“…e capì tardi che dentro quel negozio di tabaccheria
c'era più vita di quanta ce ne fosse in tutta la sua poesia
e che invece di continuare a tormentarsi con un mondo assurdo
basterebbe toccare il corpo di una donna, rispondere a uno sguardo
e scrivere d'amore
e scrivere d'amore
anche se si fa ridere
anche quando la guardi anche mentre la perdi
quello che conta è scrivere
e non aver paura, non aver mai paura
di essere ridicoli
solo chi non ha scritto mai lettere d'amore
fa veramente ridere.…”
“Le lettere d’amore”
Roberto Vecchioni - 2005
Il bello, con i pensieri, è che ci si può fare anche la raccolta differenziata, riciclandoli ai fini di un riuso mentale ecocompatibile. Non stupitevi allora se oggi vi parrà di sentir parlare di cose già dette proprio qui: è esattamente così, le ho già dette, ma con un’operazione di compostaggio apposita, spero di riuscire a cavarci fuori ancora un po’ di energia concettuale residua.
Il primo concetto che riciclo è quello di “protesi”. Tempo fa ne parlai metaforicamente per indicare ogni tipo di strumento ideato dall’uomo per meglio muoversi nel mondo
In questo senso, il coltello e la zappa possono considerarsi protesi delle mani e delle unghie, oppure gli occhiali e altri strumenti a lente le vediamo come protesi degli occhi, il computer come protesi della memoria e del cervello, e così via metaforizzando. Protesi non è però un gran termine, fa venire in mente cose poco piacevoli. Invece di protesi diciamo allora “prolungamento”.
Un’altra cosa che non vi suonerà nuova è il mio frequente parlare di parole.
Una volta condivisi con voi lo stupore per il modo in cui le parole vengono gestite “sotto traccia” dalla nostra mente. Quando dobbiamo formulare una frase, anche quelle di una certa complessità, se ci fate caso, non si verifica mai un esteso e preventivo ordinamento mentale di tutte le parole che ci servono, per poi passare alla pronuncia vera e propria del periodo così pre-formulato.
Ossia, non prepariamo mai la frase prima nella mente, tutta bella ordinata e palesata, per poi passare a dirla solo quando è pronta. Niente di tutto questo: pensare e dire si svolgono invece quasi in simultanea. Fate pure un po’ mente locale su voi stessi mentre parlate, e sbalorditevi con calma.
Allora avevo detto che doveva esistere nel nostro database mentale un qualche modo di impacchettare ogni vocabolo in un formato, per così dire, “zippato”. O meglio, suggerii che doveva trattarsi non solo di una “compressione” di ogni vocabolo (come avviene appunto per i file informatici “zippati”), ma anche di un modo di “ri-marchiarli”’, ossia di dotarli di un segno di riconoscimento rapidissimo.
Se devo cercare, metti caso, nel mio hard disk cerebrale la parola “zuzzurellone”, per inserirla in un dialogo che sto sostenendo, quello che si innesca non è una scansione completa di tutto il mio vocabolario mentale, setacciando sillaba per sillaba ogni parola utile. Ciò che si mette in moto è invece una fulminea panoramica sull’orizzonte di tutte quelle forme di parole super-sintetizzate e riconoscibili dalla mente a velocità spropositate.
E qui comincia l’avventura del Signor Riciclatura.
State un po’ a sentire, infatti, cari amici viandanti per pensieri, come ho riciclato tutte per voi quelle idee già visitate in passato e ricordate sopra (sarò o non sarò un amico?...).
Rimunginando fra me e me, in sostanza mi è venuto da ipotizzare che le parole potrebbero rappresentare delle “protesi”, dei “prolungamenti” delle cose. Tuttavia, se la faccenda fosse tutta qui, non sarebbe una gran conquista. Perché la “comodità” derivata da queste protesi sarebbe praticamente nulla. A cosa mi serve uno strumento per sollevare, ad esempio, un peso di 300 kg., se quando mi accingo ad utilizzarlo, lo sforzo risultante rimane esattamente equivalente ai 300 kg. di partenza? Questo succederebbe se pensassimo le parole come meri suoni (o i segni, nel caso della scrittura) appiccicati alle cose, in una asettica tassonomia.
