L’altro giorno, mi gustavo l’immersione nella lettura di uno degli ultimi romanzi di Philip Roth, quando sono stato stuzzicato da un’ideuzza oziosa. Così mi sono detto: perché non allietare ancora una volta i miei cari amici viandanti per pensieri con uno sfavillante sproloquio nuovo di trinca? (e poi dite che non sono un amico…).
Il romanzo in questione non è esattamente l’ultimissimo di Philip Roth. Si tratta invece di «Il fantasma esce di scena» («Exit ghost»), del 2007. Lo preciso, perché quando hai a che fare con Philip Roth, si può prendere in prestito a pieno titolo la famigerata battuta di Beppe Grillo sui computer e i dispositivi elettronici in generale.
Entri dal rivenditore iper specializzato e puoi fare di tutto per accaparrarti l’ultimissimo tipo di pc, con tutta la RAM che si può, Pentium a rotta di collo, Intel inside e outside, Centrino duo, trio e persino all’uncinetto, ma stai sicuro che puntualmente, appena messo fuori il piede dal negozio, trovi il tuo più caro amico che, data un’occhiata furtiva allo scatolone che stai reggendo, ti fa: «…Ah…hai preso il modello vecchio...».
Una cosa simile potrebbe succederti con Philip Roth.
Dopo il romanzo che sto leggendo io, ne avrà già scritti altri tre o quattro. Sembra una cosa buffa, a dirsi, quasi vi stessi parlando di un ordinario best-selleraro, uso a sfornare romanzetti d’appendice dalle ampie vendite ma dalle scarse vedute.
Invece la verità è che Philip Roth non sbaglia un colpo. Ogni volta si produce in un’opera complessa, densa di nuove fulgide illuminazioni proiettate sugli strambi meccanismi interni di questo bizzarro veicolo a bordo del quale ciascuno di noi è stato costretto a salire, venendo in seguito incidentalmente a sapere che si chiamava vita.
Ma qui si cincischia, qui si bastona il can per l’aia.
Veniamo al dunque, che sarà meglio.
Vi dicevo della mia micro-ideonzola scaturita leggendo «Il fantasma esce di scena». Protagonista della storia è lo scrittore Nathan Zuckerman, alter-ego romanzesco dello stesso Roth, che utilizza questo personaggio, suo parallelo di fantasia, per poter parlare in realtà di sé medesimo. Il nostro è già comparso come protagonista in altri 5 romanzi (Lo scrittore fantasma - The Ghost Writer, 1979; Zuckerman scatenato - Zuckerman Unbound, 1981; La lezione di anatomia - The Anatomy Lesson, 1983 - L'orgia di Praga - The Prague Orgy, 1985; La controvita - The Counterlife, 1986), e come voce narrante in altri 3 (Pastorale americana - American Pastoral, 1997; Ho sposato un comunista - I Married a Communist, 1998; La macchia umana - The Human Stain, 2000).
Gli ultimi tre li ho letti tutti, e sono eccezionali; dei primi invece me ne manca qualcuno, ma quel che conta è che ad un certo punto mi è venuto da chiedermi: siccome questi romanzi compongono alla fine dei conti un’unica storia articolata, possibile che lungo tutta questa trama disseminata nel corso degli anni, non ci si possa trovare mai un’incongruenza?
Non era scetticismo verso Philip Roth. Su di lui vado in fiducia, le sue trame risultano talmente “scolpite” da un punto di vista narrativo, e precise, da darmi praticamente la certezza che l’eventualità di elementi discordanti nelle vicende di Zuckerman sia pressoché nulla. Si trattava piuttosto di una considerazione generale, riguardo la struttura di una creazione artistica intesa in senso universale.
Il fondamentale dubbio esistenziale mi ha tuttavia tenuto in sospeso esattamente 5 secondi virgola 3. Perché al quarto decimo di secondo immediatamente successivo, mi è venuta in mente «La grande odalisca» di Ingres, la quale mi ha altresì invitato a pensare che se mai qualcuno si fosse preso la briga di appurare la coerenza di fatti, date e luoghi immaginati lungo tutta la “saga Zuckerman”, sarebbe stato di certo uno che aveva ancor più tempo da perdere di me.
Che minchia c’entra «La grande odalisca»?
C’entra per quello che a proposito del celeberrimo dipinto sentii dire una volta da qualche parte (il rigore delle fonti innanzitutto!...), ossia che il buon Jean-Auguste-Dominique Ingres, con quel maestoso ignudo tronco, intendeva esprimere un certo “concetto formale” e se ne sbatté persino dell’anatomia umana pur di dar vita a quel gran pezzo di curva parabolica femminile, così come l’aveva pensata lui. Ad un occhio esperto di “viti e bulloni” anatomici, non sfugge infatti che se la statuaria ragazzona, anziché di olio su tela fosse stata fatta di carne ed ossa, avrebbe dovuto avere una, o due, o forse anche più vertebre supplementari.
Quello che voglio sottolineare insomma sarebbe questo: l’arte vive di una sua coerenza autonoma, che il più delle volte sarà in accordo con la sensatezza del mondo. Ma molte altre volte potrà forzare la logicità reale per ragioni estetiche sue interne, senza che questo possa sminuire le virtù artistiche di un’opera.
