essere, ma il nulla. E penso sia proprio questo che spinge le persone non a provare ciò che non si è o qualcun'altro. Ma a "provare" nel vero senso della parola. A volte il nulla ti avvolge, così stretto così forte e non riesci a liberarti. E come liberarsi dal nulla se non lo si trova. Si entra così in un'altra dimensione, chimica, nella quale si può finalmente riconoscere la propria casa fino a confondere la realtà con tutto quello che la nostra mente crea. E tutto questo diviene postosto e parallelo fino ad una totale inconsapevolezza. Il voler fuggire da ciò che si è, dalle emozioni che non si provano più, dalla monotonia di questo vivere che ad una certa età ti fa credere che non ci sia altro che ti possa entrare dentro (non di nuovo, non di nuovo). E non sei più disposto a condividere. Il piacere te lo prendi da solo, finquando si mischia. Tramutandosi in morte. Se non apparente, chimica.

(n.b. parola di verifica del commento UNREAL. Il caso non esiste...)

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@->Asha: commento assai impegnativo, questo tuo, Asha...allora, vediamo, che cosa dire?

Il nulla, filosoficamente parlando è categoria alquanto ostica, quasi un non-sense, per alcuni.
Posto che l'essere "è" (e su questo possiamo essere tutti concordi, anche assumendo il minimo gradino di essere concepibile, col cogito cartesiano, ossia l'essere del "se stesso", dell'ego), per accordare al nulla un qualche tipo di esistenza (e già qui la faccenda puzza forte...) si dovrebbero presupporre possibili passaggi dal nulla all'essere e viceversa. Ora, questo sarebbe possibile in una prospettiva extra-razionale, metafisica e trascendente (quella concessa dalla figura di un Dio creatore, al quale nessuno ci vieta di credere, sia ben chiaro), ma nell'ambito delle possibilità filosofiche in senso stretto, la cosa cigola parecchio.
Per paradosso mi è venuto da pensare che nel corso della storia c'è stata gente che ha sofferto così tanto che, per dirla in modo folkloristico, ci avrebbe messo la firma per poter essere precipitata all'istante nel nulla.
Ma il fatto è che la cosa non sembra così facile, a quanto pare.
L'annullamento di sè, lo spegnimento di ogni desiderio, di ogni volontà, di ogni propria identità circoscritta, sta alla base della ricerca di millenni di saggezza orientale, fra le altre cose. E sappiamo tutti la complessità immensa che sta dietro a quella tradizione.
Mi sovviene a proposito di tutto ciò anche una frase sentita una volta da Gianno Vattimo, che riferiva una battuta filosofica spietatamente ironica, pronunciata da un suo collega spagnolo, il quale, proprio su questa difficoltà umana di concepire il nulla, proprio riguardo a quella pervasività invadente dell'essere che così spesso ci sentiamo leopardianamente addosso (sia nel senso metaforico di sentire come una sorta di pelle di leopardo appiccicata a noi stessi, sia nel senso dell'angoscia leopardiana, del Leopardi), parafrasò la famosa frase evangelica in siffatta guisa: «Mio Dio, mio Dio, perchè "non" mi hai abbandonato».
La frase mi colpì parecchio, perchè l'ironia sembra roba da poco, ma spesso sa cogliere aspetti di verità più profonda di quanto non sappiano fare altri ambiti conoscitivi.
Chiudo dicendo solo che sulla saggezza della verifica blogspot, non ci sono mai dubbi: blogspot "sa" sempre!

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Ecco amici, come vedete non mi sono ancora bene ripigliato dall'influenza, ma prometto che la prossima volta cercherò di scrivere un po' più come mangio :-)


lunedì 4 gennaio 2010

Ed io tra di noi…che vi mangerei


Ma quante persone ci sono dentro ad una sola?
Metti quelli che si drogano, per dire. Ho sempre fatto fatica a capirli. Cercano di evadere in differenti dimensioni? Smaniano di tuffarsi in nuove personalità?
Ma prego, si accomodino, siore e siori! In “io” ci sono mille “me”: ne volete qualcuno in prestito?

Ci pensavo giusto in questi giorni di ripresa dei ritmi ordinari, reduce dal periodo di ego-elefantiasi festiva.

Nella vasta gamma dei “me” possibili, ci sono varietà di “me” materiali, ed assortimenti di “me” spirituali. Ossia, trasformazioni di “me” dettate da discrimini chimico-fisici, e caleidoscopiche mutazioni di “me” orchestrate invece da impalpabili scambi col reale.
Nel primo gruppo rientra di certo anche la sventagliata ad arcobaleno di “me”, molto prosaicamente provocata (“prosaicata”?) dalle abbuffate e dalle mollezze festive.
Stando a dotte fonti ancorate a saldissime basi culturali, pare che le date delle festività siano fissate sulla traccia di remotissime coincidenze astronomiche, solstizi di su, equinozi di giù. Molto più bovinamente, sono convinto che il ritmo dei festeggiamenti che cavalcano l’anno (Natale, S. Stefano, Capodanno, Befana) si sia invece andato a commisurare lungo i secoli sul grado di sopportazione esistenziale del gozzovigliatore medio. Da Natale alla Befana, passa il tempo giusto calcolato per non sfociare nell’alienazione gastro-identitaria.
In passato, dopo aver attraversato certe sessioni di natalizia apnea “gastronomico-poltronesca-cerebro-vacante”, mi sentivo come il protagonista di “2001: Odissea nello spazio”, nella leggendaria scena finale del film. Complice la pletora di degustazioni intensificate a velocità supersonica, nel volgere di pochissimo tempo, venivo risucchiato nel mutevole flusso dei mille “me” a condensazione ravvicinata, sino a ritrovarmi ad un passo dallo smarrimento eno-gastro-esistenziale, ad un gradino dall’overdose da sollecitazioni papillari, ad un soffio dal collasso assaggiante.