Invece, il fattore nobilitante che entra in gioco è il “mistero del nominare”.
Non chiedetemi di darvi una dimostrazione razionale di quello che sto per dirvi, ma io credo che tutte le volte che l’uomo si è preso la briga di dare un nome a ciascuna cosa, in qualche modo, tramite la parola, si è appropriato dell’essenza di quella cosa.
Ed è proprio questa essenza (per ricucire tutto il discorso con le premesse iniziali), è questa misterica sintesi tra pensiero e realtà, che la mente utilizza per andare a riconoscere e pescare ciascuna parola ogni volta che ne ha bisogno. E’ per questo che la scansione fra i meandri del database della memoria risulta così rapida, fulminea: perché non è la nostra mente a ricercare suoni o sillabe, ma il nostro cuore a mettersi in risonanza col battito del cuore di ciascuna parola.
Ripeto: non chiedetemi di spiegarvi come faccio a sapere queste cose. Posso dirvi solo che se in questo modo non fosse, non sarei così perdutamente innamorato delle parole.
(*) = Il titolo di questo scritto, “Scarugar per rudarole” (un’auto-presa in giro riferita al titolo del mio blog), è una buffa italianizzazione di due termini dialettali in uso a Gillipixiland e paesi limitrofi: “Scarugare” sta per “rovistare”, mentre “rudarole” sta per “pattumiere”.
c'era più vita di quanta ce ne fosse in tutta la sua poesia
e che invece di continuare a tormentarsi con un mondo assurdo
basterebbe toccare il corpo di una donna, rispondere a uno sguardo
e scrivere d'amore
e scrivere d'amore
anche se si fa ridere
anche quando la guardi anche mentre la perdi
quello che conta è scrivere
e non aver paura, non aver mai paura
di essere ridicoli
solo chi non ha scritto mai lettere d'amore
fa veramente ridere.…”
“Le lettere d’amore”
Roberto Vecchioni - 2005
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Il bello, con i pensieri, è che ci si può fare anche la raccolta differenziata, riciclandoli ai fini di un riuso mentale ecocompatibile. Non stupitevi allora se oggi vi parrà di sentir parlare di cose già dette proprio qui: è esattamente così, le ho già dette, ma con un’operazione di compostaggio apposita, spero di riuscire a cavarci fuori ancora un po’ di energia concettuale residua.
Il primo concetto che riciclo è quello di “protesi”. Tempo fa ne parlai metaforicamente per indicare ogni tipo di strumento ideato dall’uomo per meglio muoversi nel mondo
In questo senso, il coltello e la zappa possono considerarsi protesi delle mani e delle unghie, oppure gli occhiali e altri strumenti a lente le vediamo come protesi degli occhi, il computer come protesi della memoria e del cervello, e così via metaforizzando. Protesi non è però un gran termine, fa venire in mente cose poco piacevoli. Invece di protesi diciamo allora “prolungamento”.
Un’altra cosa che non vi suonerà nuova è il mio frequente parlare di parole.
Una volta condivisi con voi lo stupore per il modo in cui le parole vengono gestite “sotto traccia” dalla nostra mente. Quando dobbiamo formulare una frase, anche quelle di una certa complessità, se ci fate caso, non si verifica mai un esteso e preventivo ordinamento mentale di tutte le parole che ci servono, per poi passare alla pronuncia vera e propria del periodo così pre-formulato.
Ossia, non prepariamo mai la frase prima nella mente, tutta bella ordinata e palesata, per poi passare a dirla solo quando è pronta. Niente di tutto questo: pensare e dire si svolgono invece quasi in simultanea. Fate pure un po’ mente locale su voi stessi mentre parlate, e sbalorditevi con calma.
Allora avevo detto che doveva esistere nel nostro database mentale un qualche modo di impacchettare ogni vocabolo in un formato, per così dire, “zippato”. O meglio, suggerii che doveva trattarsi non solo di una “compressione” di ogni vocabolo (come avviene appunto per i file informatici “zippati”), ma anche di un modo di “ri-marchiarli”’, ossia di dotarli di un segno di riconoscimento rapidissimo.
