lunedì 27 dicembre 2010

Paul Klee: silenzio!…parla l’immagine (episodio 1)

“…L’arte non riproduce ciò che è visibile,
ma rende visibile ciò che non sempre lo è…”
Paul Klee

A scanso di equivoci, questa è solo una mia bizzarra foto

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Così imparo a fare il bullo: «…e sono il dj dell’arte di qua…ed ecco a voi il Claudio Cecchetto della critica artistica di là…».
E quasi ci rimango dentro.
Nel senso che è bastata una gentile richiesta della cara amica Rosalucsemblog, che a momenti “Radio free Gillipix” fonde le valvole. Sì, perché l’artista del quale Rosa mi ha chiesto di parlare è diiiiiiiiiiiiifficilissimo.

Niente meno che Paul Klee.

L’opera di Klee rappresenta uno dei più alti e raffinati tentativi di riuscire a comunicare servendosi del linguaggio dell’«indicibile» puro, e scusate se è poco!

«…E mo’ che ‘jè racconto?...» è stato il primo pensiero spontaneo che mi è balenato alla mente. Ma niente paura: non sia mai detto che un Gillipixel scribacchino getti la spugna di fronte ad una sfida espressiv-narrativa. Piuttosto sparo vaccate a raffica e mi metto a muso aperto a prendermi tutti gli ortaggi in faccia, senza mancare nemmeno un ravanello.

Dunque, vediamo un po’, allora…Paul Klee.

Innanzitutto, parto dall’unica cosa certa che credo di aver capito su di lui: il nome non si pronuncia all’inglese, come in tanti tendono erroneamente a fare. Non è “Póóól Klììì”. La pronuncia è invece teutonica, in pratica uguale a come si scrive: “Pàul Klèèè”.
Klee era infatti nato il 18 dicembre 1879 a Münchenbuchsee, nel Canton Ticino Svizzero, e morì il 29 giugno 1940 a Muralto, sempre poco distante dalla sua terra d’origine.

L’attività artistica di Paul Klee ha spaziato intensamente sul versante teorico, tanto quanto è stata profonda dal punto di vista della produzione effettiva di opere. Negli anni giovanili, fece parte del movimento pittorico e culturale «Der bluae Reiter» («Il cavaliere azzurro»), fondato nel 1911 da Wassily Kandisky, che di Klee fu “collega” ed interlocutore artistico praticamente per tutta la vita (pur seguendo essi cammini artistici complementari, ma differenti). I due si ritrovano, pochi anni dopo, nelle vesti di professori della mitica scuola di arte, design ed architettura, creata da Walter Gropius a Weimar: la Bauhaus.

E fin qui son buoni tutti a raccontarvela, ma ora viene il bello.
Già in partenza, incontro nella mia esposizione una difficoltà apparentemente banale, ma di fatto basilare: di Klee è impossibile prendere in esame alcune opere “tipiche”. La sinteticità e l’appiglio discorsivo immediati, offerti dai tagli di Fontana, dai boccettini di Morandi, dalle statuette emaciate di Giacometti, con Klee me li posso scordare alla grande.
L’opera di Klee è sperimentazione continua, ogni quadro, ogni disegno, ogni tela, è una storia a sé. Ma non rammarichiamoci eccessivamente per questa caratteristica: come vedremo, essa è fondamentale per avvicinarci un po’ di più alla comprensione della poetica stessa di Klee.



Per capire Klee, bisognerebbe parlare di Kandisky, del «bluae Reiter», poi della Bauhaus…ma non temete, cari amici viandanti per pensieri, non pretendo che passiate i migliori anni della vostra vita incollati a questo articolo.
Cerchiamo allora di venire al dunque, al punto essenziale, “nucleare”, cruciale, sostanziale, basilare, della poetica di Paul Klee. La ricerca teorica di Klee e Kandinsky si propone fin da subito un obiettivo altissimo: ricondurre la “comunicazione estetica” alle proprie forze autonome e primordiali, annullando ogni sovrapposizione culturale che vi si è andata accumulando in cima, nel corso di secoli di tradizione occidentale.

