Essendo cresciuto con una determinata “climatizzazione estetica” diffusa nell’aria che respiravo (anni 70-80 e dintorni), è stato forse inevitabile che in me si sviluppasse la “sindrome dell’occasione mancata”.
Tanto per cominciare, vi fornisco un dato che di per sé già basterebbe ed avanzerebbe ad introdurre i dati fondamentali a sostegno di tutta la mia tesi.
Ricordo un’infausta mattinata delle tante mie trascorse provando a diventare grande fra le care e vecchie quattro mura delle scuole elementari, durante la quale io ed i miei imberbi compagnucci venimmo sadicamente sottoposti ad uno dei più perversi “trattamenti culturali” immaginabili per dei bambini fino ad allora ancora fiduciosi del futuro e delle sue indistinte promesse: la visione del film «L’albero di Natale».
Se avete avuto la pazienza di dare un’occhiata alla trama, non serve aggiungere altro…
Il fatto è che a quei tempi, anche l’ultimo straccio di “creativo” che si accingesse a metter mano ad una storia, sentiva dentro sé una sorta di imperativo morale narrante, che gli imponeva di farla finire male.
Oh…per carità: ne sono scaturiti anche capolavori impagabili, tipo «Un uomo da marciapiede», «Qualcuno volò sul nido del cuculo», «Il cacciatore», «L’ultima corvè».
Ma una volta letta siffatta sequela, chi di voi non concorda sul pan-pessimismo assolutizzante di quel periodo, alzi pure la mano. Sempre ammesso che ne abbia ancora una libera da gestualità apotropaiche e toccatine varie allungate in vari punti corporali strategici.
Anche i fumetti ci si mettevano. Sia che trattassero atmosfere ironiche, sia che esulassero da contenuti faceti, erano per lo più impostati secondo lo spirito del “niente vie di scampo”.
Due esempi per tutti.
Per il reparto “ridanciano”, cito il grande Alan Ford, tra le altre cose un vero e proprio inno alla irrealizzabilità di ogni desiderio.
Per il reparto “serioso” invece, riporto un personaggio minore che solo gli incalliti lettori dell’«Intrepido» ricorderanno, nel cui nome era già contenuto tutto un gioioso programma: Sorrow. Un investigatore privato che già non fosse stato sufficiente il nome, per soprammercato si presentava con le giulive sembianze di un Humphrey Bogart costantemente allietato da uno sguardo luttuoso.
E potrei infierire di questo passo, annoverando ancora «Doctor Who», «Spazio 1999», «Capitan Harlock», «Il prigioniero», «La baronessa di Carini», il Pinocchio di Comencini, Demis Roussos, il Comandante Straker e le impiegate lunari dai capelli viola di «U.F.O.», la 127 Rustica, i Santo California, «Il prigioniero», «Belfagor», «Ritratto di donna velata», oppure il «Dolce Remì» (e pensate un po’ se lo facevano amaro).
Per i più increduli che non hanno vissuto in prima persona quel “clima spensierato” (e magari a questo punto staranno pensando: «…Öööh…ma che esagerato!... »), riporto un breve stralcio delle vicende di Remì, ripreso da wikipedia, solo un rapido riassunto dell’inizio trama:
«…Il padre [di Remì] lavora come muratore a Parigi e manda i pochi soldi che guadagna alla moglie in paese, ma un brutto giorno si infortuna cadendo da un'impalcatura, rimanendo invalido al lavoro. Fa causa al padrone del cantiere spendendo tutti i soldi della famiglia nel processo, ma la perde: la famiglia è completamente rovinata ed è costretta a vendere l'unica mucca per ripagare i debiti…»
Ecco: e poi sono io che esagero…no…roba che solo a sentirne parlare, niente niente ad uno gli vien voglia di volare di filato a Casablanca a farsi trapiantare un terzo coglione per aver più superficie scaramantica da toccare!
