Ogni parola è come un piccolo libro: ha una copertina, titolo e grafica, veli variabili di polvere sopra, sgualciture, orecchie, nobili segni del tempo; racconta sia la storia di sé, sia quella che contiene; per questo, quando lo scrittore scrive, sa di aprire ogni volta una biblioteca, dentro a una biblioteca, dentro a una biblioteca, e così via, sino agli strati più intimi, a raggiungere il cuore stesso della possibilità di lettura...
Lo scrittore teme la pagina bianca, la rispetta, e nel tempo stesso si sente continuamente chiamato a sedurla; in alcune circostanze, l'impresa gli appare di proporzioni ciclopiche: in quei casi lo scrittore si allea col silenzio intimo, e insieme attendono con pazienza che la pagina torni a denudarsi spontaneamente, con la naturale innocenza dei primitivi...
Lo scrittore si rende conto di aver sprecato tempo e parole, quando le sue frasi non reggono la prova del nove della musicalità; perché la mente del lettore é la sala da concerti più esclusiva alla quale si possa accedere...
Lo scrittore è responsabile soltanto delle sue frasi peggiori; delle migliori è responsabile la Grazia; delle sublimi, l'ignoto che è in ciascuno di noi...
Le muse di Kika vanno oggi per pensieri inseguendo un altissimo ideale, sempre di stretta e purtroppo drammatica attualità, per quanto viene ignorato e disatteso. Parliamo infatti nientemeno che della pace fra gli uomini. Il quadro e l’autore scelti da Kika sono stavolta più che sconosciuti: dell’autore si sanno solo cognome e iniziali, T.F. Grabon; l’opera viene attribuita a una non meglio specificata scuola francese, con generica datazione intorno alla fine del XIX secolo. L’importante però è che in compagnia dell’imprescindibile soggetto femminile (necessario a Kika per le sue magie di moda), compare il simbolo per antonomasia della pace, la colomba bianca. L’opera s’intitola per l’appunto “Donna con la colomba” (“Femme à la colombe”).
Vista la particolarità dell’opera, non mi addentro oggi in nessuna avventura critica e nemmeno intendo affrontare l’argomento della pace, troppo complesso e variegato per poterne parlare in poche righe (e che tra l’altro ci porterebbe lontano dai temi artistici più consoni alla rubrichetta). Farò invece un piccolo excursus storico di opere d’arte in cui la colomba ha avuto un qualche ruolo simbolico-figurativo più o meno importante. E’ un piccolo elenco, molto parziale; una mini-ricerca che mi sono divertito a fare.
La colomba è fin da tempi molto antichi l’emblema della purezza e della spiritualità, ma come vedremo, ha finito per assumere altre più enigmatiche sfumature, via via “laicizzandosi”, per così dire, soprattutto con l’avvicinamento all’epoca moderna.
Fra le testimonianze più lontane che ho trovato, c’è questo delicato particolare musivo presente nel mausoleo di Galla Placidia a Ravenna, risalente al V secolo, nel quale sono raffigurate due colombe abbeveranti (Foto 1). Interessante notare il sentimento prevalente trasmesso da questo delicato dettaglio, ossia una sorta di “armonia con gli elementi”. Il richiamo all’acqua è importante, per i riferimenti al sacramento del Battesimo, di cui parlerò fra breve.
Foto 1
In un altro mosaico sempre del V secolo (Foto 2), la colomba in volo, simbolo dello Spirito Santo, viene raffigurata per la prima volta come protagonista del racconto dell’Annunciazione. Questa scena si può ammirare nell’Arco Trionfale della chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma. Qui per la prima volta la figura della colomba compare nel “racconto visivo” di un’annunciazione. Da notare che nella Bibbia, la manifestazione dello spirito sotto forma di colomba si ritrova solo nei vangeli, esclusivamente nell’episodio del battesimo di Cristo (Marco 1, 9-11; Matteo 3, 13-17; Luca 3, 21-22) e in nessun altro brano (l’abbinamento con l’annunciazione è dunque probabilmente tutto legato a tradizioni popolari, che l’arte ha poi accolto di buon grado).
Foto 2
Per l’esempio successivo che sono riuscito a scovare bisogna aspettare alcuni secoli, e spostarci nel XV. Ma l’opera vale tutta l’attesa, perché a mio avviso è quella in cui il simbolo della colomba viene trattato nel modo più geniale di tutti i tempi. Mi riferisco alla celeberrima “Trinità” di Masaccio (1401-1428), affresco realizzato fra il 1425 e il 1427, in una cappella laterale della chiesa di Santa Maria Novella a Firenze (Foto 3 e 4). Si tratta di un vero capolavoro di sintesi teologi-filosofi-geometri-figurativa. Anche qui, il niveo pennuto rappresenta la terza figura della trinità, ma lo fa nel modo più velato e impalpabile, come si conviene appunto a un entità fatta di spirito puro: la colomba quasi si confonde infatti nello spazio fra la barba del Padre Eterno e l’aureola di Gesù, formando una presenza del tutto evanescente.
