La cosa è capitata un po’ casualmente.
Nel periodo di Natale, mi ero visto
«La caduta», film che racconta le ultimissime ore del terrificante regime hitleriano. Da lì, mi è venuto voglia di approfondire ulteriormente l’argomento. Il fatto che questa sequela di interessi storici mi abbia colto proprio fra dicembre e gennaio, è stato dunque una coincidenza pura. Ma questo mi porta ora ad affrontare con animo diverso la giornata da alcuni anni tradizionalmente dedicata al ricordo dell’Olocausto.
Non è certo mia intenzione tentare nemmeno un timido abbozzo di sintesi dell’interessantissimo libro in questione. Primo perché non sono assolutamente un esperto della materia, per cui non mi azzarderei nemmeno ad addentrarmi più di tanto nel merito degli aspetti “tecnici”.
Secondo perché, non solo il contenuto è di una complessità e di una “diramazione” tematica straordinarie, ma rappresenta già esso stesso la grandiosa sintesi di una mole immane di documenti (diari, trascrizioni di discorsi, verbali di eventi ufficiali, atti del processo di Norimberga), completati per giunta da tantissime testimonianze dirette dell’autore, che fu prestigioso corrispondente dalla Germania per diversi quotidiani USA e per la radio, proprio nel pieno del periodo in questione, conoscendo di persona anche tantissimi protagonisti delle vicende trattate.
Per quel che vale la mia parola di profano dunque, supportata anche dall’avallo di qualcuno che in campo storiografico ha più autorevolezza di me (…grazie Yoss!), posso dire solo che si tratta di un gran bel libro (pur con alcuni limiti tipici dell’ancora “acerbo” clima culturale del secondo dopoguerra), consigliabile (se non ci si spaventa di fronte a circa 1700 pagine di lettura) a chi vuole saperne di più a proposito di uno dei deliri più folli nei quali l’umanità si sia avventurata nel corso della sua lunga vicenda.
Quel che posso tirar fuori io, sono invece alcune considerazioni volanti e probabilmente alquanto disordinate, com’è mia consuetudine.
Non nascondo che questo periodo storico ha sempre suscitato in me un certo interesse. Così come lo hanno sempre suscitato le vicende del totalitarismo sovietico, quelle della follia cambogiana, oppure i passaggi salienti della sanguinosa guerra del Vietnam, o ancora i fatti degli “anni di piombo” in Italia.
Mi sono chiesto spesso il perché.
Chi di voi di tanto in tanto ha letto anche solo qualche riga di ciò che scrivo qui su, avrà ormai capito che definirmi moderato è un eufemismo. Sarebbe più giusto dire che sono la stasi emotiva fatta persona. Un bradipo è cento volte più animoso di me, e probabilmente, un ettogrammo della mia flemma sarebbe bastato a mandare a carte quarantotto tutto l’impeto della Rivoluzione francese.
Eppure, come mai, al di là della normale curiosità che mi fa avvicinare un po’ a tantissime dimensioni dello scibile umano, proprio quei periodi così terribili e violenti sollecitano in maniera così particolare il mio desiderio di conoscere?
Una delle possibili risposte che mi vengono in mente potrebbe essere questa: il male è sì contraddistinto da una propria sconvolgente banalità, come disse Hannah Arendt. Il male è persino burocratico nella stupefacente “eccellenza” dei livelli di ottusità verso i quali è capace di spingersi.
Ma, nel suo modo diabolico e contorto, il male sa essere anche tremendamente “fascinoso”.
Questa cosa si evince in maniera eclatante dal fenomeno nazista. Per certi versi si può dire che quel regime fu concepito come una perfetta e tremendamente perversa “macchina estetica”.
Insieme alla coercizione fisica vera e propria, alla violenza pratica applicata sistematicamente per imporre la propria logica di sopraffazione antilibertaria, il nazismo vide essenzialmente fra le sue componenti principali anche una possente «irregimentazione» dell’immaginario di un popolo.
La consapevolezza dell’esistenza di questo fascino potenziale contorto e subdolo, aiuta già parecchio a difendersi da esso e a mantenersi all’erta riguardo al suo possibile strisciare “sottotraccia”, rinnovato in inediti fenomeni storici a venire.
Ma esiste comunque una “cartina di tornasole” particolare, capace di mettere in evidenza la natura ingannevole e fallace del fascino del male: la grazia e la sottigliezza dell’ironia storica.