Capite dunque bene che dopo una cura formativa del genere, una povera mente in via di consolidamento non poteva venirne fuori con un animo propriamente speranzoso. Era già un risultato buono se si convinceva che la vita è tutta una sequenza di occasioni perdute. E gli andava ancora di lusso.
Ed è un po’ in questo modo che credo di esserne uscito io
Tanto che a volte, fra le pieghe del tempo che cammina, mi pare addirittura che tutto ciò sia quasi passato lievemente in second’ordine. Ma poi succedono piccoli episodi che mi fanno da pro-memoria rispetto alle mie radici affondate in quel lontano e sfiducioso humus estetico-educativo.
Come la deliziosa debacle fotografica che pochi giorni orsono ho dovuto mandar giù senza masticare.
Il fatterello ha avuto luogo sull’argine di Gillipixiland. E’ stato lo scorso lunedì dell’Angelo. Approfittando di una delle poche giornate assolate ed un po’ tiepide dopo eoni di gelo e cieli scorbutici come l’umore di Martin Scortese (cit. radiofonica da «Sei Uno Zero», con Lillo e Greg), ho inforcato la fidata Gillibike e imbracciando la macchina fotografica, mi sono inoltrato alla volta delle plaghe naturalistiche del circondario (va beh: fra quei quattro campi spelacchiati…).
Si stava bene, la brezza soffiava alle spalle e pedalavo contento, con l’mp3 che mi ispirava direttamente nei timpani l’inquadratura più bella, lo scorcio di verde più smeraldino, l’infilata di pioppi più scapigliati dal vento, il reticolo di canali irrigui più mondrianeggiante (nel senso di Piet Mondrian).
Avevo già messo nel carniere una decina di scatti succulenti, quando, per la barba di Sardanapalo, incappo in un fastidioso imprevisto: smeeeooowww...batterie a terra, macchina fotografica knock out.
Poco male, penso. Il paesaggio me lo gusto uguale e poi è più appassionante così: lasciare che la bellezza viva per quei pochi attimi, nella fuggevole essenza che le è propria, senza l’illusoria pretesa di volerla fermare in fotogrammi ingannevoli nella loro staticità iniqua e falsificatoria.
Insomma, lo sapete anche voi: un po’ tutte quelle balle che ci si auto-racconta per parare i colpi della sfiga, cercando di illudere se stessi che si tratti invece di inverosimili botte di culo travestite male.
Ma non avevo fatto in tempo a pedalare ancora un paio di kilometri, beandomi della mia innocenza iconoclasta riconquistata, quando con implacabile puntualità la “bilancia degli eventi” ha pensato bene di spingere nuovamente bene a fondo uno dei suoi piatti, assumendo le sembianze di un elegantissimo falchetto che volteggiava ad ali spiegate pochi metri sopra la mia testa.
Nella mia fedele borsinina a tracolla, ho potuto a quel punto sentire il teleobiettivo che ululava con dolore neorealista e la macchina fotografica che schiumava pixel di rabbia, nella sua impotenza energetica momentanea. Non ci potrei giurare, ma mi è persino parso che il falchetto, accomiatandosi da me con una planata di classe che lo portava al largo, verso una delle tante anse del fiume, si attardasse un attimo ripiegando la punta di un’ala sulla metà dell’altra, in quello che doveva essere un garbato piccolo gesto dell’ombrello forse in uso negli ambienti ornitologici più raffinati.
A quel punto non mi è rimasto altro che girare la bici ed avviarmi col teleobiettivo fra le gambe verso casa, “feeling the Seventy pool”. Ritrovandomi poi a sbuffare sui pedali con un gagliardo vento contrario che sembrava sussurrarmi all’orecchio: «…Gli anni ’70 sono come gli esami: non finiscono mai!...».
Cosa dire ancora per concludere, cari amici viandanti per pensieri?
Solo un’ultima, lieve considerazione.