Foto 3
Foto 4
Praticamente coeva è la “Madonna della colomba” (Foto 5), un dipinto a olio su tavola di pioppo (87x58 cm), realizzato tra il tra il 1490 e l'inizio del XVI secolo da Piero di Cosimo (1461-1522), e conservato nel Louvre di Parigi (titolo in francese: “Vierge et l'Enfant à la colombe”). L’atmosfera generale del quadro è improntata alla tenerezza. A un’attenta osservazione, si noterà tutta la serie di rimandi visivi (tra sguardi, tocchi fugaci, carezze) che fanno dell’architettura compositiva di questa scena un vero meccanismo di precisione della delicatezza.
Foto 5
Tradendo un po’ l’ordine cronologico, vi propongo tre piccoli passi indietro, con altri mirabili esempi di “chiamata in causa” del nostro simpatico candido animaletto.
Siamo ora in pieno ‘400, con questa stupenda “Annunciazione Doria”, tempera su tavola (118 × 175 cm) di Filippo Lippi (1406-1469), datata tra il 1445 e il 1450, conservata nella Galleria Doria Pamphilj a Roma (Foto 6). Anche questo quadro, dal punto di vista compositivo, è una vera gioia per gli occhi, che vengono trascinati a vagare da una meraviglia all’altra, in un perfetto gioco di equilibrismo visivo.
Foto 6
Cosa dire poi della clamorosa bellezza del successivo quadro che vi propongo? Il tema è di nuovo quello del disvelamento a Maria del proprio destino soprannaturale: si tratta infatti della “Annunciazione” del Perugino (1488-1490), nota anche come “Annunciazione di Fano”, un dipinto a olio su tavola (212x172 cm), databile intorno al 1488-1490 circa e conservato nella chiesa di Santa Maria Nuova a Fano (Foto 7). A parte l’eleganza sconfinata che pervade l’intera scena, trovo in questo caso davvero stupefacente come l’artista abbia immaginato tutto il “dispositivo annunziante”, del quale la nostra cara colomba è protagonista fondamentale. E’ bellissima questa idea di una sorta di “rotore” di angeli, gravitante intorno alla figura del Padre Eterno, che in un suggerito movimento orbitale, sembra quasi fiondare fuori il delicato guizzo dell’ineffabile volatile. Meraviglia delle meraviglie! Se la realtà storica non fosse così incontrovertibile e assodata, sarei disposto a lasciarmi convincere che si tratti di una magia fumettistica ideata da Stan Lee, oppure dal grande disegnatore di Alan Ford, Roberto Raviola in arte Magnus.
Foto 7
Chiudiamo col botto il capitolo del ‘400, con un ritorno alla stretta fedeltà filologica verso le scritture, proposto da un altro pezzo da novanta. Questo è infatti il “Battesimo di Gesù” di Piero della Francesca (1416/17-1492), dipinto a tempera su tavola (167x116 cm) datato 1445, e conservato alla National Gallery di Londra (Foto 8). Qui il gioco visivo (al quale la nostra immancabile colomba prende parte attiva) è tutto impostato sulle linee ortogonali (un lontano rimando alla croce?), rotte qua e là da alcune oblique “spariglianti”. Quasi inutile anche in questo caso, sottolineare la perfezione di tutto l’impianto compositivo.
Foto 8
Con un nuovo balzo, ci ritroviamo adesso in pieno Ottocento. Abbandonati i temi sacri cristiani, la nostra fedele colomba si presta a gigioneggiare con la sensualità e si riscopre capace di reggere il confronto anche con la mitologia greca. Il quadro in questione è “Venere che scherza con due colombe” (modella del ritratto, fu la ballerina Carlotta Chabert), dipinto nel 1830 da Francesco Hayez (1791-1882), e conservato nel Palazzo delle Albere di Trento, sede trentina del Mart di Rovereto (Foto 9). Mai come in questo caso, possiamo dire che l’opera parla da sola: è un vero e proprio promemoria anti-magrezza, un inno alla gioia delle curve, una sconfinata dichiarazione di meraviglia “deretanica”, il proclama per eccellenza dell’assolutezza “sederiale”.