Se devo cercare, metti caso, nel mio hard disk cerebrale la parola “zuzzurellone”, per inserirla in un dialogo che sto sostenendo, quello che si innesca non è una scansione completa di tutto il mio vocabolario mentale, setacciando sillaba per sillaba ogni parola utile. Ciò che si mette in moto è invece una fulminea panoramica sull’orizzonte di tutte quelle forme di parole super-sintetizzate e riconoscibili dalla mente a velocità spropositate.
E qui comincia l’avventura del Signor Riciclatura.
State un po’ a sentire, infatti, cari amici viandanti per pensieri, come ho riciclato tutte per voi quelle idee già visitate in passato e ricordate sopra (sarò o non sarò un amico?...).
Rimunginando fra me e me, in sostanza mi è venuto da ipotizzare che le parole potrebbero rappresentare delle “protesi”, dei “prolungamenti” delle cose. Tuttavia, se la faccenda fosse tutta qui, non sarebbe una gran conquista. Perché la “comodità” derivata da queste protesi sarebbe praticamente nulla. A cosa mi serve uno strumento per sollevare, ad esempio, un peso di 300 kg., se quando mi accingo ad utilizzarlo, lo sforzo risultante rimane esattamente equivalente ai 300 kg. di partenza? Questo succederebbe se pensassimo le parole come meri suoni (o i segni, nel caso della scrittura) appiccicati alle cose, in una asettica tassonomia.
Invece, il fattore nobilitante che entra in gioco è il “mistero del nominare”.
Non chiedetemi di darvi una dimostrazione razionale di quello che sto per dirvi, ma io credo che tutte le volte che l’uomo si è preso la briga di dare un nome a ciascuna cosa, in qualche modo, tramite la parola, si è appropriato dell’essenza di quella cosa.
Ed è proprio questa essenza (per ricucire tutto il discorso con le premesse iniziali), è questa misterica sintesi tra pensiero e realtà, che la mente utilizza per andare a riconoscere e pescare ciascuna parola ogni volta che ne ha bisogno. E’ per questo che la scansione fra i meandri del database della memoria risulta così rapida, fulminea: perché non è la nostra mente a ricercare suoni o sillabe, ma il nostro cuore a mettersi in risonanza col battito del cuore di ciascuna parola.
Ripeto: non chiedetemi di spiegarvi come faccio a sapere queste cose. Posso dirvi solo che se in questo modo non fosse, non sarei così perdutamente innamorato delle parole.
*******
(*) = Il titolo di questo scritto, “Scarugar per rudarole” (un’auto-presa in giro riferita al titolo del mio blog), è una buffa italianizzazione di due termini dialettali in uso a Gillipixiland e paesi limitrofi: “Scarugare” sta per “rovistare”, mentre “rudarole” sta per “pattumiere”.
4 commenti:
@->Piero: Piero, se proprio ritieni di aver subito un reato, ci sono i luoghi opportuni a cui rivolgersi...diversamente, non è che risolvi tanto: che io commenti o no il blog di Antonella, e in quale modo io lo faccia, sarà comunque ininfluente...
Di più non saprei cosa dirti...
dunque dunque il concetto di nominare per dare vita è molto molto cabalistico, per gli ebrei dio crea il mondo nominandolo, dando nomi... ecco magari un po' di cabala ti piacerebbe se la vedessi in questa associazione. Comunque spesso noi cerchiamo le parole per associazione, e spesso le associamo ad immagini... pensando immagini pare si faccia prima che a pensare qualsiasi altra cosa. baci misterico-poetici
@->Farly: le tue chiose sono sempre il completamento ideale dei miei scribacchiamenti, cara Farly :-)
L'atto del nominare è di una potenza incredibile...le parole dovrebbero essere più considerate e rispettate nella loro "sacralità", e invece fa male vedere come spesso sono bistrattate e fatte passare da tante bocche giusto per dare aria di denti...forse, se ci fosse più consapevolezza riguardo il sacro che risiede in ciascuna parola, questo mondo sarebbe qualcosa di meglio...
Anche io credo che si pensi fondamentalmente per immagini, ma credo che le parole siano le rugiada delle immagini :-)
Bacini cabalistici :-)
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