Sull’onda della celeberrima frase di Albert Camus, «Se il mondo fosse chiaro, l'arte non esisterebbe», molto più modestamente io vi saluto constatando con “buffarda” leggerezza, che «Se la vita avesse un senso logico, non esisterebbero i tifosi di calcio».
Parola di interista pre-bersellinita (*).
Bordon, Baresi, Oriali, Pasinato, Mozzini, Bini, Caso, Marini, Altobelli, Beccalossi, Muraro. Riserve: Ambu, Canuti, Cipollini, Occhipinti, Pancheri.
Tanto per cominciare, vi fornisco un dato che di per sé già basterebbe ed avanzerebbe ad introdurre i dati fondamentali a sostegno di tutta la mia tesi.
Ricordo un’infausta mattinata delle tante mie trascorse provando a diventare grande fra le care e vecchie quattro mura delle scuole elementari, durante la quale io ed i miei imberbi compagnucci venimmo sadicamente sottoposti ad uno dei più perversi “trattamenti culturali” immaginabili per dei bambini fino ad allora ancora fiduciosi del futuro e delle sue indistinte promesse: la visione del film «L’albero di Natale».
Se avete avuto la pazienza di dare un’occhiata alla trama, non serve aggiungere altro…
Il fatto è che a quei tempi, anche l’ultimo straccio di “creativo” che si accingesse a metter mano ad una storia, sentiva dentro sé una sorta di imperativo morale narrante, che gli imponeva di farla finire male.
Oh…per carità: ne sono scaturiti anche capolavori impagabili, tipo «Un uomo da marciapiede», «Qualcuno volò sul nido del cuculo», «Il cacciatore», «L’ultima corvè».
Ma una volta letta siffatta sequela, chi di voi non concorda sul pan-pessimismo assolutizzante di quel periodo, alzi pure la mano. Sempre ammesso che ne abbia ancora una libera da gestualità apotropaiche e toccatine varie allungate in vari punti corporali strategici.
Anche i fumetti ci si mettevano. Sia che trattassero atmosfere ironiche, sia che esulassero da contenuti faceti, erano per lo più impostati secondo lo spirito del “niente vie di scampo”.
Due esempi per tutti.
Per il reparto “ridanciano”, cito il grande Alan Ford, tra le altre cose un vero e proprio inno alla irrealizzabilità di ogni desiderio.
Per il reparto “serioso” invece, riporto un personaggio minore che solo gli incalliti lettori dell’«Intrepido» ricorderanno, nel cui nome era già contenuto tutto un gioioso programma: Sorrow. Un investigatore privato che già non fosse stato sufficiente il nome, per soprammercato si presentava con le giulive sembianze di un Humphrey Bogart costantemente allietato da uno sguardo luttuoso.
E potrei infierire di questo passo, annoverando ancora «Doctor Who», «Spazio 1999», «Capitan Harlock», «Il prigioniero», «La baronessa di Carini», il Pinocchio di Comencini, Demis Roussos, il Comandante Straker e le impiegate lunari dai capelli viola di «U.F.O.», la 127 Rustica, i Santo California, «Il prigioniero», «Belfagor», «Ritratto di donna velata», oppure il «Dolce Remì» (e pensate un po’ se lo facevano amaro).
Per i più increduli che non hanno vissuto in prima persona quel “clima spensierato” (e magari a questo punto staranno pensando: «…Öööh…ma che esagerato!... »), riporto un breve stralcio delle vicende di Remì, ripreso da wikipedia, solo un rapido riassunto dell’inizio trama:
«…Il padre [di Remì] lavora come muratore a Parigi e manda i pochi soldi che guadagna alla moglie in paese, ma un brutto giorno si infortuna cadendo da un'impalcatura, rimanendo invalido al lavoro. Fa causa al padrone del cantiere spendendo tutti i soldi della famiglia nel processo, ma la perde: la famiglia è completamente rovinata ed è costretta a vendere l'unica mucca per ripagare i debiti…»
Ecco: e poi sono io che esagero…no…roba che solo a sentirne parlare, niente niente ad uno gli vien voglia di volare di filato a Casablanca a farsi trapiantare un terzo coglione per aver più superficie scaramantica da toccare!