Il linguaggio delle immagini (e con esso tutto il suo “alfabeto” fatto di linee, colori, tonalità e così via), lungo il corso della storia dell’arte e dell’espressività visiva e figurativa, si è andato cristallizzando in codici. Un “codice” (un “linguaggio”) presuppone un accordo, un “contratto” stipulato su di una base razionale, logica e culturale condivisa dai parlanti, nel continuo confronto con l’esperienza.

Faccio un esempio banale: la lingua italiana è giunta sino a noi, nella forma in cui la conosciamo oggi, grazie all’accumulo di secoli di “micro-accordi” fatti di volta in volta da chi se n’è servito quotidianamente, parlandola e poi anche scrivendola.

Se oggi possiamo pronunciare bellissime parole come “gatto”, “donna”, “tetta” o “chioma”, ed intenderci perfettamente riguardo all’oggetto che vogliamo indicare, è perché in passato ci sono state migliaia e migliaia di persone prima di noi che hanno gradualmente “contrattato” la corrispondenza di quei suoni rispettivamente ad una graziosa bestiolina pellicciosa e fusaiola (“gatto”), alla dolce altra metà del cielo (“donna”), ad un delizioso componente fisico in dotazione binata a quest’ultima (“tetta”: regalo, al pari dei trenini elettrici, normalmente pensato per i più piccoli, ma poi molto apprezzato anche dai papà…), alla propaggine morbida e più o meno fluente che adorna le teste umane (“chioma”). E così via, quasi all’infinito per ogni parola del nostro vocabolario.

Tra suono e significato non c’è nessun nesso necessario. Il suono “gatto” e la corrispettiva palletta pelosa e miagolante, teoricamente non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altra. E’ solo in virtù del “contratto linguistico” fra i parlanti, che li associamo.

Questo è accaduto per tutti i linguaggi. E’ accaduto con la lingua matematica stessa, oppure la lingua geometrica, tanto per fare altri esempi eclatanti. Ed è accaduto ovviamente anche per il linguaggio visivo. Pur essendo più sottile da cogliere come concetto (perché la nostra “visione del mondo” pare nutrirsi direttamente del succo dell’«immediatezza empirica»), anche il nostro linguaggio visivo si serve di “codici” fondati su “accordi stipulati”, allo stesso modo di una lingua propriamente detta come l’italiano, l’inglese, il latino, il greco, ecc.

Prendiamo, con l’ennesimo esempio, un “modo di esprimersi” tipico del linguaggio visivo occidentale: la prospettiva.
Anch’essa, pur sembrando connaturata alle “cose” (per via dell’«immediatezza empirica» di cui parlavo sopra), è tuttavia il risultato di un contratto stipulato fra i parlanti del linguaggio figurativo. Fra “prospettiva” e realtà passa forse solo un grammo in più di “necessarietà” di quanta ne intercorra fra il suono “gatto” e la bestiola di riferimento. Ma rimane il fatto che la “prospettiva” è solo uno dei modi di “assorbire” realtà attraverso i sensi.

Controprova ne sia il fatto che in altre tradizioni culturali (quella cinese, per dire, o giapponese, o altre…), la prospettiva come da noi concepita, non è contemplata affatto. Anche se ci pare strano ammetterlo (perché ci è tanto familiare da sembrare un dato “di natura”), la prospettiva è un “contenitore visivo” condiviso da noi occidentali solamente “per convenzione”: è un meccanismo linguistico che vive in virtù di un accordo, di un contratto.

Vaghe reminiscenze di un esame di psicologia sostenuto all’università, mi riportano alla mente un interessante esperimento visivo compiuto con persone di una tribù africana. Questi soggetti, osservando alcuni disegni che ad un “occidentale medio” causavano illusioni ottiche innescate da meccanismi prospettici (tipo la figuretta riportata sotto, un classico trabocchetto ottico denominato "illusione di Hering"), non coglievano la stranezza visiva. Semplicemente non erano stati “educati” alla prospettiva, non rientrava nel loro linguaggio visivo e di conseguenza non comprendevano quando la prospettiva “parlava” loro.