Il periodo festivo natalizio ti induce a riconsiderare con estrema attenzione l’aforisma «…Noi siamo ciò che mangiamo…», riveduto magari in senso lievemente più suinesco di quanto non fosse nelle intenzioni del Ludovico Feuerbach in persona.
C’è un diverso “me” che si annida dietro ogni antipasto ingurgitato, una nuova sfavillante personalità che fa capolino da un piatto fumante di tagliatelle, un inedito risvolto di “io” avvolto nel cartoccio della trota al forno.
Ti rendi proprio conto che l’attività del mangiare ti cambia, inzuppa il tuo “io” nella sequela di metamorfosi degli svariati “me” più impensati e sorprendenti.
Non solo dunque «…siamo ciò che mangiamo…», ma viene quasi da aggiungere che «…più mangiamo, più siamo…». L’avvicendamento dei gusti in bocca è un viaggio fascinoso attraverso i più svariati modi di essere se stessi.
Secondo alcuni, l’affinità morfologica fra le circonvoluzioni del cervello e le labirintiche spire intestinali, sottintenderebbe anche una simbolica correlazione operativo-funzionale fra i due organi. Ora, lasciando da parte per un attimo eventuali battute di bassa lega sulle idee di m… che certe menti sono in grado di partorire, ho sempre trovato questa teoria ricca di estremo fascino.
Se dunque l’assaporare pietanze su pietanze è paragonabile all’apprendere, al conoscere nuovi concetti, allo spaziare su originali orizzonti del sapere gustativo, il lavorio intestinale è invece rielaborazione mnemonica e meditativa, è rimuginare di pancia, è stratificazione di sapienza di trippa.
Sarà stato allora sulla scia di queste suggestioni, che poc’anzi, praticamente senza rifletterci, mi è venuto da chiamare l’esperienza gastronomica natalizia un’«apnea». Perché è proprio quasi senza fiato che ti sembra di sentirti mentre passi attraverso quel turbinio di “me” bolliti, lessati, salmistrati, farciti, impanati, arrostiti, ripieni, fritti, soffritti, mantecati, caramellati o pralinati.
Ed una volta terminate le feste, la ripresa dei ritmi normali, del tran tran del brodino ristretto, è esattamente identica alla spasmodica “ripresa” di fiato a cui è costretto il sub riemerso di botto dalla sua anaerobica planata a pelo dei fondali gastronomici tropicali.
Con un “me” misero e striminzito, un “me” fatto col dado, che però è purificazione e ristabilimento di equilibrio della nostra multiforme “personalità di pancia”.

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Avvertenza per chi non ha mai visto "Trainspotting": il seguente filmato contiene anche immagini piuttosto dure. Nella convinzione più piena della sua assoluta valenza estetica (ma questo non lo scopro di certo io...), è stato inserito qui solo in ossequio alla logica secondo la quale l'arte dell'andare per pensieri si nutre del "sincretismo" espressivo più articolato e dello spirito critico più libero. In ogni caso, se non ve la sentite, rinunciate alla visione.



sabato 2 gennaio 2010

Sculture di panna


Soffiava un vento gagliardo, oggi, su Gillipixiland.
Una brezza generosa, giunta a braccetto della radiosità dimenticata di un cielo semiprimaverile, quasi a preannunciare una festosità particolare nella rituale pennichella del dopo pranzo.
Mi sono predisposto alla ronfa fra lo sciabordio della risacca concettuale del «Mondo come volontà e rappresentazione», non prima di aver sbocconcellato alcune noccioline «Peanuts», e concedendo infine l'onore di farmi strada fra le braccia di Morfea (è la sorella di lui...sapete com'è, io la preferisco) alle vicende dei tre colpi apoplettici patiti da Lenin, nell'affascinante narrazione del podcast di Radio2 sulla vita di Stalin (poi dice che uno ha la mente confusa...).

Ad ogni modo, già...dev'essere stato proprio sul terzo ictus leniniano, che mi sono appisolato.


Al risveglio, l'usuale ampio abbraccio dell'argine mestro era stato a sua volta inghirlandato da una suprema corona di enormi nembi a cumulo.
Mi hanno sempre affascinato, le più grasse fra le nubi.
Non so come mai. Forse Jung avrebbe detto che rimandano a forme ataviche depositate fra i ferri vecchi archetipici dell'inconscio collettivo.
Di sicuro si adagia un quid di femminea abbondanza addensato nel loro fascino, un barocchismo muliebre, un ballonzolio di forme palleggianti fra il rubensiano ed il tizianesco.
O forse sono solo io ad avere particolarmente bisogno di una donna, in questa deriva spirituale post-natalizia. Eppure, alla mano ideale di un Canova pazzerello, allo zampino di un Bernini alticcio, non si può fare a meno di di dare la colpa, quando ci si mette ad ammirare quelle fumose ciccezze effimere volanti.


Si dice «avere la testa fra le nuvole».
Un'espressione che per molti potrà magari suonare pregna di sfumature denigratorie. Io l'ho sempre trovata simpatica, invece. L'ho sempre pensata appropriata a definire persone privilegiate. Quando hai la testa fra le nuvole, sei superiore alle miserie del mondo, vedi tutto in prospettiva lontana. Non ti preoccupa il contorno, ci sono le nuvole ad avvolgerti, e tu sei già oltre.
E l'«avere la testa fra le nuvole» l'ho sempre abbinato di preferenza proprio a questo tipo di nubi, i placidi giganti dallo spumoso candore, così mutevoli, gentili a concedere le loro adipose propaggini al cangiante capriccio del vento.

Proprio così. Soffiava un vento generoso, oggi, su Gillipixiland.