E alla fine, cari amici viandanti per pensieri, vi domanderete: ma perché è venuto a raccontarci queste balle? Di preciso non ve lo so dire. Forse solo per il fatto che quando me ne sto a letto semisonnolento, post-prandiale e pre-pennichelloso, esaltandomi per qualche meditazione scaturita dalle pagine di un libro, quei momenti mi sembrano così belli che mi piacerebbe foste tutti lì insieme a me.
Come dite? Nel mio letto non ci staremmo tutti insieme?
E chi se ne frega: se Ingres poteva fare una schiena con tante vertebre quante gliene suggeriva lo sghiribizzo del momento, io non posso dare una festa nel mio letto invitando tutta la gente che mi pare?
Il romanzo in questione non è esattamente l’ultimissimo di Philip Roth. Si tratta invece di «Il fantasma esce di scena» («Exit ghost»), del 2007. Lo preciso, perché quando hai a che fare con Philip Roth, si può prendere in prestito a pieno titolo la famigerata battuta di Beppe Grillo sui computer e i dispositivi elettronici in generale.
Entri dal rivenditore iper specializzato e puoi fare di tutto per accaparrarti l’ultimissimo tipo di pc, con tutta la RAM che si può, Pentium a rotta di collo, Intel inside e outside, Centrino duo, trio e persino all’uncinetto, ma stai sicuro che puntualmente, appena messo fuori il piede dal negozio, trovi il tuo più caro amico che, data un’occhiata furtiva allo scatolone che stai reggendo, ti fa: «…Ah…hai preso il modello vecchio...».
Una cosa simile potrebbe succederti con Philip Roth.
Dopo il romanzo che sto leggendo io, ne avrà già scritti altri tre o quattro. Sembra una cosa buffa, a dirsi, quasi vi stessi parlando di un ordinario best-selleraro, uso a sfornare romanzetti d’appendice dalle ampie vendite ma dalle scarse vedute.
Invece la verità è che Philip Roth non sbaglia un colpo. Ogni volta si produce in un’opera complessa, densa di nuove fulgide illuminazioni proiettate sugli strambi meccanismi interni di questo bizzarro veicolo a bordo del quale ciascuno di noi è stato costretto a salire, venendo in seguito incidentalmente a sapere che si chiamava vita.
Ma qui si cincischia, qui si bastona il can per l’aia.
Veniamo al dunque, che sarà meglio.
Vi dicevo della mia micro-ideonzola scaturita leggendo «Il fantasma esce di scena». Protagonista della storia è lo scrittore Nathan Zuckerman, alter-ego romanzesco dello stesso Roth, che utilizza questo personaggio, suo parallelo di fantasia, per poter parlare in realtà di sé medesimo. Il nostro è già comparso come protagonista in altri 5 romanzi (Lo scrittore fantasma - The Ghost Writer, 1979; Zuckerman scatenato - Zuckerman Unbound, 1981; La lezione di anatomia - The Anatomy Lesson, 1983 - L'orgia di Praga - The Prague Orgy, 1985; La controvita - The Counterlife, 1986), e come voce narrante in altri 3 (Pastorale americana - American Pastoral, 1997; Ho sposato un comunista - I Married a Communist, 1998; La macchia umana - The Human Stain, 2000).
Gli ultimi tre li ho letti tutti, e sono eccezionali; dei primi invece me ne manca qualcuno, ma quel che conta è che ad un certo punto mi è venuto da chiedermi: siccome questi romanzi compongono alla fine dei conti un’unica storia articolata, possibile che lungo tutta questa trama disseminata nel corso degli anni, non ci si possa trovare mai un’incongruenza?
Non era scetticismo verso Philip Roth. Su di lui vado in fiducia, le sue trame risultano talmente “scolpite” da un punto di vista narrativo, e precise, da darmi praticamente la certezza che l’eventualità di elementi discordanti nelle vicende di Zuckerman sia pressoché nulla. Si trattava piuttosto di una considerazione generale, riguardo la struttura di una creazione artistica intesa in senso universale.
Il fondamentale dubbio esistenziale mi ha tuttavia tenuto in sospeso esattamente 5 secondi virgola 3. Perché al quarto decimo di secondo immediatamente successivo, mi è venuta in mente «La grande odalisca» di Ingres, la quale mi ha altresì invitato a pensare che se mai qualcuno si fosse preso la briga di appurare la coerenza di fatti, date e luoghi immaginati lungo tutta la “saga Zuckerman”, sarebbe stato di certo uno che aveva ancor più tempo da perdere di me.
Che minchia c’entra «La grande odalisca»?
C’entra per quello che a proposito del celeberrimo dipinto sentii dire una volta da qualche parte (il rigore delle fonti innanzitutto!...), ossia che il buon Jean-Auguste-Dominique Ingres, con quel maestoso ignudo tronco, intendeva esprimere un certo “concetto formale” e se ne sbatté persino dell’anatomia umana pur di dar vita a quel gran pezzo di curva parabolica femminile, così come l’aveva pensata lui. Ad un occhio esperto di “viti e bulloni” anatomici, non sfugge infatti che se la statuaria ragazzona, anziché di olio su tela fosse stata fatta di carne ed ossa, avrebbe dovuto avere una, o due, o forse anche più vertebre supplementari.