Illusione di Hering: le linee rosse "sulla carta" sono parallele,
ma un osservatore educato alla prospettiva le percepisce incurvate al centro



Ora possiamo tornare a Klee (e per piccoli rimandi di sfuggita, anche a Kandinsky): essi sostengono che esiste una dimensione della comunicazione estetica che viene radicalmente prima della fase del “linguaggio contrattato”. Non solo: secondo i due artisti, gli elementi estetici sono portatori di una forza espressiva autonoma che precede addirittura i significati assunti dalle forme nelle loro specificazioni naturali o negli oggetti concreti.
Per dire: ancor prima di specificarsi nelle fattezze di un albero, di un cavallo, di una bottiglia di Chianti, di una bella ragazza (ma anche di una meno bella, mica stiamo a fare discriminazioni, qui…), le “forme” esistono anticipatamente “date” nella nostra coscienza.


A questo punto, per fare una cosa come si deve, dovrei scomodare Freud, Jung e prima ancora Immanuel Kant, ma il discorso mi sembra già abbastanza a groviglio di rovi, per andare a fare ulteriore casino e rischiare magari di dire cazzate ancor più grosse di quelle già proferite.

Mi sia concesso solo un breve accenno a Kant, ma proprio da profano filosofico. Con Kant si inaugura la stagione della filosofia che dice definitivamente addio alla pretesa di capire se ci sia corrispondenza fra il mondo pensato e quello esterno al pensiero.
Quando prendiamo in mano una mela e poi magari l’addentiamo, il frutto e tutta l’azione che mettiamo in moto, trovano un loro corrispettivo in una realtà esterna a noi stessi, o sono solamente una rappresentazione della nostra coscienza?
Per usare una categoria d’indagine filosofica denominata in senso strettamente tecnico “sintesi alla brutto boia”, Kant ci dice che poco importa sapere di quella corrispondenza. Quello che importa è che l’«assetto pensante» è uguale, universale, per tutti gli uomini. La mente dell’uomo è un contenitore di pensieri inevitabilmente inquadrati in un sistema di riferimento che ha per coordinate numerose “categorie innate”, le più fondamentali fra le quali sono lo spazio ed il tempo.

In una direzione analoga è indirizzato il discorso poetico di Paul Klee: egli ha cercato nel corso di tutta la sua vita artistica di affermare l’esistenza di una “comunicatività estetica” che precede l’esperienza e la cultura. Ancor prima di sperimentare le forme coi sensi, esiste nella nostra coscienza una strada estetica all’intesa fra gli esseri umani, una comunione di intenti che parla un “linguaggio figurativo puro”, anteriore a tutte le “contaminazioni” assorbite poi attraverso la cultura e l’educazione.

Dice al proposito la mia guida spiritual-artistica, Giulio Carlo Argan: «…i segni corrispondenti a significati dati, cioè i linguaggi rappresentativi le cui forme sono logicamente collegate agli oggetti, sono segni spenti, perché la loro comunicazione è mediata dagli oggetti della comune esperienza (la natura) …».

Tornando all’esempio precedente: il suono e il segno scritto della parola “gatto” sono “spenti” rispetto alla corrispettiva bestiola, così com’è “spento” un dipinto che riproduca un gatto, ma anche la specificazione estetica del gatto nella realtà è “spenta”, perché frutto anch’essa di convenzioni culturali e dettate dall’esperienza (il suono e un dipinto della parola “tetta” sono forse più accesi, ma è questione di gusti personali…e scusate la cazzata d’interludio…).

Ancora Argan: «…La comunicazione estetica […per Klee e Kandinsky…] vuol essere invece una comunicazione intersoggettiva, che va direttamente dall’uomo all’uomo senza l’intermediario dell’oggetto, della natura…».


Non a caso la ricerca estetica di Klee e Kandinsky è stata anche accomunata dal profondo interesse rivolto all’espressività grafica dei bambini. Entrambi hanno studiato i disegni infantili come espressione di una fase estetica ancora “primordiale”, il più possibile avulsa dalle specificazioni intellettuali che si vanno acquisendo nella fase dell’apprendimento.

Ma Klee va oltre. Per lui anche l’animo del fanciullo è già saturo di “sapienza culturale, simbolica, ereditaria”. Klee, prosegue Argan, «…sorride della pretesa di Kandinsky di cogliere nel bambino la condizione primaria, originaria dell’essere: il bambino nasce vecchio, carico di esperienze ancestrali e non c’è divario tra la sua esperienza e quella dell’adulto, l’umanità stessa può ancora considerarsi bambina…[…]…quella della prima infanzia non è affatto una condizione di primitività assoluta, di non esperienza; su ogni vita che nasce molte vite vissute hanno lasciato l’impronta delle loro esperienze…».