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Ad un certo punto dell’avvincente narrazione di Shirer, vengono ricordati gli avvenimenti che si verificarono quando il fascino fasullo del male nazista si trovò a confrontarsi con il reale senso della bellezza vera, che non può essere composta da altri ingredienti che non siano la tensione (sempre a carattere asintotico: è importante!) verso il vero e verso il giusto, e l’amore più disinteressato per i valori della libertà dello spirito.
Su tantissime questioni il nazismo riuscì ad ingannare il popolo tedesco (che, non va dimenticato, a buona parte di quella sciagurata avventura concedette il proprio “complicato” consenso), ma non riuscì a renderlo completamente cieco di fronte alle espressioni genuine del “bello” reale.
Racconta ad esempio Shirer di come il regime si oppose alla ricerca estetica dell’arte moderna. Questo frangente storico merita di essere menzionato per i suoi risvolti grotteschi, che se non fossero legati all’angosciosa tragedia di tutto quel periodo, si potrebbero quasi considerare straripanti ben addentro l’ambito di competenza della comicità.
Per ordine di Hitler, i principali musei del Reich vennero “epurati” di molti capolavori di quella che nel farneticante linguaggio del regime era definita “arte degenerata”. 6500 importanti dipinti dei più grandi autori, fra i quali Grozs, Kokoschka, pezzi inestimabili dell’Espressionismo tedesco, Van Gogh, Cézanne, Gauguin, Matisse, Picasso, molti impressionisti, vennero nascosti al pubblico, messi al bando per imporre il monopolio dell’unica arte che nella logica malata di quei pazzi poteva considerarsi degna di essere chiamata con questo nome. Una grande raccolta di queste tronfie croste di autori di “pura ispirazione ariana”, grondanti nauseabonda retorica ed irritante servilismo culturale, venne radunata per indicare al popolo la “vera via” dell’arte.
Ci racconta Shirer che nemmeno lo stesso Hitler, recatosi a visitare privatamente in anteprima l’accozzaglia di banalità e squallori, riuscì a tollerare la sensazione soffocante di schifezza che promanava da quei pezzi di tela impiastricciati, e in un accesso irrefrenabile di sincerità, sferrò liberatori calcioni nel bel mezzo di più d’uno di questi dipinti espressione della “nuova arte germanica”, proprio grandi pedate ben assestate con i suoi stivaloni totalitari, aprendoci sopra puri squarci ariani. Come dicevo prima, se dietro non ci fosse tutta la tragedia che sappiamo, ad immaginare la scena di un Führer incacchiato che scalcia contro i sommi capolavori dell’eccelsa arte di regime, ci sarebbe da schiantarsi dalle risate.
Ma non finì qui.
Il perfido ministro della propaganda del Reich, il claudicante dottor Joseph Goebbels, rifulgente di tutta la sua storpia perfezione ariana, pensò bene di organizzare, con tutte le vere opere d’arte moderna sequestrate, una seconda esposizione. Lo scopo era quello di offrire alla gente una chiara dimostrazione della “degenerazione” degli artisti banditi. Andò a finire che la “contro-mostra” fu un successo incredibile.
Lo stratega culturale del Reich, dopo essersi roso etti ed etti di fegato, si trovò costretto a chiudere in fretta e furia l’esposizione, per mettere fine all’afflusso di folla assetata di bellezza vera, affamata della libertà di esprimersi e di pensare.
Destino non tanto dissimile toccò agli altrettanto mefitici lungometraggi di regime, che venivano addirittura fischiati nelle sale, tanto erano tediosi, stucchevoli ed inutili, mentre le poche innocue pellicole americane lasciate passare dalla censura, pur nell’inoffensività della loro pochezza, venivano avidamente assorbite dagli spettatori come dalle sabbie di un deserto afflitto da una terribile arsura estetica.
Leggendo queste cose, pur nella mestizia di fondo, il mio cuore sorrideva. E il mio ingenuo animo mi ripeteva che sì, il male può spuntarla in tante ed anche terribili battaglie, ma mai risultare vincitore definitivo nella grande contesa della vita.
Il male non è mai portatore di nessuna bellezza. Non lo può essere. Il suo è molto più rozzamente e sbrigativamente il fascino che potrebbe emanare da un «energumeno estetico». Il fascino del male è un eccitante capace di smuovere solo le superfici più “elettriche” dell’esistenza, senza mai riuscire a calarsi nei fondali più segreti e misteriosi, laddove la verità ha la sua casa. Elettricità del male, che inevitabilmente incappa in un corto circuito, quando nella presa di corrente fissata sul muro delle varie epoche degli uomini, prima o poi va ad infilarsi quella dispettosa forcina per capelli che è l’ironia storica.