Quello che voglio sottolineare insomma sarebbe questo: l’arte vive di una sua coerenza autonoma, che il più delle volte sarà in accordo con la sensatezza del mondo. Ma molte altre volte potrà forzare la logicità reale per ragioni estetiche sue interne, senza che questo possa sminuire le virtù artistiche di un’opera.
E alla fine, cari amici viandanti per pensieri, vi domanderete: ma perché è venuto a raccontarci queste balle? Di preciso non ve lo so dire. Forse solo per il fatto che quando me ne sto a letto semisonnolento, post-prandiale e pre-pennichelloso, esaltandomi per qualche meditazione scaturita dalle pagine di un libro, quei momenti mi sembrano così belli che mi piacerebbe foste tutti lì insieme a me.
Come dite? Nel mio letto non ci staremmo tutti insieme?
E chi se ne frega: se Ingres poteva fare una schiena con tante vertebre quante gliene suggeriva lo sghiribizzo del momento, io non posso dare una festa nel mio letto invitando tutta la gente che mi pare?
8 commenti:
Il titolo e' dadaismo puro.
O un cilum con mezz'etto di afgano nero.
Complimenti in entrambi i casi.
Philip Roth non lo conosco bene, grazie per la dritta.
@->Yossarian: ehehehehehe, grazie Yoss :-) Il problema è che quando scrivo sono sobrio come lattante...è questo che, volendo, potrebbe provocare più inqiuetudini
:-)
Ho sempre molte remore a consigliare delle letture, perchè la soggettività dei gusti gioca sempre un ruolo forte...posso solo dirti che per me Philip Roth è il più grande romanziere vivente...se per caso ti va di approfondirlo, ti direi di iniziare da "Lamento di Portnoy"...oh, magari ti fa schifo, non so :-)
Ciao Yoss :-)
uhmmm una festa da te, con te, il tuo alter ego gattesco, poi yossarian con il tama, rachel, scodinzola, emrose etc etc, più tutta la chimera... tutti a ballare con te... uhm ho capito sei un gestore di trattoria, eh sì, perché si sa che due corpi non possono occupare simultaneamente lo stesso spazio e che questo principio, come garantito da woody allen, non è accettato dai gestori di trattorie.... spettacolare scelta musicale epost
baci farlocchi
Philip Roth... grazie del suggerimento.
Una festa da te.... interessante. E ti dirò.... si potrebbe anche fare, almeno virtualmente.
Ci si potrebbe trovare tutti sul tuo post a fare commenti il tal giorno alla tal ora.
Che ne dici?
Buffetti ispiratori
@->Farly: :-) ebbene sì, Farly...non ti posso nascondere nulla...mi hai scoperto: "Da gillipixel - Trattoria piatti tipici e cucina macrobiotica - L'ideale per la dieta", specialità: zampone farcito di trippa con contorno di fagioli borlotti e cotiche in bisunto al fior di strutto :-D
Grazie e Bacini ipercalorici :-)
@->Scodinzola: eheheheh, Scodi, la tua proposta è molto carina, ma non so se si può fare, forse non ne sono degno :-) non sono propriamente quel genere di trascinatore carisamtico alla Orson Welles, che potrebbe indurre un insieme di persone a fare un gesto all'unisono :-)
Già se non mi arrivano delle pernacchie per me è un buon risultato :-) Per il resto, siete tutti idealmente vicini quando scrivo qui su :-) questo sì :-)
Bacini alla Orson Welles mancato :-)
In questi giorni sto leggendo "Addio, Columbus", vecchia raccolta di racconti ed Bompiani del 1960, le pagine sono gialline ai margini e la copertina farebbe la tua felicità, Gilli, è morbida come un divanone di velluto.
Roth, quando scrive, ti tiene nel suo mondo. Bello o brutto che sia, non ne vuoi uscire. Tipico dei grandi, direi ;)
Ti fa quasi sentire la luce dorata della sera sulle foglie...
Vale, quanto hai ragione! :-)
Se penso che sono riuscito a leggere pagine di Pastorale americana, che scritte da chiunque altro mi avrebbero fatto cacciare il libro contro il muro... :-) ricordi la parte della descrizione della manifattura dei guanti?...la "lanzetta" e tutti quei dettagli teoricamente iper-barbosi?
Ma con lui no, niente risulta barboso, è sempre una gioia narrativa continua...
"...Ti fa quasi sentire la luce dorata della sera sulle foglie..."
esatto, è proprio così, hai detto in modo stupendo :-)
La tua descrizione di quella vecchia edizione Addio Columbus mi ha dato un gran senso di familiarità...molto bello :-) Mi manca, nel mio carnet di letture di Roth...ormai si trova solo in biblioteca mi sa...
Niente, grazie della visita, Vale :-)
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