Capite dunque bene che dopo una cura formativa del genere, una povera mente in via di consolidamento non poteva venirne fuori con un animo propriamente speranzoso. Era già un risultato buono se si convinceva che la vita è tutta una sequenza di occasioni perdute. E gli andava ancora di lusso.
Ed è un po’ in questo modo che credo di esserne uscito io
Tanto che a volte, fra le pieghe del tempo che cammina, mi pare addirittura che tutto ciò sia quasi passato lievemente in second’ordine. Ma poi succedono piccoli episodi che mi fanno da pro-memoria rispetto alle mie radici affondate in quel lontano e sfiducioso humus estetico-educativo.
Come la deliziosa debacle fotografica che pochi giorni orsono ho dovuto mandar giù senza masticare.
Il fatterello ha avuto luogo sull’argine di Gillipixiland. E’ stato lo scorso lunedì dell’Angelo. Approfittando di una delle poche giornate assolate ed un po’ tiepide dopo eoni di gelo e cieli scorbutici come l’umore di Martin Scortese (cit. radiofonica da «Sei Uno Zero», con Lillo e Greg), ho inforcato la fidata Gillibike e imbracciando la macchina fotografica, mi sono inoltrato alla volta delle plaghe naturalistiche del circondario (va beh: fra quei quattro campi spelacchiati…).
Si stava bene, la brezza soffiava alle spalle e pedalavo contento, con l’mp3 che mi ispirava direttamente nei timpani l’inquadratura più bella, lo scorcio di verde più smeraldino, l’infilata di pioppi più scapigliati dal vento, il reticolo di canali irrigui più mondrianeggiante (nel senso di Piet Mondrian).
Avevo già messo nel carniere una decina di scatti succulenti, quando, per la barba di Sardanapalo, incappo in un fastidioso imprevisto: smeeeooowww...batterie a terra, macchina fotografica knock out.
Poco male, penso. Il paesaggio me lo gusto uguale e poi è più appassionante così: lasciare che la bellezza viva per quei pochi attimi, nella fuggevole essenza che le è propria, senza l’illusoria pretesa di volerla fermare in fotogrammi ingannevoli nella loro staticità iniqua e falsificatoria.
Insomma, lo sapete anche voi: un po’ tutte quelle balle che ci si auto-racconta per parare i colpi della sfiga, cercando di illudere se stessi che si tratti invece di inverosimili botte di culo travestite male.
Ma non avevo fatto in tempo a pedalare ancora un paio di kilometri, beandomi della mia innocenza iconoclasta riconquistata, quando con implacabile puntualità la “bilancia degli eventi” ha pensato bene di spingere nuovamente bene a fondo uno dei suoi piatti, assumendo le sembianze di un elegantissimo falchetto che volteggiava ad ali spiegate pochi metri sopra la mia testa.
Nella mia fedele borsinina a tracolla, ho potuto a quel punto sentire il teleobiettivo che ululava con dolore neorealista e la macchina fotografica che schiumava pixel di rabbia, nella sua impotenza energetica momentanea. Non ci potrei giurare, ma mi è persino parso che il falchetto, accomiatandosi da me con una planata di classe che lo portava al largo, verso una delle tante anse del fiume, si attardasse un attimo ripiegando la punta di un’ala sulla metà dell’altra, in quello che doveva essere un garbato piccolo gesto dell’ombrello forse in uso negli ambienti ornitologici più raffinati.
A quel punto non mi è rimasto altro che girare la bici ed avviarmi col teleobiettivo fra le gambe verso casa, “feeling the Seventy pool”. Ritrovandomi poi a sbuffare sui pedali con un gagliardo vento contrario che sembrava sussurrarmi all’orecchio: «…Gli anni ’70 sono come gli esami: non finiscono mai!...».