Foto 9
Gli ultimi esempi di figuratività imperniata sul tema della colomba, ci fanno approdare infine al ‘900, con altri tre artisti. Ve li illustro brevemente.
La prima opera, che ci porta ancora ad atmosfere sensuali, è di Tamara de Lempicka (1898-1980), e ha lo stesso titolo della nostra opera-guida di oggi: “Femme à la colombe” (Foto 10).
Foto 10
Una sequela colombofil-surreale ci viene proposta invece da Renè Magritte (1898-1967), che ha affrontato il tema della colomba in ben tre quadri, declinandolo nel clima evocativo riservato dai misteri dell’inconscio. Le opere sono rispettivamente: “Il ritorno” (1940) (Foto 11), “La grande famiglia” (1963) (Foto 12), “Uomo con cappello e colomba” (1964) (Foto 13).
Foto 11
Foto 12
Foto 13
Concludiamo infine il nostro piccolo, ma interessante volo della colomba attraverso i secoli dell’arte, con un altro grandissimo del Novecento, Pablo Picasso (1881-1973). Il maestro del Cubismo e di altri mille rivoli di correnti artistiche, si confrontò con la colomba in due occasione (perlomeno da quanto ho potuto appurare nella mia ricerca). In un caso abbiamo un’opera giovanile, “Bimba con colomba” del 1901 (Foto 14). L’altra celeberrima immagine ha finito invece per rappresentare il vero e proprio simbolo grafico della Pace: si tratta di un semplice disegno dell’artista (davvero una mirabile economia di tratti), adottato come logo ufficiale del “Congresso mondiale della pace”, tenutosi a Parigi fra l’aprile e il maggio del 1949.
Foto 14
Foto 15
Prima di chiudere, ancora alcune righe per l’indagine fisiognomica di oggi, che è stata poco fruttuosa, devo ammetterlo. Ma si sa, il detective fisiognomico, in qualche modo il risultato lo deve portare a casa. Ho pensato a due volti già utilizzati in altre occasioni. Di più non ho potuto, stavolta.
Il primo è di un’attrice inglese:
La bravissima Emma Thompson.
Il secondo volto è di un’altra attrice, ma stavolta di casa nostra:
Si tratta di Cecilia Dazzi (come detto, l’avevo già “convocata” per altre somiglianze).
Concludiamo la puntata, con il consueto invito a visitare il blog di Kika, che ci aspetta per proporre le sue magie di moda ispirate oggi alla dama con la colomba.
Lo scrittore distilla le parole in quintessenza di gioia dai suoi alambicchi di rame; ne ricava una inebriante "acqua-vite", ottima per filettare i liquidi pensieri del lettore...
Lo scrittore sa che vale la pena affidarsi alla bellezza di un'immagine, anche se essa non porta da nessuna parte; anzi, soprattutto per quello. La scrittura non rimpiange, non si affretta, non progetta: la scrittura s'impasta con le incoerenze del tempo, inventando geografie mentali, visive, tattili, olfattive, sonore, mai viste, né esplorate...
Lo scrittore amoreggia di continuo con l'eterno; solletica i crini della pelliccia del tempo; scherza sul domani confondendolo con ieri; anche se vive nella trepidazione costante di cosa gli accadrà fra un momento...
Lo scrittore mangia ironia a colazione, pranzo e cena; a merenda sbocconcella paradossi; poi si lava i denti con le contraddizioni e fa gargarismi di assurdo; ma provate a cercare intorno a voi una persona più realista di lui: non la troverete...
Lo scrittore non vuole insegnare nulla a nessuno: con le sue parole tenta soltanto di giungere a sfiorare il nucleo più intimo dell'oscena fragilità del mondo...
Le frasi dello scrittore si prendono un’altra piccola pausa, ma torneranno domani.
Riprendiamo invece oggi la nostra rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. Potrebbe sembrare futile e superficiale, parlare di arte in questo momento in cui urgono temi ben più stringenti e drammatici. Ma se fate un attimo mente locale alla questione, vi accorgerete che è proprio il contrario: non è per nulla futile, non è per nulla superficiale. Per due motivi (…almeno due).
Primo, perché anche l’arte, soprattutto l’arte, è espressione fondante della nostra civiltà. E se vogliamo ribadire oggi di “essere noi stessi”, ossia affermare la nostra identità, non possiamo fare a meno di aggiungere un’importantissima postilla: noi siamo anche la nostra arte.
Secondo: se tutti (da una parte e dall’altra di ogni schieramento) vivessero assumendo come guida esistenziale il vero spirito dell’arte (ossia, l’entusiastica e infaticabile ricerca del Bello), certi tragici risvolti del reale non si darebbero nemmeno.