Se nemmeno l’infanzia può dirsi culturalmente “incontaminata”, dove ricercare dunque la purezza di un’espressività estetica capace di venire prima di ogni specificazione dell’esperienza e dell’educazione?
Ci risponde ancora Argan, che essa si può ritrovare «…in quella regione sconfinata dell’inconscio che Freud e Jung avevano da poco aperto alla ricerca: una regione in cui nulla si dà come rappresentazione o concetto e tutto si dà per immagini e segni […] l’opera di Klee è una specie di diario della propria vita interiore o profonda: di tutto ciò che è rimasto allo stato d’impulso o motivo, e non si è tradotto in causa di determinati effetti, non ha fatto storia. In questo senso Klee può considerarsi, in pittura, il parallelo di Joyce: e come in Joyce le parole e le frasi, così in Klee le immagini si scompongono, ricompongono e combinano secondo nessi alogici e asintattici, ma vitali e sensibili come legamenti nervosi…».

Cari amici viandanti per pensieri, come passa il tempo quando ci si diverte, vero? Infervorandomi fra i labirinti artistici, quasi non mi accorgevo di avervi già rifilato una sbrodolata non da poco.
Questo Klee è veramente impegnativo, ce ne sarebbe da dire per ore.
A questo punto volevo fare qualche cenno pratico a come si traduce tutta questa teoria in un’opera concreta del maestro svizzero. Ma per il momento, mosso da uno sprazzo di compassione per i vostri provati zebedei, sospendo qui la puntata, faccio squillare la campanella della ricreazione e vi rimando ad un secondo episodio su Klee (chiedendo il gentile permesso della cara Rosalucs…).



7 commenti:

Rosa ha detto...

Tu non sai quanto ti ringrazio. HO sempre amato Klee, e mi è sempre rimasto piuttosto ostico quel che ne diceva Argan: tu hai creato un legame tra i due. Mi è piaciuto molto, davvero.

Rosa ha detto...

Ah, aspetto con ansia la continuazione...

Gillipixel ha detto...

@->Rosalucs: non mi resta da dirti altro, cara Rose, che questi commenti sono soddisfazioni impagabili...potrei scrivere un trattato in dieci tomi di mille pagine l'uno, sapendo che poi alla fine mi attende la gratificazione di un commento così bello :-)
Ma raccicuro tutti: non voleva essere una minaccia :-)

Il secondo episodio di Klee è in elaborazione, Rose :-) Il tempo di lasciar metabolizzare questo e lo spiattello fresco fresco :-)

Bacini pre-culturali :-)

Lara ha detto...

Trovo che tu sia stato veramente bravo, Gill.
Difficile parlare di Klee, ma tu lo hai saputo fare con grande maestria e senza annoiare per niente, anzi :)
Aspetto anch'io la seconda puntata!
Ciao,
Lara

Gillipixel ha detto...

@->Lara: grazie di cuore, Lara, sei sempre super carina :-) e grazie per aver avuto la pazienza di leggere...purtroppo, quando si affrontano certi temi, la sintesi necessaria in un blog non può essere rispettata...Klee è un argomento immenso, già la suddivisone in due puntate un po' aiuta, ma non sarebbe sufficiente nemmeno quella...in ogni caso, cercherò di fare del mio meglio :-) Il secondo episodio arriverà fra non molto, ma nenache troppo presto :-) Lascio un po' che questo primo decanti a dovere :-)

Bacini stile cavaliere azzurro :-)

farlocca farlocchissima ha detto...

grande gil, momenti svengo nel temtativo di leggere tutto d'un fiato il pezzo... eh sì sto come una pazza immersa in robe di lavoro e avevo deciso "ecco ora mi fermo un minuto e leggo il mo amico"... però è proprio un bel pezzo, scritto bene, interessantissimo e be' aspetto il resto...

baci filosofico estetizanti

Gillipixel ha detto...

@->Farly: onorato, onorato, cara Farly :-) grazie tantissime, è una sodisfazione bellissima riuscire a stupire una mente dotta e raffinata come la tua....
Ora sono bello carico per la seconda puntata, cercherò di scrivere anche quella in modo degno :-)

Bacini progettati alla Bauhaus :-)