Cosa dire ancora per concludere, cari amici viandanti per pensieri?
Solo un’ultima, lieve considerazione.
Sull’onda della celeberrima frase di Albert Camus, «Se il mondo fosse chiaro, l'arte non esisterebbe», molto più modestamente io vi saluto constatando con “buffarda” leggerezza, che «Se la vita avesse un senso logico, non esisterebbero i tifosi di calcio».
Parola di interista pre-bersellinita (*).
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(*) = rara tipologia di interista che non riconosce nessuna formazione dell’Inter posteriore a quella allenata da Eugenio Borsellini, vincitrice del campionato 1979-80:Bordon, Baresi, Oriali, Pasinato, Mozzini, Bini, Caso, Marini, Altobelli, Beccalossi, Muraro. Riserve: Ambu, Canuti, Cipollini, Occhipinti, Pancheri.
6 commenti:
ma gilly questo post è un capolavoro! ho riso crepare dopo 4 righe. sì sì gli anni 70 erano la summa della summa della sfiga, sì sì se non erano sfigati i personaggi non ci piacevano! però remi non l'ho mai sopportato e dopo la visione dell'albero di natale volevo tirarmi dalla finestra :-) e poi i supertramp a chiusura.... sei grande mezza chimera
@->Farly: ehehehe :-) onorato, Farly, onorato :-) Grazie, sei troppo carina, come sempre :-)
Anche io, tutti i personaggi che ho elencato, naturalmente li ho amati alla follia :-) ma loro erano così, un po' sfigatini, non ci si poteva fare nulla, e forse proprio per questo gli volevamo bene :-)
Remì a dire il vero non lo seguii...ma della sua sfortuna leggendaria ho sentito dire da molti miei amici :-)
Grazie e bacini leggendari :-)
Remì è stata la rappresentazione di quanto sia funesto essere una persona candida e piena di fiducia. Il fatto che non sei riuscito a fare le foto niente di male: le tue descrizioni sono così ricche di particolari da fotografare meglio di una macchina fotografica. Il tuo dono: essere capace di individuare una realtà che timida si nasconde agli occhi di chi non sa guardare. baci giornalistici
@->Antonella: mi hai detto due cose che mi hanno mandato in sollucchero, Anto :-) meglio di un premio giornalistico, meglio di un'onorificenza letteraria...
grazie dal più profondo del cuore...
"...essere capace di individuare una realtà che timida si nasconde agli occhi di chi non sa guardare..."
Scrivere migliaia di frasi, anche se non fosse così divertente, sarebbe comunque valso la pena solamente per arrivare a sentirsi dire una meraviglia simile :-)
Grazie come non te lo so neanche dire :-)
Bacini da bacinodipendenza :-)
Che ne dici di Sandokan? Il finale con la morte di Marianna mi ha fatto piangere per una settimana!!
Bellissimo post, molto coinvolgente.
Prendila così... meno male che almeno non sei caduto dalla bici!
Buffetti nostalgici
@->Scodinzola: come ho fatto a dimenticarlo, Scodi? :-) Vero, era un'altro dei grandi momenti televisivi di quell'epoca :-) Le cose che ricordo di più di Sandokan sono però quando il gran tigrotto della Malesia aprì da sotto con un balzo una sua "zia" tigre Malese, lasciandola stesa al suolo già bell'e pronta per farci un tappeto :-)
e poi Tremalnaik, l'amico indiano di Sandokan, e Adolfo Cieli che faceva il cattivone...che impressione poi rivederlo in "Amici miei" nei panni del chirurgo burlone, ma sempre cinico :-)
Eh già, va sempre visto l'aspetto positivo: un ruzzolone giù dall'argine era ben altra cosa da una foto mancata :-)
Bacini tigrotti malesi :-)
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