Il quadro scelto da Kika per l’occasione s’intitola “Donna+Luce+Giardino”, ed è un olio su tela realizzato nel 1918 da Roberto Marcello Baldessari (Innsbruck, 23 marzo 1894 - Roma, 22 giugno 1965). E’ sufficiente una rapida occhiata all’opera, per renderci conto di trovarci in pieno Futurismo (un piccolo dettaglio: non sono riuscito ad appurare se i “+” posti fra le parole del titolo del quadro, siano dovuti a una stramberia futurista, oppure siano soltanto un fatto tecnico-grafico del web: in ogni caso, personalmente preferisco pensare alla prima opzione).
Ancor più “curioso” può dunque sembrare, in questo nostro frangente storico, parlare di un movimento che tra i propri proclami fece sua anche la definizione della guerra “…come sola igiene del mondo…”.
Come si esce da questo inghippo culturale? Per fortuna, quando si trattano periodi dai quali ci divide un cospicuo numero di anni, è possibile ragionare con un certo distacco storico. Inoltre, nel caso del Futurismo, a mio parere è utile fare una distinzione di livelli. Fra poco, userò categorie espressive che forse non saranno fra le più ortodosse del repertorio critico. Ma, come i più attenti fra di voi noteranno, queste mie affermazioni mirano al duplice effetto di cercare di spiegare qualcosa del Futurismo, applicando nel tempo stesso il “metodo” futurista medesimo.
Nella mia considerazione del movimento artistico futurista, ho sempre faticato a conciliare queste sue due anime all’apparenza così distanti: da una parte, i proclami roboanti, sempre al limite dell’assurdità (vi ricordo soltanto un altro paio di “amenità” invocate dai futuristi: il disprezzo della donna e la distruzione di Venezia…); dall’altra, un fare artistico che sicuramente posso classificare come uno dei miei preferiti, fra quelli espressi dalla modernità. Allora, per dirla nei termini critici eterodossi ai quali accennavo poc’anzi, una simile distonia me la spiego solo con la seguente riflessione: anche ai migliori capita di dire stronzate cosmiche.
Mi si obbietterà che non è questo il modo di analizzare razionalmente un fenomeno storico e artistico. Ma come anticipavo già, così dicendo, non sto facendo altro che applicare la logica teorica futurista, al Futurismo stesso. Provo a spiegarmi meglio, con l’aiuto imprescindibile di Giulio Carlo Argan.
Scrive per l’appunto il grande storico dell’arte: «…Il Futurismo italiano è il primo movimento di avanguardia. S’intende, con questo termine, un movimento che investe nell’arte un interesse ideologico e deliberatamente prepara ed annuncia un radicale rivolgimento di cultura e del costume, negando in blocco tutto il passato e sostituendo alla ricerca metodica un’audace sperimentazione nell’ordine stilistico e tecnico. […] Le avanguardie sono un fenomeno tipico dei paesi culturalmente arretrati; il loro sforzo, benché intenzionalmente rivoluzionario, si riduce generalmente a estremismo polemico…». Nel caso specifico dell’avanguardia Futurista, aggiunge Argan: «…Sotto il gusto dello scandalo e il disprezzo per la borghesia si cela l’inconsapevole opportunismo, e questa contraddizione spiega tutte le altre…».
Ecco dunque che comincia a delinearsi un po’ più chiaramente il mosaico: il contesto sociale e culturale, in cui si ritrovano a vivere i giovani futuristi, è asfittico, provinciale (nell’accezione più negativa del termine), retrivo, statico, legnoso, monolitico. Ciò che innanzitutto interessa loro, è assestare un forte scrollone a questo tetragono edificio. Anche a costo di sparare enormità degne dei più scadenti discorsi da bar, non intendono rinunciare al loro “estremismo polemico” (com’è magistralmente definito da Argan), che a tratti sfocia in un vero e proprio “isterismo polemico”.
Ecco dunque che il giudizio sui futuristi non può fare a meno di biforcarsi: per rimanere nell’ambito dei “francesismi critici”, direi di dimenticare senza tanti rimpianti tutte le “cagate” propagandistiche contenute nei loro manifesti (funzionali tuttavia ai loro intenti di svecchiamento), e invece merita concentrarsi sul notevole grado di innovazione e originalità che seppero esprimere nelle loro opere.
Pochi quadri riescono ad emozionarmi al pari di quelli di Giacomo Balla (1874-1958), di Carlo Carrà (1881-1966), di Umberto Boccioni (1882-1916), di Gino Severini (1883-1964). Tutti questi artisti si sono dedicati in particolare allo studio del dinamismo, rinnovando continuamente la sfida nel cercare di condensare l’essenza del movimento in una immagine statica. E gli esempi delle loro vittorie in questa sfida sono numerosi. Inoltre, non si trattava di mero virtuosismo tecnico o visivo: nelle opere dei futuristi c’è veramente una “capacità filosofica applicata” di cogliere certi aspetti cruciali della realtà. Il tutto, recependo la lezione degli altri importanti movimenti artistici più innovativi dell’epoca, in primis il Cubismo, che aveva inaugurato il concetto della scomposizione “spazio-temporale” dei soggetti e delle scene ritratte. Con il pregio ulteriore, da parte dei maggiori artisti futuristi, di distinguersi per una loro pregevole originalità nella ricerca creativa, un percorso d’indagine non solo autonomo, ma che avrà parecchie influenze di rimando sull’arte europea stessa.
E qui entra in scena (purtroppo in senso non molto lusinghiero) il nostro autore di oggi, con il suo quadro. Ecco cosa mi sento di dire riguardo al dipinto di Baldessari (e la mia non può essere altro che un’analisi limitata, da inesperto): i suoi modi espressivi risentono oltremodo dell’influenza cubista. Diversamente dai suoi più celebri (e non a caso) colleghi futuristi, Baldessari non metabolizza quell’influenza, superandola. A mio modestissimo parre, egli la fa propria, ma in senso eccessivamente emulativo. Non sussiste nel suo dipinto quello scatto inventivo necessario ad aggiungere al discorso un tono di originalità nelle argomentazioni. I “dinamismi” concepiti da Balla, Boccioni, Severini, emanano una vibrazione vitale fortissima; la donna ritratta da Baldessari (ripeto: sempre a mio “cagionevole” parere) sembra invece semplicemente riflessa da un mosaico di specchi rotti.
Come sempre succede nei casi in cui l’immagine del quadro è poco definita (sia in termini di pixel, sia per ragioni artistico-compositive), l’indagine fisiognomica di oggi è facile e difficile al tempo stesso. La donna di Baldessari potrebbe assomigliare a tutte e a nessuna. Tuttavia, anche con i limiti di tali condizioni particolari, non ho voluto rinunciare al gioco.
I volti che ho trovato formano un trittico coerente, sia per le loro caratteristiche come personaggi, sia per il ruolo giocato nel mondo dello spettacolo. Sono tre cantanti italiane e ciascuna a suo modo esprime al meglio i tratti del tipo femminile della “fatalina”. Precisiamo: la fatalina non è una fatalona in tono minore. Anche la fatalina ha le sue brave armi di seduzione e le sa usare con gran maestria. Solo che la sua aura assume un che di più familiare, profuma più di casa o di trattoria, e meno di albergo o ristorante con le stelle. Ve le presento senza tante spiegazioni, perché sono notissime.
Ecco il primo volto:
Qui si tratta ovviamente di Mietta.
Ora la seconda somiglianza:
Questa è Giusy Ferreri.
Ed ecco la terza:
Abbiamo in questo caso Dolcenera.
Per l’occasione, visto il tema cubisteggiante della puntata, mi sono divertito a prolungare il gioco con alcuni strambi assemblaggi dei tre volti. Lascio a voi giudicare se gli esiti sono più inquietanti o bizzarri.
Così si conclude l’appuntamento odierno con la nostra rubrichetta. E ora Kika ci aspetta sul suo blog per le consuete magie artistico-modaiole: da non perdere!
QUESTO BLOG E' FELICEMENTE IMMUNE DAL "PIUTTOSTO CHE"UTILIZZATO (SBAGLIANDO) COME SINONIMO DI "OPPURE"
Gemellaggi e altre Gillipixate...
Cari lettori di andarperpensieri,
Vi ricordo che quasi tutti i venerdì, questo mia variegata paginetta si gemella con il caro blog amico di Kika, la quale vi riveste con grande maestria i soggetti femminili di quadri storici, mentre il vecchio Gillipix indaga fra i volti della modernità, alla ricerca di insospettate somiglianze fisiognomiche. Tutto questo in:
«...Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo...»
Montale (...E' u' Genio) ---
«Vivere? Lo facciano per noi i nostri domestici.»
Villiers De L'Isle Adam ---
«Come tutti gli scansafatiche, anche io volevo scrivere...».
Bruce Chatwin - "What am I doing here" --- «Tempo fa ero indeciso, ma ora non ne sono più così sicuro» Boscoe Pertwee - XVIII secolo
--- «Non mi sono mai pentito di essermi sempre pentito» - Gillipixel - XXI secolo
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